Fare i conti con la vita
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Fare i conti con la vita

Dalle regole del management alla scoperta dei veri valori dell'esistenza

  1. 192 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Fare i conti con la vita

Dalle regole del management alla scoperta dei veri valori dell'esistenza

Informazioni su questo libro

Nella primavera del 2010 Clayton Christensen, professore di economia alla Harvard Business School, tiene un memorabile discorso di fine anno ai laureandi. Il discorso è particolarmente coinvolgente perché è al tempo stesso una profonda riflessione personale: Christensen sta infatti lottando contro una grave malattia e si è trovato a dover fare un bilancio della propria esistenza. È questo l'argomento dal quale nasce l'idea di scrivere Fare i conti con la vita, una testimonianza intensa e appassionata sul senso delle scelte che compiamo ogni giorno e sul valore che, magari anche inconsapevolmente, diamo a ciò che facciamo. Partendo dalla constatazione che tutti noi abbiamo l'obiettivo di avere un'esistenza serena, ricca di soddisfazioni nel lavoro e nella sfera privata, ma solo pochi riescono a raggiungerlo, Christensen ipotizza che i tanti insuccessi dipendano dalla mancanza di una buona strategia nel far fronte ai problemi che di volta in volta ci si presentano e che spesso, purtroppo, ci paiono insormontabili.
E se provassimo, invece, a concepire la nostra vita come quella di una grande azienda, nel cui bilancio i guadagni devono sempre e comunque superare le perdite, pena il fallimento? Forse allora ci accorgeremmo che le teorie economiche più moderne ed efficaci, che hanno consentito ad alcune società di affermarsi nel mercato globale, si possono applicare con indiscutibili vantaggi anche alle nostre piccole e apparentemente insignificanti scelte quotidiane, e possono insegnarci molto su come investire le nostre risorse di tempo ed energie nelle cose che riteniamo davvero importanti non solo per il presente ma anche per il futuro.
Coniugando l'indiscussa competenza in materia economica con una buona dose di senso dell¿umorismo, l'autore ci suggerisce una prospettiva del tutto inedita da cui valutare le nostre scelte, fatta di domande a dir poco sorprendenti: per quale mansione siamo stati assunti da nostra moglie o da nostro marito? È conveniente «esternalizzare» i figli? Quanto conta la qualità di un frappè per definire il nostro ruolo di genitori? Trovare le risposte giuste forse non basterà per diventare un top manager, ma ci indicherà una via sicura per il successo della nostra «impresa» privata. In gioco, per noi, non ci sono quotazioni di borsa e capitali, ma un bene assai più prezioso: l'inestimabile opportunità di diventare finalmente le persone che vorremmo essere.

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Informazioni

Parte seconda

RAGGIUNGERE LA FELICITÀ
NELLE RELAZIONI PERSONALI

I momenti più felici della mia vita sono stati i pochi che ho trascorso a casa, circondato dalla mia famiglia.
THOMAS JEFFERSON

