Nel buio pesto riesco ad ascoltarmi. Vedo e so chi sono. E ricordo.
Il primo buio, il più necessario: sono chiusa nell’armadio delle scope. Quella di saggina è a testa in su, riesco a prenderle i capelli solo se mi metto in punta di piedi: è più alta di me. Non la vedo, non vedo niente. Il buio è perfetto: ho fatto scattare la chiusura a calamita. Tac. Eccomi, sono qui.
Lo spazzolone mi pizzica un piede. La cera sa che non può succedere niente, qui. Respiro l’aria buia, felice di non vedere neanche le ombre. Sono al sicuro.
Fuori ci sono gli sguardi che vedono qualcosa di sbagliato, in me. Non so che cosa sia ma, nel buio, io la proteggo.
Non devono scoprirmi, non sanno che ho trovato casa, qui. Direbbero: «Sei pazza? Soffochi».
Non è vero: qui respiro. Fuori ho l’asma: perché il fischio dei polmoni possa ricordarmi che sono viva, contro ogni apparenza.
Devo uscire, prima che mi trovino. Raggiungo la testa della scopa e le strappo un capello. Lo nascondo in tasca, servirà a ricordarmi il nascondiglio, a pungermi le dita, quando smetterò di sentirmi viva. Fra poco.
Fuori c’è la vita finta, fuori ci sei tu: la parte di me che lascio uscire dal buio.
Tu, la bambina della luce, stai giocando in cucina, sembri allegra. Non stai zitta un attimo. Né ferma. Saltelli cercando di atterrare soltanto sulle macchie scure del pavimento di marmo: un piccolo buio dove appoggiarti, in segreto. Per tutti gli altri fai solo rumore. Per me cerchi un posto dove stare, anche su un piede solo. Anche soltanto un secondo: poi voli via.
Non sai scrivere, non sai leggere. Ma conosci le poesie e le inventi.
Sorridi. Cambi gioco. Adesso sei un’istruttrice di pattinaggio artistico. Fai piroette in sala, dando ordini ad alunne inesistenti e composte. Come vorresti essere tu.
Ce l’hai quasi fatta: sei una bambina intenta a giocare, una brava bambina. Stai sopportando la luce del pomeriggio e la paura. Abbassi la guardia e ti distrai, mentre saltelli verso il frigorifero per prendere un bicchiere di latte. Atterri su una piastrella bianca, e resti di pietra.
La mamma dice: «Lo sai, vero?». Fai un altro salto, senza chiudere il sorriso, come se niente fosse. Sei brava a far finta: meno male che ci sei tu, in cucina, a reggere la parte. So che cosa sta per dirti. Lo sai anche tu. Eppure ridi.
«Lo sai, vero, di essere matta?»
Non rispondi, aspetti che passi e intanto saltelli. O forse aspetti me, la bambina del buio, quella che è sempre lì, chiusa in mezzo alle scope.
«Lo sai che basta il parere di due medici e tu finisci, per sempre, in manicomio? E da lì non ti può tirare fuori nessuno, nemmeno io che sono la tua mamma.» Continui a saltellare, stai bene attenta a beccare sempre il nero. «Hai capito? Hai idea di che cosa sia un manicomio?»
Alzi le spalle e voli via. Non hai fatto in tempo a bere il latte. Ma a rovesciarlo per terra, sì. Proprio sulla piastrella nera. Non c’è più salvezza per te. Ci sono solo io, nell’armadietto buio.
Io. Io lo so che cos’è un manicomio. Ho visto le foto su «Oggi», a casa della nonna. Lei dice che, prima o poi, li chiuderanno tutti, povera gente. Ma chissà quanto tempo ci vorrà, ancora. Forse tutta la mia vita.
Ho visto le foto di materassi sfondati dalla pipì e di latrine rotte. Poi quella di una donna legata con le manette a un calorifero. Sarà stato spento o acceso? Sembrava non importarle: lei non era lì. Chissà dov’era. Avrà avuto anche lei uno sgabuzzino buio in cui tornare a sentire le cose, il dolore persino?
Non ho potuto vederle gli occhi, ma scommetto che non li ha come i tuoi, altrimenti non sarebbero riusciti a metterla in gabbia. Tu hai uno sguardo che è uno scudo. È una parete luminosa e dura che respinge i colpi e ti dà il tempo di scappare. In un’altra stanza, in una risata. Oppure nel buio, da me.
È sera. Dalla tapparella filtra una luce, che nega il mio buio e mi impedisce di vedere davvero. Tolgo i calzoni del pigiama e me li annodo sugli occhi a mo’ di mosca cieca. Poi ficco la testa sotto le coperte: eccomi, sono qui.
Prendo i piedi con le mani: cerco di abbracciarmi il più possibile. Tocco tutto quello che posso. Devo trovarmi: le gambe, la faccia. Per fortuna fa freddo e i brividi mi fanno sentire che ho anche la schiena. Ci sono.
