Una storia a distanza è fatta, per lo più, di finzioni. Come quelle forme di teatro sperimentale in cui un attore solo sul palco fa tutti i ruoli. Non c’è un solo motivo per il quale dovrebbe funzionare. Non dovrebbero neppure esistere, le storie a distanza. Che senso ha stare insieme per mancarsi? E che senso ha stare insieme sapendo che quel «mancarsi» sarà l’unica attività condivisa, l’unica modalità di condivisione delle esperienze? E se funzionano, di solito, è perché uno dei due sta barando e nasconde, dietro quella storia, qualche sua incertezza, qualche suo problema, e usa l’altro come alibi.
Poi, però, ci sono le eccezioni. E io e Petra siamo una di queste.
Vivo assediato dalla sua assenza e questo, da un lato, mi fa star male. Ma allo stesso tempo è come se la sua assenza fosse la mia ancora, il mio punto fermo, la mia certezza. Grazie al vuoto creato da lei, ogni giorno della mia vita qui al campus, dal più facile e leggero al più complesso, ho comunque la sensazione di sapere sempre che cosa sto facendo e, soprattutto, per quale motivo. Ed è buffo perché, in effetti, non lo so. O almeno, non lo saprei spiegare. Eppure è così.
Tutto questo ha una sua forma, una sua concretezza molto particolare. Studio, sparo, imparo l’inglese e l’America, mi stanco, ma in ogni istante so che, comunque, verso le otto di sera, prima di «Ballarò» e degli spaghetti, prima di decidere se andare al pub o restare a casa, dovrò chiamarla in Italia. La troverò lì, nella sua casa in Alto Adige, con i genitori nell’altra stanza e senza troppa voglia di parlare. I primi giorni avevo trovato molto poetico pensare che, per motivi di fuso orario, io sono l’ultima persona con cui chiacchiera prima di andare a dormire. Ma mi sono reso conto che è così per ogni storia a distanza e che non c’è niente di speciale. Poi una sera, poco prima di chiudere la conversazione, mi ha detto di volermi confidare un segreto. Mi ha fatto avvicinare alla web cam, e io, da scemo, l’ho fatto, come se il gesto garantisse una maggior riservatezza; a quel punto ha tirato fuori un sorriso dei suoi e con una voce sottile sottile mi ha detto che le piaceva addormentarsi parlando con me, che era come se le rimboccassi le coperte, che ero «morbido». Mi sono vergognato di aver pensato che non c’era niente di speciale.
Chissà se Etzel vuole conoscere anche questi dettagli della mia vita. E, soprattutto, chissà se sarò davvero disposto a raccontarglieli.
Ogni volta che attraverso il campus in direzione del suo studio è come se il tragitto fosse più breve della precedente. Segno che sto cominciando a orientarmi, a prendere confidenza, forse un giorno o l’altro scoprirò persino qualche scorciatoia.
Con il suo studio, invece, la confidenza l’ho presa tutta, e subito. È un posto caldo e avvolgente, non so se è davvero così o se è solo una suggestione dovuta al ritmo lento e cadenzato delle sue parole o alla musica classica che lascia sempre in sottofondo. Per il momento è andato tutto molto diversamente da come mi aspettavo. Cercavo risposte, indicazioni, discorsi utili. E invece mi sono ritrovato grandi concerti per archi e ballate in sol minore. E domande generiche. Etzel parla pochissimo. Indirizza la conversazione, ma poi tocca a me costruirla, riempirla. Ma non è tanto questo ciò che mi ha spiazzato, quanto gli argomenti. Non si parla di tiro. O meglio non si parla di quegli aspetti del tiro che pensavo dovessero essere l’oggetto del nostro «lavoro», come lo chiama lui. Non si parla di quello che è successo a Pechino, non si fa cenno a quel maledetto scattino a destra, alle voci che mi ripetono che non ho nulla da perdere, ai movimenti del mio cuore visualizzati al centro del mirino. Si parla di me, della mia famiglia, della mia infanzia, di quello che sono, che voglio essere, che credo di essere.
All’inizio ho provato a fare un po’ di resistenza. Ma ogni volta che sposto il discorso su Pechino e sulle gare, Etzel si risveglia dal suo torpore apparente e con una domanda mi riporta lontano chilometri dalla pedana, oppure si distrae in maniera plateale, lasciandomi lì a parlare da solo di avversari, punteggi, medaglie e coppe. Vuole sapere altro. Vuole sapere di quando ho cominciato. Del perché.