V

Lo scorrere del tempo

Le relazioni con la famiglia e gli amici stretti saranno le più importanti fonti di felicità della vostra vita. State attenti, però. Quando sembrerà che a casa vada tutto bene, vi cullerete nella convinzione di poter accantonare per un po’ gli investimenti in tali relazioni. Sarebbe un grosso errore. Quando emergono gravi problemi nelle relazioni spesso è troppo tardi per rimediare. Paradossalmente, quindi, il momento migliore in cui investire per costruire famiglie solide e amicizie profonde è quando non ce n’è bisogno.
Images
Un fallimento stratosferico
Poche aziende hanno lanciato un prodotto con lo stesso clamore della Iridium Satellite Network. Si trattava di un cellulare che avrebbe permesso di telefonare da qualsiasi parte del pianeta, collegandosi a una complessa rete aerea di satelliti. Il vicepresidente degli Stati Uniti, Al Gore, aiutò la Iridium nel lancio del prodotto facendo la prima telefonata al nipote di Alexander Graham Bell. La Iridium era in gran parte finanziata e gestita dalla Motorola, una delle più stimate società al mondo di microelettronica e telecomunicazioni.
I dirigenti aziendali e gli analisti di Wall Street erano fiduciosi che avrebbe rivoluzionato le comunicazioni nella telefonia mobile, attirando milioni di utenti. Alla Iridium avevano condotto molte ricerche per analizzare il mercato, e alla fine ce l’avevano fatta. Contro ogni previsione erano riusciti a convincere i governi di tutto il mondo a fornire uno spettro ai segnali necessari ai satelliti.
I cellulari tradizionali collegavano gli utenti fra di loro agganciandosi ai ripetitori e trasmettendo il segnale da uno all’altro. Non sempre funzionava; infatti, se mancava un ripetitore per passare la chiamata in un punto critico, cadeva la linea. La strategia della Iridium, invece, prevedeva che ciascuna chiamata venisse trasmessa dall’utente a un satellite, che poi avrebbe rispedito il segnale sulla terra, al destinatario desiderato. Se l’utente era all’altro capo del pianeta, il satellite avrebbe trasmesso il segnale a un altro satellite che poi avrebbe inviato la chiamata al destinatario. Si poteva quindi telefonare da quasi ogni parte del mondo.
E chi non avrebbe voluto la possibilità di chiamare il papà a Baltimora dalla cima dell’Everest?
La Iridium poteva contare sulla competenza di esperti di calibro mondiale, e aveva superato alcuni ostacoli apparentemente insormontabili, ma la sua strategia presentava delle evidenti pecche. La semplice applicazione della domanda «quali supposizioni devono avverarsi» perché il modello finanziario della Iridium funzioni, avrebbe portato alla luce i problemi. Uno di questi era che i clienti avrebbero dovuto trovare comodo trasportare il telefono, che pesava mezzo chilo, in una valigetta, anziché in tasca o nella borsa. Il cellulare, infatti, aveva bisogno di una grossa batteria per trasmettere il segnale a un satellite, invece che a un ripetitore in zona. Inoltre doveva avverarsi un’altra supposizione: se il segnale trasmesso dalla cima dell’Everest al satellite più vicino era forte e chiaro, il papà invece doveva essere fuori Baltimora per ricevere la chiamata della figlia, perché non doveva esserci alcun tetto a interferire tra lui e il satellite.
Dopo aver investito 6 miliardi di dollari, e a meno di un anno dalla prima telefonata, la società fu costretta ad ammettere la sconfitta e a dichiarare bancarotta. La Iridium non si riprese per un decennio e gli investitori avevano perso tutto. Dopo essersi appellata alla legge per la riorganizzazione in seguito a bancarotta, la Iridium fu venduta a un nuovo gruppo di investitori per 25 milioni di dollari, un prezzo stracciato.
Perché i dirigenti della Motorola e gli altri investitori hanno riversato tanto capitale in un’impresa così rischiosa? La teoria che chiameremo del «capitale buono e capitale cattivo» ci fornisce una risposta.
Una teoria del capitale buono e capitale cattivo