Adesso sento tutta la paura. Dunque andrò al manicomio. O almeno: ci andrei. Se non ci fossi tu a proteggermi: l’hai fatto oggi, lo farai anche domani. Se smetti di combattere finiremo legate a un calorifero. Se smetto di rannicchiarmi al buio, tu non saprai più dove appoggiare il tuo dolore. È troppo grande per starci tutto, in punta di piedi, su una piastrella buia, in cucina. Tu e io ce la faremo, vedrai.
Tu. Tu cerchi di evitare il discorso. Ogni discorso. Per questo continui a cantare, anche mentre la mamma dice: «Non ti preoccupare, è il nostro segreto. Non lo dirò a nessuno. Che sei matta, lo sapremo solo io e te. Nessun medico, se fai la brava. Non permetterò a nessuno di avvicinarsi a te. Che nessuno capisca. Tu abbassa gli occhi, però. Tienili giù. Non ti scopriranno». Tu li alzi, gli occhi. Guardi la mamma e lanci un grido: l’ultimo, che io ricordi. Definitivo.
Nell’armadietto delle scope, ormai, non ci sto più. Sono mesi che cerco di essere buona. Non grido, mangio il pesce che mi fa schifo, dico solo le poesie che mi hanno insegnato. Niente parole a vanvera. Sono chiunque mi si chieda di essere. Faccio qualunque cosa debba fare.
La mamma mi dice di passarle le lenzuola, che lei è sulla scala e le deve mettere in pila nell’armadio alto. È la mia occasione per farle capire che sono cambiata. E sono perfetta. Le rispondo: «Sì, mamma, subito mamma». Lei mi guarda: è ferma, in cima ai gradini. Scende adagio, è qui. Allunga la mano in uno schiaffo e dice: «Non prendermi in giro, io so chi sei». Chi sono?
Sta tornando la sera e il mio buio necessario si avvicina. Fra qualche ora sarò nel mio letto e potrò giocare a «sono a casa»: sotto le coperte, ho inventato un salotto e una cucina. Ci ho messo anche il profumo di cera e quello del camino. Fra qualche ora, sarò lì. Forse ospiterò qualche amico immaginario. Forse no.
Metto il golfino: pizzica, dunque sono viva. A tavola mi accarezzo le braccia. «Stai composta!» dice la mamma. E io sento che non posso aspettare l’ora di andare a letto, ho bisogno del buio, subito: chiudo gli occhi senza stringerli troppo, altrimenti vedo le stelline. E io voglio solo vedere chi sono.
Amo la mia maestra perché mi ha insegnato a scrivere. La odio perché prende per le orecchie la più povera della classe che «è così somara che nemmeno riesce a lavarsi la faccia, la mattina». La odio perché vuole che ci mettiamo tutte sull’attenti quando entra il direttore, ma non degna neanche di uno sguardo il bidello che viene a riempirci i calamai e a me sembra un angelo con le mani sporche di blu. A lui non dobbiamo nemmeno dire «grazie». La odio, ma mi ha insegnato a scrivere.
Da quando ho la scrittura ho sempre con me il mio buio. So che posso sopportare qualsiasi cosa, perché, poi, la scrivo. Comincio a farlo già mentre succede: scrivo a mente. Con i punti e le virgole. Evito le ripetizioni, cancello gli errori.
Le parole che abitano ordinatamente la mia testa mi rendono giustizia. La verità ha un posto nelle mie righe. Le parole mi salvano e, a volte, mi fanno persino ridere: se racconto della maestra che si mette di nascosto il rossetto, prima della campanella dell’intervallo (scema: il direttore nemmeno la vede).
Scrivo, scrivo senza né carta né penna. Scrivo e ringrazio, a mente, chi ogni giorno riempie il mio calamaio. E mi indica una possibilità. E la salvezza: scriverò fino a star bene.
Le poesie che ho in testa non le leggerà nessuno. So per certo che, se qualcuno lo facesse, finirei in quel manicomio che ho evitato grazie al silenzio della mamma. E se fosse lei a trovarle, morirebbe di spavento: come chi trova un insetto gigante nelle lenzuola, lavate ostinatamente con la candeggina.
Però ho bisogno di scrivere. E così mi chiudo in bagno, con un quaderno a righe. Ne esco che è pieno di rime baciate: campane che suonano a distesa e rondini che tornano a primavera. Tremende. Ma, almeno, posso lasciarle sul tavolo.
La mamma le trova, le legge al telefono alla nonna: «È brava davvero,» le dice «ha talento».
Con me, invece, non fa commenti, non si usa dire «vai bene». Meglio così: un complimento a quella roba scritta dalla bella copia di me sarebbe peggio di uno schiaffo. Come può la mamma riconoscermi in quella solfa di rondini e campane?
