Con un parallelo letterario più forzato nella realtà di quanto non risulti nella finzione, come per Humbert Humbert ci fu Annabel prima di Lolita, si può dire che per Spera prima di Mel ci fu Erika.
Erika Paterà.
La prima cosa che ha davvero desiderato, da quando ha iniziato a desiderare, è stata lei. Lei e il suo cognome, uguale a quello del pediatra che lo aveva in cura (e che le era zio).
Nei suoi ricordi, nipote e zio si uniscono in una specie d’androgino, assurgendo a mito greco della sua infanzia.
Il profumo dello shampoo dei riccioli neri di Erika si confonde all’odore di disinfettante e sigaro toscano (le scarpette bianche di vernice si mischiano agli occhiali di tartaruga, i Chupa Chups alla fragola alle cravatte regimental).
Le visite dal pediatra consistevano in un rassicurante check-up con tanto di tagliando – un certificato che veniva consegnato alla madre e un cioccolatino che trasmigrava in un lampo dalle mani del dottore alla bocca di Spera in un unico fluidissimo gesto –, prova tangibile della sua allora sanissima costituzione.
Il Dr Paterà lo rendeva invulnerabile.
Sua nipote lo rendeva schiavo.
Oltre a una svagata concezione della pudicizia, grazie alla quale Spera assaggiò precocemente la sua prima imberbe passerina e diede per la prima volta da assaggiare il suo lustro lombrico, Erika aveva una passione smodata per i baci sul collo.
Può davvero ricordarla (immaginarla?!?) gemere mentre, iniziando a mordicchiarla dall’attaccatura dei suoi nerissimi ricci, le fa scorrere la lingua lungo la giugulare?
E fremere sotto le sue carezze, contorcersi sotto le sue mani, divincolarsi per farsi finalmente catturare, stremata, dentro la cucina di plastica?
Si rende conto che si trattava di una bambina di circa cinque anni?
È proprio convinto che lui e lei, scodinzolanti come cerbiatti, si siano sfregati le parti intime nel disperato (quanto vano) tentativo di ottenere un qualche tipo di soddisfazione mentre la maestra Hilde leggeva ai loro compagni le disavventure dei tre porcellini?
Ed è assolutamente certo, Spera, in maniera inconfutabile, di aver scoperto, in un tetro pomeriggio di novembre, che la sua amabilissima e lasciva fidanzatina avesse una tresca clandestina con metà della classe, compreso un individuo ributtante e gigantesco (che avrebbe dovuto essere come minimo in prima elementare) di nome Matteo Volpi?
No, Spera non può affermarlo con certezza.
Ma gli sembra di ricordare con precisione la voracità con cui morse sul braccio un ricciolino dai capelli biondissimi che a quanto pareva vantava diversi rendez-vous con la sua adorata Erika Paterà.
E ricorda esattamente quando, di fronte a sua madre e all’attonita maestra Hilde, interrogato nel dettaglio in merito al suo gesto violento rispose: «Io li ammazzo, li ammazzo tutti, lei è mia, io li chiudo in una gabbia, li chiudo tutti in una gabbia!».
Che abbia sempre sofferto di allucinazioni?
Che abbia sempre avuto la tendenza a sentirsi circondato da viscidi Quilty, appostati in ogni dove per sottrargli il suo prezioso tesoro?
Difficile sostenere che una qualche forma probabilmente crescente di paranoia non abbia giocato un ruolo fondamentale in questa storia.
Fra i tanti approcci con cui l’uomo si è interrogato sulla sua natura, secondo Spera quello psicanalitico è senz’altro il più fuorviante. Partendo da inverosimili premesse, giunge ad ancor più fantasiose conclusioni.
Ma benché vi abbia indugiato sovente, Spera rifiuta di rileggere le sue azioni con la lente deformante di un cieco determinismo.
Difatti per lui non ci sono prove che l’idea di fare quello che ha fatto di Mallory InWonderland (che Dio l’abbia in gloria), la sua Mel, sia germinata in quella classe d’asilo in un tempo imprecisato sul finire degli anni Ottanta.
Nessunissima prova.
Anzi, adesso, scrivendo scopre che gli è richiesto uno sforzo inaspettato per acciuffare tutti quei dettagli ornamentali che credeva ben custoditi nella dura madre o in qualche altro recesso connettivo del suo encefalo. Invecchiando, ammalandosi, ricorda con esattezza alcuni aspetti particolarmente pruriginosi del proprio passato. Ma una panoramica più generale sulla propria vita sembra tutt’altro che alla sua portata. I ricordi più abusati diventano degli arcigni nemici. Costellando di una massa virulenta di “avrei potuto” e “se solo avessi” ogni frammento di ogni piastrella di ogni stanza che si è abitata. Ecco le metastasi più pericolose. Le cellule impazzite che ricoprono quelle stanze fino a deformarle.
Ma il resto?
Spera chiede perdono se parte di quel che scrive sembrerà confusa, e altra inventata.
Dal canto suo cercherà di essere il più esatto e rapido possibile per arrivare al punto della faccenda che ci interessa.
E il punto è, se gli è permesso ribadirlo, perché l’ha ammazzata.
Ma tornando all’antenata di Mel, che gli provocava tanta confusione e tante incertezze, di una cosa Spera è indiscutibilmente certo: quella che attorno ai quattro anni gli sembrò l’unica moda possibile da seguire – impastare polpette di pane grattugiato a forma di tette dentro il cucinino dell’asilo –, fu una diretta conseguenza dell’enorme potere erotico di Erika Paterà.
Il piccolo Alessandro e i suoi compagni, compresi quelli che aveva desiderato imprigionare dentro inespugnabili segrete, erano ossessionati dalla riproduzione dei seni femminili.