In linea di massima, gli obiettivi di chi investe capitale in una società sono due: crescita e redditività. E non si tratta di obiettivi facili. Il professore Amar Bhide nel suo libro The Origin and Evolution of New Businesses (L’origine e l’evoluzione di nuove imprese) ha mostrato che il 93 per cento di tutte le società che alla fine hanno raggiunto il successo ha dovuto abbandonare la propria strategia originaria perché si è dimostrata non percorribile. In altre parole, le società di successo riescono nel loro intento non perché attuano una strategia vincente fin dall’inizio, ma piuttosto perché hanno ancora a disposizione capitale dopo il fallimento della strategia originaria, quindi sono in grado di invertire la rotta e tentare un approccio diverso. Quelle che falliscono, al contrario, nella maggior parte dei casi hanno investito tutto il capitale nella strategia originaria, che di solito si dimostra sbagliata.
La teoria del capitale buono e capitale cattivo praticamente riassume l’opera di Bhide in una semplice affermazione. Quando nelle fasi iniziali di una nuova impresa la strategia vincente non è chiara, il capitale buono degli investitori deve essere paziente per la crescita, ma impaziente per il profitto. Ciò significa che una nuova società deve ideare una strategia percorribile il più velocemente possibile e con il minimo investimento, in modo da impedire agli imprenditori di spendere molto denaro nel perseguire una strategia sbagliata. Poiché il 93 per cento delle società che alla fine hanno ottenuto il successo ha dovuto modificare la strategia iniziale, qualsiasi investimento che richieda alla società appena nata di crescere molto, e molto in fretta, non farà altro che spingerla giù da un burrone. Una società di grandi dimensioni tende a consumare denaro molto più rapidamente, e un’organizzazione grande è molto più difficile da ristrutturare rispetto a una piccola. La Motorola ha imparato questa lezione con Iridium.
Ecco perché il capitale in cerca di crescita, prima dei profitti, è capitale cattivo.
Ma il motivo per cui entrambi i tipi di capitale compaiono nel nome della teoria è che, una volta trovata una strategia percorribile, gli investitori devono cambiare obiettivo: devono diventare impazienti per la crescita e pazienti per il profitto. Una volta scoperta una via percorribile e redditizia per il futuro, il successo dipende dall’estensione graduale del modello.
Piantare alberelli quando si decide che serve ombra
Fra i trasgressori più comuni di questa teoria ci sono i grandi investitori e le aziende già avviate e di successo che pianificano investimenti in nuove attività in crescita. Ciò avviene seguendo un processo a tre fasi semplice e prevedibile, così come è esposto da Matthew Olson e Derek van Bever in Stall Points (Punti di stallo).
Nella prima fase, poiché è molto alta la probabilità che la strategia iniziale non sia percorribile, gli azionisti devono investire in progetti collaterali destinati a crescere, e devono farlo mentre il piano originario è forte e in pieno sviluppo, in modo da fornire alla nuova iniziativa il tempo necessario per ideare una strategia attuabile. Gli azionisti, invece, sono solitamente portati a posticipare l’investimento nel progetto collaterale, perché in quel momento sembra ingiustificato, vista la forza del core business e il suo incessante appetito di ulteriori capitali e di risorse manageriali. Come a dire: al domani pensiamo domani.
Nella fase successiva, però, il domani arriva. Il core business originario ha raggiunto la maturità e arresta la sua crescita. Chi possiede il capitale si rende improvvisamente conto che avrebbe dovuto investire diversi anni prima in progetti collaterali, perché solo così, nel momento di stallo del core business, questi avrebbero potuto funzionare da motore di crescita e profitto.
Nella terza fase, chi possiede il capitale vuole che qualsiasi attività in cui investe si ingrandisca molto, e molto in fretta. Se un’impresa genera affari per 40 milioni di dollari e vuole crescere a un tasso annuo del 25 per cento, dovrà trovare altri 10 milioni di dollari l’anno successivo. Ma se un’impresa ha raggiunto i 40 miliardi di dollari e intende continuare a crescere del 25 per cento l’anno successivo, sarà necessario trovare 10 miliardi di dollari in nuove attività. La posta in gioco e la pressione diventano enormi. Per accelerare il processo, gli azionisti riversano grandi somme di capitale in questi progetti. Ma troppo spesso tali ingenti somme fomentano gli imprenditori, consentendo loro di perseguire la strategia sbagliata in modo incauto e ostinato. Mentre queste aziende si lanciano a tutta velocità giù da un precipizio, gli analisti elaborano spiegazioni eccentriche per chiarire il motivo di ciascun fallimento.