Come se fosse facile trovare un perché al destino.
Ricordo che era la primavera del 2000 e che, come ogni weekend, eravamo nella casa colonica di famiglia nel Casentino, in Toscana. Una mattina mio padre decise di portarmi con sé. Era un tiratore amatoriale, andava al poligono di Bibbiena e ci passava le ore. Voleva farmi provare. Avevo dodici anni. E come per tutti i dodicenni, anche per me il mio babbo era qualcosa di simile a un incrocio fra l’Uomo d’Acciaio e Superman.
Manda avanti una società che si occupa di sistemi di sicurezza per banche e uffici, e durante la settimana lo si vedeva poco in giro. Così non mi feci scappare quell’occasione. Andai con lui. Il poligono di Bibbiena era un posto di campagna, rustico, una manciata di linee di tiro sperdute fra i boschi, con tiratori ancora più rustici e approssimativi, che andavano lì armati di carabine sgangherate più per il piacere un po’ perverso di sentire il colpo esplodere in canna che non per il gusto del tiro.
Ricordo ancora quando il babbo mi mise in mano la sua pistola ad aria compressa. Pesava moltissimo. E però era meno fredda di quanto mi aspettassi, forse perché l’aveva tenuta in pugno lui fino a pochi secondi prima. Il primo contatto con l’arma fu «mediato» dal calore della sua mano. Per quanto oggi mi sforzi di ricordare, davvero non riesco a dire dove andò a finire il primo proiettile che sparai. E mentre cerco di scusarmi con Etzel di questa dimenticanza, un pensiero laterale irrompe nei miei ricordi: forse l’ho rimosso. Già, perché la verità è che non ho mai accettato di buon grado gli errori. Nemmeno all’inizio. Sarà perché mi rendevo conto che ogni volta che prendevo il bersaglio o, meglio ancora, il centro del bersaglio, mi avvicinavo di più a quell’uomo con la sigaretta, o forse semplicemente perché sono sempre stato un agonista puro, come mi hanno spiegato poi quelli della Federazione.
Davvero non mi ricordo come andò quel primo colpo. Ma gli altri andarono decisamente bene. Tanto che il babbo decise di portarmi di nuovo con sé, e poi di nuovo e di nuovo. Dopo poche settimane ero ormai di famiglia lì dentro. Il custode, un simpatico vecchino di nome Beppe, era diventato rapidamente una sorta di zio. I ragazzini danno confidenza in fretta, si sa.
Avevo talento, dissero subito. E tutti si misero a darmi consigli. I più erano strampalati. «Ragazzino, piega quel braccio.» «Chiudi l’altro occhio.» «Prova ad allargare leggermente i piedi.»
Nonostante ciò, miglioravo di giorno in giorno. E tutti decisero che il tiro a segno sarebbe stato il mio futuro. O addirittura che io sarei stato il futuro del tiro a segno. Fu allora che sentii per la prima volta il nome di Roberto Di Donna, leggenda olimpica ad Atlanta, ultimo grande tiratore di pistola della storia italiana. Sarei stato grande come lui, dissero.
Ma la vera rivelazione arrivò quando scoprii la carabina.
È stato dapprima un incontro visivo. La vedevo in braccio ai grandi e appesa al muro. E la temevo. All’inizio io sparavo con la pistola. Un po’ per le dimensioni, un po’ per la maggior semplicità della tecnica di tiro, che è più adatta a chi comincia rispetto a una carabina del peso di cinque chili. Ma, come tutte le cose che incutono una certa soggezione, in realtà mi attirava. E la fissavo, lassù, appesa al muro, dietro le spalle del custode che ci dava i pallini di piombo per sparare. Non riuscivo a non guardarla, a non chiedermi che sensazione desse imbracciarla, stringerla fra le mani, guardare il mondo attraverso la sua diottra, sentire l’odore del legno con cui era fatto il calcio.
E ricordo perfettamente anche la sensazione di felicità quando, una mattina, il babbo, stupefatto dalla mia bravura con la pistola, decise di farmela provare. Ricordo lo sguardo fiero del custode e quello incuriosito degli altri tiratori. Ma ricordo, soprattutto, la bellezza dei suoi rumori, che parlavano un linguaggio insieme elastico e meccanico, un’algebra onomatopeica di «click» e di «stock» che riassumeva in sé la perfezione dell’ingegno umano.