Corro a ripassare le righe che ho chiuse nella testa: la mia poesia muta.
Ho 13 anni. Da tempo io e te siamo una persona sola. Ho i capelli che non stanno mai fermi. Ho le mani che punto sui fianchi quando sfido la professoressa di latino. Ho i piedi che non vogliono stare nelle scarpe e, per togliermele di nascosto, mi piazzo sempre in un banco in ultima fila. Ho un seno troppo grande per i miei anni e per le mie possibilità. Quindi lo ignoro: ho deciso che, se non lo guardo, non c’è. Non ho gambe, non ho braccia. Non ci sono.
La preside convoca mia madre: reggiseno, subito. E poi un grembiule nero, come tutte le alunne, ma io lo terrò allacciato fino al collo, per imparare la modestia. E i capelli: legati, con un elastico che me li strappa tutti, ogni volta che provo a toglierlo.
Quando esco da scuola, mi spoglio nel bagno del bar all’angolo. Non è per sentirmi libera. È per non sentirmi affatto: il reggiseno stringe e segnala una presenza che non posso sopportare. L’elastico mi impedisce di nascondermi la faccia, mi rende irriconoscibile ed esposta.
Esco dal bagno e sorrido alla Giovanna, che sta già cominciando a fare i compiti, seduta al tavolino: «Che palle, ma cosa ci fai lì dentro da un’ora?». «E tu? Hai ordinato la focaccia?»
La mangiamo correndo verso il tram: metà per uno, siamo amiche.
Se arriviamo in ritardo alla fermata, voliamo al semaforo e bussiamo al tranviere. «Ci fa salireeee?» Devo chiederlo sempre io, l’ha deciso la Giovanna. Dice: «Dillo tu che sei bella». Bella, io.
«Dillo tu che sei bella.» «Fallo tu che sei bella.» «Tu non capisci perché sei bella.» Ma di chi sta parlando?
Non glielo chiedo mai per non rompere l’incantesimo. È così strana quella parola su di me. È come se qualcuno sostenesse che sono la migliore in matematica (io che copio, sbuffando, con qualche svarione, dalla Giovanna) o che sono una centometrista nata (io che non ho fiato neanche per correre in fondo alla palestra). Bella. Che bella parola.
Capisco che cosa vuol dire solo quando vado a cavallo. Non sono più io. Sono un animale felice che sa sempre quello che deve fare e come farlo. Quando monto non ho bisogno del buio per vedere se esisto. Ho solo bisogno che continui per sempre, o almeno per oggi. Sento che ho le gambe forti. Le mani ferme. Lo sguardo dritto. Sento. Poi mi porto a casa tutto quello che posso: l’odore di stalla, il fango sugli stivali. La prova della mia esistenza in vita.
Sono a cavallo ed è mattina. Dovrei essere all’università, a dire il vero. Ma c’era la nebbia, quando mi sono svegliata. E la mia voglia immensa di raggiungerla, dove è davvero fitta. Il mio piccolo buio, il mio guscio.
Ho preso gli stivali e un maglione in più, grande, quello un po’ infeltrito del papà. La macchina (speriamo ci sia benzina), la superstrada. Il maneggio. Eccomi. Dopo un’ora sono fradicia di nebbia: i capelli, il maglione, la sella. Tutto pesa il doppio. Tutto è più vivo e vero di quando sono arrivata.
Torno a casa, sperando di trovare prima un phon che lo sguardo di mia madre. Penso a come buttare di nascosto i jeans in lavatrice e a dove mettere il resto ad asciugare. Suono alla porta e nessuno viene ad aprire. L’ho fatta franca: non c’è neanche la cameriera. Chissà. Entro, stendo, mi lavo, mi asciugo. Mamma mia, oggi sono bella davvero. Mi guardo allo specchio, deve essere questa la ragazza di cui parla la Giovanna.
Non lo sapevo. Mio padre è morto mentre andavo a cavallo. Mentre io entravo in casa, felice di essere sola, il resto della famiglia era corso in ospedale, da lui: che non c’era già più.
È morto mentre io ero felice. È morto perché io ero felice? No, questo pensiero è intollerabile. Più della sua morte. Più del pensiero di sopravvivere senza i suoi sorrisi indulgenti e le sue battute surreali.
Devo decidere subito. Se voglio vivere, questo pensiero deve sparire, per sempre. Lo scrivo su un pezzo di carta. Diventa la mia ultima lettera per lui, gliela metterò in tasca: la mia paura di averlo lasciato solo lo accompagnerà. Ne sorriderà. Dove non posso più proteggerlo.
Non riesco a piangere. Sono congelata in una specie di sollievo. È morto, finalmente. Il momento che ho temuto per tutta la vita è arrivato. Di colpo e in sil...