Questa teoria spiega come e perché la Honda alla fine sia riuscita nel suo attacco all’industria statunitense della motocicletta, mentre la Motorola è fallita con Iridium. Paradossalmente, la Honda ha raggiunto il successo perché le sue risorse finanziarie all’inizio erano così limitate da costringerla a essere paziente per l’aspetto crescita, mentre ideava il suo modello di profitto. Se la Honda avesse avuto più risorse da investire nelle operazioni statunitensi, forse avrebbe deciso di spendere più denaro per continuare a seguire la strategia delle motociclette di grossa cilindrata, anche se probabilmente non era redditizia. Come investimento questo sarebbe stato capitale cattivo. La Honda, invece, non aveva quasi altra possibilità se non di concentrarsi sui Super Cub, perché per sopravvivere aveva bisogno del denaro generato dalle moto di piccola cilindrata. Questo è stato in gran parte il motivo del successo ottenuto infine negli Stati Uniti: i suoi investimenti hanno dovuto per forza di cose attenersi alla teoria.
L’alternativa a questo approccio è concentrarsi sull’esatto opposto: investire per veder crescere un’azienda velocemente e pensare solo in seguito a come ottenere profitto. Questo è ciò che ha fatto la Motorola con Iridium. La storia è piena di aziende fallite per aver provato a percorrere questa strada; si tratta quasi sempre di una scorciatoia per il successo che non funziona.
Per il meccanismo causale descritto nella teoria del capitale buono e capitale cattivo, la maggior parte delle società arriverà al giorno della resa dei conti, un giorno in cui l’attività principale della società inciamperà o smetterà di crescere e serviranno nuove fonti di reddito, e in fretta. Se una società si astiene dall’investire in nuove attività finché non ha bisogno di quelle nuove fonti di reddito e dei profitti, arriverà al punto in cui sarà troppo tardi. È come piantare alberelli quando si decide che serve più ombra. Quegli alberi non riescono certo a crescere tanto da creare ombra nel giro di una notte. Ci vuole la pazienza di coltivarli per anni affinché possano crescere abbastanza da offrirla.
Investire nella felicità futura
Può essere fin troppo facile scegliere d’istinto l’approccio del capitale cattivo anche nella nostra vita. Molti di noi traggono giovamento dalle sfide impegnative di un lavoro in cui crediamo e che ci gratifica. Ci piace dimostrare cosa siamo in grado di fare sotto pressione. I nostri progetti, i nostri clienti e i colleghi sono una sfida. Investiamo noi stessi nel nostro lavoro. Ma per riuscire in tutto questo, cominciamo a pensare che il lavoro richieda tutta la nostra attenzione, e quindi gliela diamo.
Telefoniamo al lavoro da lontani luoghi di vacanza, non prendiamo mai tutti i giorni di ferie che ci spettano perché c’è sempre troppo da fare. Il lavoro diventa il modo per identificarci. Portiamo lo smartphone ovunque e lo controlliamo continuamente, come se non essere connessi in ogni momento volesse dire perdersi qualcosa di molto importante. Chiediamo alle persone più vicine a noi di accettare che la nostra agenda sia semplicemente troppo piena per trovare del tempo da dedicare a loro. In fin dei conti anche loro vogliono vederci raggiungere il successo, giusto? Ci troviamo a dimenticare di rispondere alle e-mail e alle telefonate dei nostri amici e familiari, a scordare compleanni e altre feste che una volta ritenevamo importanti.
Purtroppo, le stesse conseguenze affrontate dalle società per non aver investito nel futuro valgono anche per noi.
Anche noi, in gran parte, abbiamo una strategia intenzionale per creare relazioni profonde e ricche di affetto con i membri della nostra famiglia e con gli amici, ma poi in realtà investiamo in una strategia di vita a cui non avremmo mai aspirato: avere molte amicizie superficiali, ma nessun amico intimo; divorziare, in alcuni casi più volte; avere figli che si sentono estraniati da noi nella nostra stessa casa, o che vengono cresciuti da un patrigno o una matrigna a migliaia di chilometri di distanza.
E non possiamo far tornare indietro il tempo.
