L'afghano
eBook - ePub

L'afghano

  1. 294 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Peshawar, Pakistan. Dal computer di un sospetto terrorista i servizi segreti inglesi e americani vengono a sapere che Al-Qaeda sta progettando un piano destinato a superare, per effetti distruttivi, gli attacchi dell'11 settembre 2001. Nessun'altra informazione è accessibile. Per pianificare una strategia di intervento occorre infiltrare un uomo nelle file dell'organizzazione di Osama bin Laden e l'unico in grado di farlo è l'ex colonnello delle forze speciali britanniche Mike Martin, un veterano di vari fronti nato e cresciuto in Iraq. Divenuto l'Afghano, Martin si infiltra in Al-Qaeda. Riuscirà a scoprire la verità? E, soprattutto, a sventare lo spaventoso attentato destinato a sconvolgere per sempre gli equilibri tra Occidente e mondo islamico?
Costruita in uno scenario verosimile e inquietante, L'Afghano è una storia spietata e di grande forza che conferma Frederick Forsyth come un maestro assoluto del thriller.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a L'afghano di Frederick Forsyth, Giuliana Picco in formato PDF e/o ePub. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804580058
eBook ISBN
9788852038686

Quarta parte

IL VIAGGIO

10

Fu un viaggio lungo e faticoso. A bordo, per risparmiare, non c’erano servizi di ristoro. L’Hercules trasformato in prigione stava facendo un favore al governo afghano, che sarebbe dovuto andare a prendere il suo uomo a Cuba, ma non disponeva di velivoli adatti allo scopo.
Fecero scalo nella base americana delle Azzorre e a Ramstein, in Germania, ed era il tardo pomeriggio del giorno seguente quando il C-130 scese verso la grande base aerea di Bagram, al confine meridionale della desolata piana dello Shomali.
L’equipaggio era stato cambiato due volte, a differenza della squadra di scorta che era rimasta al suo posto, leggendo, giocando a carte, facendo un pisolino mentre l’aereo si dirigeva sempre più a est. Il prigioniero rimase legato. Anche lui dormì meglio che poté.
Quando l’Hercules rullò sul piazzale vicino agli enormi hangar che dominano la zona americana all’interno della base di Bagram, il gruppo di accoglienza era in attesa. Il maggiore americano al comando della scorta fu lieto di constatare che all’afghano non venivano concesse chance di fuga. A una certa distanza dal furgone c’erano venti soldati delle forze speciali afghane guidati dal comandante dell’unità, il brigadiere Yusuf.
Il maggiore scese in fretta dalla rampa per sbrigare le pratiche prima di consegnare il suo carico. Ci vollero pochi secondi. Poi fece un cenno ai suoi colleghi, che liberarono il prigioniero e lo guidarono nel gelido inverno afghano.
I militari lo circondarono, lo trascinarono fino al furgone e ve lo spinsero dentro. Il maggiore statunitense non avrebbe mai voluto trovarsi al posto dell’altro. Lanciò un saluto al brigadiere, che ricambiò.
«Faccia molta attenzione, signore» disse l’americano. «Quell’uomo è un vero duro.»
«Non si preoccupi, maggiore» replicò l’ufficiale afghano. «Passerà il resto dei suoi giorni nella prigione di Pul-i-Charki.»
Pochi minuti più tardi il furgone partì, seguito dal camion con i soldati delle forze speciali afghane. Prese la strada diretta a sud, verso Kabul. Fu solo con la più completa oscurità che il furgone e il camion si separarono in quello che in seguito venne ufficialmente descritto come uno sfortunato incidente. Il cellulare procedette da solo.
Pul-i-Charki è un posto spaventoso, incombe minaccioso a est di Kabul, vicino alla gola verso l’estremità orientale della piana. Durante l’occupazione sovietica era controllato dal KHAD, la polizia segreta afghana, e al suo interno risuonavano le continue urla dei torturati.
Durante la guerra civile vi lasciarono la vita parecchie decine di migliaia di prigionieri. Le condizioni erano migliorate dalla creazione di una nuova Repubblica dell’Afghanistan democraticamente eletta, ma gli spalti in pietra, i corridoi e le prigioni sotterranee sembravano ancora echeggiare delle urla dei suoi fantasmi. Fortunatamente, il cellulare non vi arrivò mai.