Non ricorda a chi venne l’idea.
Né in che modo.
Spera rammenta soltanto che giornalmente venivano all’asilo equipaggiati di pane grattugiato sottratto nottetempo nelle dispense delle loro mamme e nascosto nelle tasche dei grembiulini.
Una volta in classe, a turno, andavano in bagno e trasportavano l’acqua per produrre l’impasto dentro le mascelle serrate, come dei piccoli, paffuti roditori.
Ogni tanto qualcuno, scoppiando a ridere perché attaccato col solletico, inondava il corridoio costringendo le bidelle ad asciugare il – fino ad allora – lucidissimo linoleum.
Altre volte, durante una corsa prima di essersi svuotati le tasche, qualcuno si produceva in una restaurata versione della fiaba di Pollicino disseminando di briciole il – non più lucidissimo – linoleum.
Ma solitamente tutto filava liscio.
Seminascosti in ciò che allora gli sembrava una sorta di bunker fatto di fornelli rosa e tendine azzurre, impastavano quelli che sarebbero tranquillamente potuti essere scambiati per manufatti votivi a una dea della fertilità.
Grossi, deformi, oblunghi seni prendevano forma dalle loro manine impiastricciate e si essiccavano placidamente in ogni nicchia della loro classe.
Spera e quei piccoli fanatici trascorrevano tutte le ore libere dalle attività comuni in quella casetta, come indemoniati, come anni dopo con le seghe di gruppo, apparentemente privati di ogni volontà individuale e costretti a un lavoro la cui frenesia li rapiva e li rendeva suscettibili, guardinghi.
Chiunque non fosse intento a costruire seni, o non fosse impegnato in un’attività funzionale al loro realizzarsi o alla loro adorazione, probabilmente cospirava per sottrarli al legittimo proprietario.
La paranoia regnava sovrana.
Tutto ruotava attorno a quegli oggetti di culto.
Tutto si strutturava in base a quel rito.
A che scopo?
Spera non saprebbe dirlo.
A un certo punto, come sempre, nello stesso modo in cui la cosa era iniziata finì.
La setta si dissolse e quei mocciosi ridivennero padroni di gestire, organizzare o mandare a puttane le loro vite senza sottostare al giogo di una temibile dea della sessualità di cinque anni.
Che quella pratica tanto originale quanto inquietante abbia lasciato degli strascichi nello Spera amante e nello Spera scrittore è, com’è ovvio, più che probabile.
Sarebbe utile sapere che fine ha fatto Erika Paterà, ma purtroppo terminò l’asilo un anno prima di lui e Alessandro non ne seppe più nulla.
È ampiamente dimostrato, attraverso la ricostruzione degli avvenimenti, che fin da piccolo Alessandro Spera ha sentito una certa vocazione per l’omicidio.
E per i piani macchinosi.
Magari un gene recessivo latitava, atavico, nei garbatissimi lombi del padre ragioniere.
William Bora, e il modo in cui Spera all’asilo tentò di eliminarlo, è un chiaro esempio di quel che può essere inquadrato come il primo segnale che qualcosa non andava.
Ma sono prima necessarie alcune precisazioni: all’asilo pubblico del sobborgo genovese vicino al porto cui venne iscritto Spera, una delle variabili della merenda, oltre al pane col cioccolato, era il pane con la marmellata.
Un abominio, dal suo punto di vista.
Anni dopo non gli fu difficile, secondo le consuetudini che la sua formazione marxista gli aveva così profondamente inculcato, rendersi conto di essere stato esattamente il prodotto della sua generazione, del suo tempo, e di quel garbuglio sgargiante che sono stati gli anni Ottanta. L’esempio perfetto era il suo rapporto con il pane e marmellata, proprio perché quel cibo retrogrado era per lui qualcosa di incomprensibile, che associava alla povertà e alle famiglie svantaggiate dei quartieri peggiori del suo.
Anche se in pratica si trattava solo di poche case più in su, nei cosiddetti “casoni” viveva, secondo quello che gli pareva di aver intuito dai discorsi di sua madre, una plebaglia composta di prostitute, alcolizzati e delinquenti che con la rispettabilissima famiglia Spera non aveva nulla a che spartire.
Il suggestionabile Alessandro vedeva fra la sua famiglia e quel mondo gretto un muraglione. In casa Spera, sotto l’egida della madre ipnotizzata dal luccicante universo di possibilità offerto dalle réclame, non c’era posto per il pane e marmellata. A merenda si mangiavano le Fiesta, e a colazione i Pan di Stelle.
Lo sforzo evidente della capofamiglia era quello di vivere secondo i rassicuranti precetti della normalità, vale a dire attenendosi scrupolosamente a quanto consigliato dai suoi beniamini della tv commerciale.
Alessandro disprezzava “L’Albero Azzurro” o i giochi in mezzo alla natura. Lui guardava “Ciao Ciao”, “Bim Bum Bam” e tutto quel che offriva il palinsesto Mediaset, anzi RTI, senza ammettere alcuna eccezione.
Se pensa alla colonna sonora della sua infanzia non trova neanche un pezzo di repertorio che abbia contribuito a fare la storia della musica. Trova invece il trionfalismo della sigla dell’“A-Team” o la lieve inquietudine delle note di “MacGyver”. Seguono a distanza gli inarrestabili balzi del Generale Lee mentre le sfuriate di Boss Hogg nella contea di Hazard fanno da trampolino allo scorrazzare di Ponciarello e del suo compagno biondo nei CHiPs. E infine un coro di tutti quegli altri eroi, T.J. Hooker, Starsky e Hutch, Steve, il principe Willy e Super Vicky educati da “Genitori in bluejeans”.
Anche crescendo, i prodigi del...