E poi, finalmente, il suono di quel colpo. Diventato improvvisamente familiare, pieno e promettente, spaventoso e sensuale.
Ero entusiasta. Decisi che non avrei fatto altro nella vita.
Purtroppo però, pistola e carabina hanno tecniche di tiro completamente diverse e nel piccolo poligono di Bibbiena non c’erano tecnici in grado di aiutarmi nella mia nuova disciplina. Davide, l’esperto di pistola che mi aveva allenato fino a quel momento, poteva darmi solo le prime dritte su quella «strana» posizione di tiro.
E così, un giorno, da qualche magazzino o da qualche fiera locale saltò fuori persino un manuale di tiro con la carabina. Solo che era scritto in cirillico.
I giorni successivi furono molto frenetici al poligono, qualcuno portò un dizionario russo-italiano e provò a tradurre, ma non andò oltre la terza parola dell’introduzione. Il più bravo di tutti fu, come al solito, mio padre. Che lasciò perdere i testi e si concentrò sulle figure, ricostruendo a senso le didascalie. Così facendo, abbozzammo qualcosa di simile a una posizione di tiro corretta. Dalla quale trassi anche indiscutibili benefici.
Etzel sembra molto interessato alla storia del manuale. Quando ha capito che era in cirillico non ha resistito e si è lasciato andare a un piccolo sorriso. Continua ad annuire, incitandomi ad andare avanti nel racconto. Avverto un po’ di fastidio. Non capisco come tutto questo possa avere a che fare con gli errori all’ultimo colpo.
Ma continuo.
Per tirare con la carabina occorre un’attrezzatura piuttosto costosa. Gli accessori base sono un guanto e una giacca. Mamma era preoccupata che si trattasse di una passione passeggera, di quelle fantasie che pungono la curiosità di un ragazzino per un breve periodo e poi si disperdono. E così riadattò dell’attrezzatura da sci: un vecchio guanto in goretex e una giaccona invernale. Solo che era giugno e che invece di trovarmi a duemila metri, sullo Stelvio, stavo a Bibbiena con 30 °C. Insomma, cuocevo. Ma non m’importava perché quello era l’unico modo per sparare. E io non volevo fare altro.
Ai miei coetanei, che mi chiedevano perché mi piacesse tanto sparare, facevo sempre una certa fatica a dare spiegazioni. La cosa più complessa era scollegare quella mia passione dalle sue apparenze violente. Nel tiro non ritrovavo nessun istinto da cacciatore, per me era e rimane una passione sportiva. Carabine e pistole sono attrezzi al pari di racchette e mazze da golf. Ricordo che c’era una lucertola che veniva sempre a prendere il sole sul bersaglio e io mi fermavo per non colpirla accidentalmente. Il custode, poi, non era da meno. Una volta aveva bloccato la metà delle linee di tiro per un mese intero perché due passerotti avevano deciso di fare il nido sulla macchina per il recupero dei pallini, proprio dietro ai bersagli.
Siamo stati costretti a fare a turno per sparare nelle tre linee rimaste libere.
Nel frattempo avevo cominciato ad allenarmi seriamente in vista delle prime gare ufficiali.
In realtà ero già fin troppo allenato. Vinsi le selezioni comunali, provinciali e regionali, quasi senza accorgermene, con la mia tuta da sci e la mia carabina sgangherata. E conquistai così l’accesso alla fase nazionale. A Brescia. L’avventura cominciata nemmeno un anno prima con il babbo mi aveva portato tanto lontano in meno di un anno.
Pensavo di essere arrivato, in realtà dovevo ancora partire.
Più si avvicinava il giorno della partenza per Brescia, più il livello della mia attenzione saliva, e più la mia precisione in allenamento rasentava la perfezione. Avevo tredici anni e sbagliavo pochissimo. Il custode, svestiti i panni dell’animalista e indossati quelli del tecnico, mi rassicurava. Lui se ne intendeva e se riuscivo a fare quelle medie anche in gara avrei vinto i Campionati nazionali giovanissimi, mi diceva. Gli credevo. Del resto mi sembrava davvero difficile fare meglio di come facessi: 183 punti su 20 colpi. Una media del 9 e poco più.