Quindici chilometri dopo la sparizione della scorta militare, da una strada laterale sbucò un pick-up che si piazzò alle spalle del furgone. Quando questo fece il segnale con i fari, l’autista si fermò in una radura precedentemente perlustrata a lato della strada e dietro una macchia di alberi striminziti. Qui avvenne la “fuga”.
Il prigioniero era stato liberato dalle manette non appena il furgone aveva superato l’ultimo controllo nel perimetro di Bagram. Poi si era cambiato indossando uno shalwar kameez grigio di lana e gli scarponcini che gli erano stati dati. Subito prima di infilare il maglione, si era avvolto intorno al capo il famigerato turbante nero dei talebani.
Il brigadiere Yusuf, sceso dalla cabina del furgone per avvicinarsi al pick-up, assunse il comando. C’erano quattro cadaveri sul pianale.
Tutti arrivavano freschi dall’obitorio cittadino. Due, con la barba e gli abiti tipici dei talebani, erano in realtà muratori morti in seguito al crollo di un’impalcatura. Gli altri due provenivano da incidenti automobilistici diversi. Le strade afghane sono così piene di buche che la parte più conveniente dove guidare è il centro della carreggiata. Siccome è considerato poco virile spostarsi di lato solo perché sta arrivando qualcuno nella direzione opposta, le vittime degli incidenti raggiungono cifre impressionanti. I due corpi ben rasati avevano addosso l’uniforme delle guardie carcerarie.
Sarebbero stati trovati con le pistole in mano, morti; i proiettili vennero esplosi contro i corpi seduta stante. I cadaveri dei talebani protagonisti dell’imboscata furono gettati sulla strada, anche loro colpiti da pallottole provenienti dalle pistole delle guardie. Lo sportello del cellulare fu colpito violentemente con un piccone e lasciato a ciondolare aperto. Era in queste condizioni che il veicolo sarebbe stato trovato il giorno seguente.
Quando la messinscena fu completata, il brigadiere Yusuf si sedette nel pick-up accanto al guidatore. L’ex prigioniero si arrampicò nel retro con due uomini delle forze speciali. Tutti e tre si avvolsero il lembo libero del turbante intorno al volto per proteggersi dal freddo.
Il pick-up costeggiò Kabul e tagliò per la campagna fino a che incrociò la strada principale a sud di Ghazni e Kandahar. Qui aspettarono che, come ogni notte, si formasse la lunga colonna di quelli che in Asia sono noti come camion “tintinnanti”.
Sembrano essere stati costruiti un secolo fa. Sbuffano e intasano qualunque strada del Medio ed Estremo Oriente, emettendo nubi di soffocante fumo nero. Si vedono spesso in panne lungo il margine delle strade, l’autista che arranca rassegnato per chilometri e chilometri alla ricerca del pezzo di ricambio.
Riescono a issarsi su impossibili valichi montani, lungo i fianchi di nude colline su sentieri che si sfaldano. Ma rappresentano la linfa commerciale di un continente, con il loro incredibile carico di scorte portate agli insediamenti più piccoli e isolati e alle persone che vi vivono.
Gli inglesi cominciarono a chiamarli camion tintinnanti molti anni fa a causa delle loro decorazioni. Sono accuratamente dipinti su ogni superficie disponibile con scene religiose e storiche, rappresentazioni tratte dal cristianesimo, dall’Islam, dall’induismo, dal sikhismo e dal buddhismo, spesso splendidamente mescolate. Sono bardati con fiocchi, fili d’argento e anche campanelli. E pertanto, tintinnano.
In coda sulla strada a sud di Kabul se ne contavano parecchie centinaia, con gli autisti addormentati nelle cabine, in attesa dell’alba. Il pick-up si fermò in fondo alla fila. Mike Martin saltò giù dal retro e andò al finestrino del guidatore, che aveva buona parte del volto coperta da una sciarpa a quadri. Il brigadiere Yusuf, sul sedile accanto, gli fece un cenno con la testa, ma non disse nulla. Fine della strada. Inizio del viaggio.
Mentre si voltava per andare, Martin sentì l’autista dire qualcosa.
«Buona fortuna, boss.»