Un mio vicino, che chiamerò Steve, anni fa mi raccontò di aver sempre desiderato un’attività da gestire in proprio. Ebbe molte opportunità di lavorare e imparare il mestiere da qualcun altro – e persino con un ottimo stipendio –, ma non volle mai rinunciare al sogno di essere il capo di se stesso. Ciò significò fare tardi al lavoro, imparare da errori relativamente piccoli per riuscire a costruire la sua azienda. Gli amici e la famiglia erano comprensivi: Steve, in fin dei conti, non lo stava facendo solo perché era importante per sé; lo faceva anche per loro.
Tuttavia, il poco tempo trascorso da Steve in casa, alla fine, gli costò caro. Proprio nel momento in cui la sua società stava finalmente decollando, il suo matrimonio andò in pezzi. Quando gli servì il sostegno di fratelli, sorelle e amici per affrontare il dolore del divorzio, si ritrovò solo. Cercava il guadagno di un investimento mai fatto. Nessuno di loro decise deliberatamente di abbandonarlo; il fatto è che, essendo stati ignorati per così tanto tempo, non si sentivano più vicini a lui, e temevano che qualsiasi intervento potesse essere considerato un’intrusione.
Steve lasciò la sua casa per trasferirsi in un piccolo appartamento dall’altro lato della città e cercò di renderlo accogliente per quando andavano a trovarlo i suoi figli, due maschi e due femmine. Quando era sposato delegava quel genere di cose alla moglie, ma ora si sforzò di pensare a come trascorrere il tempo con loro divertendosi. La sua, però, era una strada in salita. All’età della scuola media, i figli non erano così entusiasti di dover trascorrere un fine settimana sì e uno no da Steve, per rispettare i suoi «diritti di visita». Dovevano lasciare la casa e gli amici per trasferirsi nello spartano appartamento del padre, solo per andare a cena fuori, lavorare con lui o vedere un film. Presto ogni cosa perse fascino. Proprio quando Steve sentiva il bisogno di passare del tempo con i figli, loro cominciarono a evitare le visite dal padre ogni volta che potevano.
Ora, quando Steve ripensa a tutti quegli anni, vorrebbe aver stabilito priorità diverse, e aver investito in quelle relazioni prima di aver bisogno dei loro frutti.
Quello di Steve non è affatto un caso isolato. Tutti conosciamo persone come lui e penso che, in un certo senso, noi stessi abbiamo paura di diventare così con il tempo. C’è un motivo per cui l’eco del film La vita è meravigliosa è stata sentita per così tanti anni: ciò che conta maggiormente nelle ore più buie della vita di George Bailey sono le numerose relazioni personali in cui ha investito per anni. Alla fine del film si rende conto che, nonostante la sua povertà, la sua vita è ricca di amici. Tutti vorremmo sentirci come George Bailey, ma di certo non può accadere se non abbiamo investito nelle relazioni con amici e familiari nel corso della nostra vita.
Ognuno di noi può sicuramente citare una o due amicizie che senza volere ha trascurato perché troppo preso da altri impegni. Probabilmente, sperate che il legame di quelle amicizie sia abbastanza forte da sopportare di essere trascurato, ma spesso non è così. Anche gli amici più affezionati cercheranno di tenere duro solo fino al momento in cui decideranno di investire tempo, energia e amicizia altrove. Se lo faranno, sarete voi a perderci.
Arrivati a una certa età, accade spesso che ci si lamenti per non aver mantenuto i contatti con amici e parenti che una volta erano molto importanti. La vita, purtroppo, continuava a mettersi di mezzo. Se si permette che accada una cosa simile, però, le conseguenze possono essere enormi. Ho conosciuto troppe persone come Steve, persone che hanno dovuto affrontare una malattia, un divorzio o la perdita del lavoro da soli, senza avere nessuno accanto disposto ad ascoltarli o a dare loro una mano.
E non esiste al mondo un senso di solitudine più forte.
Il rischio di scaglionare gli investimenti della vi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Fare i conti con la vita
  3. Prologo
  4. I. Solo perché hanno le piume…
  5. Parte prima - RAGGIUNGERE LA FELICITÀ NELLA CARRIERA
  6. Parte seconda - RAGGIUNGERE LA FELICITÀNELLE RELAZIONI PERSONALI
  7. Parte terza - NON FINIRE IN GALERA
  8. Epilogo
  9. Ringraziamenti
  10. Copyright