Il viaggio per Brescia fu straordinario. Io e il babbo da soli sulla sua Toyota station wagon attraverso l’Italia. Era orgoglioso di me. E si vedeva chiaramente.
Penso che fu durante quel viaggio che cominciai a sognare le Olimpiadi.
Tutto, però, finì di colpo la mattina in cui misi piede nel poligono. Eravamo così tanti ragazzini a sparare che ci avevano divisi per giornate. Io, per stare più tranquillo, mi ero iscritto all’ultima disponibile, così avevo modo di andare a vedere a che livello erano gli altri. Un po’ come quando devi affrontare un esame all’università e vai a vedere quelli che lo sostengono prima di te per scoprire quali sono le domande e, in generale, che clima c’è.
Facevano delle domande difficilissime! Gli altri ragazzini erano dei fenomeni, non mancavano un colpo. Il custode aveva sbagliato tutti i conti. Con la mia media, 183 punti su 20 colpi, non andavo da nessuna parte. Di punti ce ne volevano 192 o 194.
Ammutolii. Tornai in albergo senza parlare. Ero disperato. Volevo vincere. Dovevo vincere. Mi avevano detto che avrei vinto. E dovevo farlo. Mio padre capì la situazione, ma non disse e non fece niente. Per lui era ancora solo un gioco, molto divertente ma niente di più. Per me no. Cenammo in fretta. E in fretta andammo a dormire. Troppo in fretta. Il babbo spense la luce. Ma io non avevo alcuna voglia di chiudere gli occhi. Continuavo a pensare a quei ragazzini che sparavano come professionisti. E al mio 183 di media e al fatto che non avrei mai vinto.
Dopo pochi minuti mio padre cominciò a russare.
Non ho mai capito come mi venne in mente. Ma quasi che quel russare fosse un segnale preciso, mi alzai dal letto. Per evitare di fare rumore non mi vestii e non accesi nemmeno la luce, sfruttando i riflessi dell’illuminazione alogena della strada. In mutande e canottiera, andai nel tinello della stanza d’albergo, dove avevamo posato la carabina. La tirai fuori e cominciai a «fare le punterie». E decisi che avrei passato la notte ad allenarmi. Quei campionati erano la mia grande occasione e non potevo lasciarmela sfuggire. Rimasi così, in mutande davanti allo specchio, con la carabina in mano a puntare senza premere il grilletto contro la mia figura riflessa allo specchio, fino all’alba.
Di nuovo, proprio come prima mentre raccontavo del manuale in cirillico, ho l’impressione che Etzel stia sorridendo. È un po’ in controluce, quindi non lo vedo benissimo e in più sono concentrato sui dettagli del mio racconto.
Di sicuro, comunque, è rimasto colpito da quest’ultima scena. E infatti, forse per la prima volta da quando ho cominciato a parlare, mi interrompe e mi chiede di ripetergli quanto tempo rimasi così. «Fino all’alba» rispondo. Lui annuisce. Scrive qualcosa su un taccuino. E torna a guardarmi in quella posizione di attesa che lo fa assomigliare a certi cani da caccia durante la punta.
L’indomani, a Brescia, ero stanco, ma concentratissimo e carico. Dovevo vincere. Di quello che accadde in pedana non ho un ricordo preciso. Erano gli inizi, non avevo abbastanza confidenza con la situazione, e nemmeno con me stesso, per rendermi conto di quello che stava succedendo. Però vinsi. Tirai fuori chissà da dove, forse dal ventre di quella notte insonne, un incredibile 196 su 200. Che era moltissimo, non tanto in confronto agli avversari, che avevano perso pur con un ottimo 194, ma in confronto alla mia media abituale: dieci punti in più. Vale a dire uno scarto di due gol nel calcio, o di un secondo a giro nella Formula 1.
Il babbo era incredulo. Io ero pazzo di gioia. Non vedevo l’ora di andare a dare del bischero al custode che aveva sbagliato i conti. Ero campione italiano ai Giochi della gioventù.
«Hai mai raccontato di quella notte a qualcuno?» mi gela Etzel, senza partecipare minimamente al mio orgoglio.
«Be’, sì. Nei giorni seguenti l’aneddoto di me in mutande che faccio il ripassino la sera prima del...