Di nuovo quella parola. Solo il SAS chiama i propri ufficiali “boss”. Quello che il maggiore a Bagram ignorava mentre faceva la consegna era non solo l’identità del suo prigioniero, ma che da quando si era insediato il presidente Hamid Karzai le forze speciali afghane, dietro sua richiesta, erano addestrate dal SAS.
Martin si voltò e cominciò a risalire a piedi la fila di camion. Alle sue spalle le luci posteriori del pick-up sbiadirono mentre si dirigeva nuovamente verso Kabul. Nella cabina il sergente fece una telefonata con il cellulare a un numero di Kabul. A rispondere fu il suo capoarea. Il sergente pronunciò due parole e chiuse la comunicazione.
Anche il capo del SIS per tutto l’Afghanistan fece una telefonata su una linea sicura. Erano le quattro del mattino a Kabul, le undici di sera in Scozia. Un messaggio di una riga apparve su un monitor. Phillips e McDonald erano già nella stanza, nella speranza di vedere quello che effettivamente videro. Crowbar procedeva.
Su una strada tutta buche, al gelo, Mike Martin si concesse un’ultima occhiata alle sue spalle. Le luci rosse del pick-up erano sparite. Si voltò e continuò a camminare. Nel giro di un centinaio di metri sarebbe diventato l’“Afghano”.
Sapeva che cosa stava cercando, ma dovette superare un centinaio di camion fermi in coda prima di trovarla: una targa di Karachi, Pakistan. Difficilmente l’autista sarebbe stato un pashtun, e così non avrebbe notato la sua scarsa padronanza del pashto. Era più probabile che fosse un baluci di ritorno a casa nella provincia pachistana del Belucistan.
Era troppo presto, e non conveniva svegliare il conducente del camion prescelto; gli uomini stanchi destati all’improvviso non sono del loro umore migliore, e Martin aveva invece bisogno di trovare una persona bendisposta. Intorno alle sei, con le prime luci dell’alba, iniziò un certo movimento. Sul ciglio della strada qualcuno mise sul fuoco un pentolino. Nell’Asia centrale si trascorre buona parte della vita dentro o vicino a una chaikhana, o casa da tè, per la quale bastano un fuoco, una miscela di tè e un gruppo di uomini. Martin si diresse verso la fiamma per scaldarsi le mani.
L’uomo che stava preparando il tè era un pashtun poco loquace, e ciò non dispiaceva a Martin, che si era tolto il turbante, lo aveva srotolato e riposto nella sacca che gli pendeva dalla spalla. Non sarebbe stato saggio rendere noto di essere un talebano prima di sapere se la compagnia era solidale. Con un pugno di afghani, la moneta locale, comprò una tazza fumante e la sorseggiò con piacere. Pochi minuti dopo, il baluci scese ancora mezzo addormentato dal suo camion e si avvicinò.
Sorse l’alba. Alcuni dei veicoli in fila cominciarono a dare cenni di vita mandando pennacchi di fumo nero. Il baluci fece ritorno al suo veicolo. Martin lo seguì.
«Salute, fratello.»
Il baluci ricambiò il saluto, sospettoso.
«Sei per caso diretto a sud, verso la frontiera e Spin Boldak?»
Se l’uomo era diretto in Pakistan, la piccola città di frontiera a sud di Kandahar sarebbe stato il punto in cui avrebbe attraversato il confine. Ormai Martin sapeva che c’era una taglia sulla sua testa. Avrebbe dovuto aggirare i controlli di frontiera a piedi.
«Se Allah lo vuole» rispose il baluci.
«Allora, in nome del misericordioso, daresti un passaggio a un pover’uomo che cerca di tornare a casa dalla sua famiglia?»
Il baluci rifletté. Di solito, durante le lunghe trasferte a Kabul lo accompagnava suo cugino, ma ora era a Karachi ammalato. Durante questo viaggio lui aveva guidato da solo ed era esausto.
«Sai guidare uno di questi?» chiese.
«A dire la verità, faccio l’autista da molti anni.»
Si diressero a sud con il silenzio come compagnia, ascoltando musica pop orientale da una vecchia radio di plastica appoggiata sopra il cruscotto. Strideva e fischiava, ma Martin non sapeva se si trattasse di un problema di elettricità statica o di sintonia.
Il giorno trascorse lento e con il camion scoppiettante passarono per Ghazni diretti verso Kandahar. Lungo la strada si fermarono per bere tè, mangiare la solita carne di capra con il riso e fare rifornimento. Martin contribuì alle spese con il suo gruzzolo di monete e il baluci divenne molto più amichevole.
Sebbene Martin non parlasse né l’urdu né il dialetto baluci, e l’uomo di Karachi parlasse solo un po’ di pashto, con il linguaggio dei segni e l’arabo appreso dal Corano riuscivano a intendersi abbastanza bene.
Ci fu un’altra fermata notturna a nord di Kandahar, perché il baluci non voleva procedere con il buio. Si trovavano nella provincia di Zabol, paese selvaggio popolato da uomini selvaggi. Era più sicuro guidare alla luce del giorno insieme ad altri autocarri. A preferire la notte erano i banditi.
Alla periferia nord di Kandahar, Martin disse di aver bisogno di fare un pisolino e si rannicchiò sulla panca dietro i sedili che il baluci usava come letto. Kandahar era stata il quartier generale e la roccaforte dei talebani, e Martin non voleva che un talebano pentito pensasse di aver visto un vecchio amico su un camion di passaggio.
A sud di Kandahar sostituì di nuovo il baluci al volante. Era metà pomeriggio quando arrivarono a Spin Boldak; Martin affermò di vivere nella periferia settentrionale, salutò ringraziandolo il camionista e scese qualche chilometro prima del posto di frontiera.
Siccome non parlava pashto, il baluci aveva tenuto la radio sintonizzata su una stazione musicale e quindi non aveva ascoltato i notiziari. Al confine le code erano anche più lunghe del solito, e quando finalmente arrivò alla barriera gli fu mostrata una fotografia: un volto dalla barba nera, un talebano, lo fissava.
Il camionista era un onesto lavoratore. Voleva andare a casa da sua moglie e i suoi figli. La vita era già abbastanza dura: perché passare giorni, o anche settimane, in una prigione afghana cercando di spiegare di non sapere assolutamente nulla?
«In nome del Profeta, non l’ho mai visto» giurò, e lo lasciarono andare.
“Mai più” pensò mentre si dirigeva a sud sulla strada per Quetta. Forse proveniva dalla più corrotta città asiatica, ma almeno era la sua città. Gli afghani non erano la sua gente, perché farsi coinvolgere? Si chiese di che cosa fosse responsabile il talebano.
Martin era stato avvisato che il sequestro del furgone, l’assassinio delle due guardie e la fuga di un prigioniero tornato da Guantanamo non potevano essere coperti. Tanto per cominciare, l’ambasciata americana avrebbe fatto chiasso.
La “scena del delitto” era stata scoperta da una pattuglia inviata sulla strada di Bagram dopo che alla prigione non avevano visto arrivare il furgone. La perdita di contatto fra questo e la sua scorta armata fu attribuita a incompetenza. Ma la liberazione del prigioniero era chiaramente opera di una banda talebana. Si cominciò una battuta per cercarli.
Sfortunatamente, l’ambasciata americana aveva fornito al governo afghano una fotografia che non poteva essere ignorata. I capi locali della CIA e del SIS avevano cercato di rallentare il corso degli eventi, ma non avevano potuto fare molto di più. Quando tutti i posti di frontiera ricevettero la fotografia inviata via fax, Martin era ancora a nord di Spin Boldak.
Sebbene non sapesse nulla di tutto questo, era determinato a non correre rischi attraversando i passi di frontiera. Si rifugiò sulle colline sopra Spin Boldak e attese l’oscurità. Dal punto in cui si era arrampicato osservò la distesa di terra e la strada che avrebbe seguito nella marcia notturna che stava per intraprendere.
La piccola città distava otto chilometri in linea d’aria. Poteva vedere la strada su cui serpeggiavano i camion che la percorrevano e il massiccio, vecchio forte ch...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Frederick Forsyth
  3. L'afghano
  4. Prima parte - STINGRAY
  5. Seconda parte - GUERRIERI
  6. Terza parte - CROWBAR
  7. Quarta parte - IL VIAGGIO
  8. Epilogo
  9. Copyright