I figli degli uomini
  1. 322 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Nel 2021 per l'umanità sembra non esserci futuro: gli uomini, infatti, hanno smesso di riprodursi. Forse però c'è ancora una speranza, come scopre Theo Faron, storico di Oxford, che vede la sua esistenza tranquilla cambiare radicalmente quando incontra una giovane ribelle che sfida le autorità.
Un romanzo insolito e sorprendente da una delle grandi signore del giallo inglese.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804471943
eBook ISBN
9788852038488

Parte Prima

OMEGA

Gennaio – Marzo 2021

1

Venerdì 1° gennaio 2021
Oggi, 1° gennaio 2021, tre minuti dopo mezzanotte, l’ultimo essere umano nato sulla terra è rimasto ucciso in una rissa in un bar di un sobborgo di Buenos Aires. Aveva venticinque anni, due mesi e dodici giorni. Stando alle prime notizie trapelate sull’incidente, Joseph Ricardo è morto come era vissuto. La particolarità, se così la si può chiamare, di essere stato l’ultimo uomo che risulta nato all’anagrafe, pur prescindendo da qualsiasi virtù o dote personale, rappresentò sempre una difficoltà per lui. Ora è morto. La notizia è stata diffusa qui in Gran Bretagna al giornale radio delle nove e io l’ho sentita per caso. Mi apprestavo a iniziare questo diario della seconda metà della mia vita quando, accorgendomi dell’ora, pensai che tanto valeva ascoltare i titoli del giornale radio delle nove. La morte di Ricardo è stata annunciata per ultima e solo di sfuggita, poche frasi pronunciate senza enfasi dalla voce volutamente piatta del giornalista. Quando l’ho sentita, mi è parso un piccolo motivo in più per iniziare il diario proprio oggi, capodanno e mio cinquantesimo compleanno. Da bambino questa particolarità mi piaceva, nonostante il fatto che, data la vicinanza tra il mio compleanno e Natale, ricevessi un unico regalo, che non sembrava mai molto più grande di quello che avrei ricevuto in ogni caso.
Mi chiedo se questi tre eventi (il capodanno, il mio cinquantesimo compleanno e la morte di Ricardo) bastino a giustificare l’inaugurazione di un quaderno nuovo di zecca. Ma voglio essere perseverante, per opporre un’ulteriore piccola difesa personale contro l’accidia. Se non ci sarà nulla da dire, descriverò il nulla e poi, raggiunta la vecchiaia – come la maggior parte di noi si aspetta, dal momento che siamo diventati molto abili nel prolungare la vita –, aprirò una delle tante scatole di fiammiferi della dispensa e accenderò il mio piccolo falò delle vanità. Non ho intenzione di lasciare questo diario a testimonianza degli ultimi anni di un uomo. Anche nei momenti di più acceso egocentrismo, non mi illudo al punto di credere che il diario di Theodore Faron, dottore in filosofia, docente al Merton College dell’Università di Oxford, studioso della storia del periodo vittoriano, divorziato, senza figli, solitario, degno di nota solo in quanto cugino di Xan Lyppiatt, dittatore e Governatore d’Inghilterra, possa essere di qualche interesse. Non c’è nessun bisogno di altri cenni personali. Gli Stati di tutto il mondo stanno preparando la loro testimonianza per posteri della cui possibile esistenza cerchiamo ancora occasionalmente di illuderci e per creature di altri pianeti che si trovino per qualche eventualità ad atterrare in questa landa verde e si domandino quale specie di vita senziente vi abbia un tempo abitato. Conserviamo libri e manoscritti, grandi dipinti, musica, strumenti e opere d’arte. Le più grandi biblioteche del mondo verranno oscurate e chiuse per sempre nel giro di quarant’anni al massimo. Gli edifici che saranno rimasti in piedi parleranno da sé. È poco probabile che la fragile pietra di Oxford sopravviva per più di un secolo o due. L’università sta già discutendo se valga o meno la pena di ristrutturare il fatiscente Sheldonian. Ma mi piace pensare che le mitiche creature atterreranno in piazza San Pietro ed entreranno nella basilica, silenziosa e riecheggiante sotto secoli di polvere. Si accorgeranno di trovarsi in quello che una volta era il più grande dei templi eretti dall’umanità a uno dei suoi tanti dei? Rimarranno incuriositi da quella divinità venerata con tanta pompa e splendore, si chiederanno il significato del suo simbolo onnipresente, al tempo stesso tanto semplice, composto da due bastoni incrociati, e coperto d’oro, tempestato di pietre preziose e di ornamenti? O forse i loro valori e i loro processi mentali saranno talmente diversi dai nostri che né timore né meraviglia li sfioreranno? Ma nonostante la scoperta – nel 1997, mi pare che fosse – di un pianeta in cui gli astronomi ritenevano possibile l’esistenza di qualche forma di vita, pochi di noi credono davvero alla loro venuta. Da qualche parte devono essere: non ha senso ritenere che nell’immensità dell’universo solo questa piccola stella sia in grado di ospitare e sviluppare forme di vita intelligente, ma noi non andremo da loro né essi verranno a noi.
Vent’anni or sono, quando il mondo si era già parzialmente convinto che la nostra specie avesse perduto per sempre il potere di riprodursi, la ricerca dell’ultima nascita nota nella specie umana divenne un’ossessione universale, motivo di orgoglio nazionale, competizione internazionale acerrima e crudele quanto inutile. Per essere valida, la nascita doveva essere stata registrata ufficialmente, con tanto di giorno e ora. Questo escludeva gran parte dell’umanità, di cui era noto il giorno, ma non l’ora; si ammetteva, pur senza sottolinearlo, che il risultato non sarebbe stato scientificamente esatto. Quasi certamente, infatti, in qualche giungla lontana, in qualche capanna primitiva, l’ultimo essere umano era furtivamente venuto alla luce in un mondo indifferente. Dopo mesi di ripetuti controlli, tuttavia, fu ufficialmente dichiarato ultimo nato della specie umana Joseph Ricardo, di razza mista, nato illegittimo in un ospedale di Buenos Aires il 19 ottobre 1995, alle tre e zero due. Una volta proclamato il risultato, egli rimase libero di sfruttare la propria celebrità quanto meglio gli riuscì, mentre il mondo, come rendendosi improvvisamente conto della futilità della cosa, rivolse altrove la propria attenzione. Ora che è morto, dubito che qualcuno vorrà riscattare dall’oblio gli altri candidati.
L’incombente estinzione della nostra specie e l’impossibilità di evitarla ci offendono e demoralizzano meno della nostra incapacità di scoprirne la causa. La scienza e la medicina occidentali non ci hanno preparati all’enormità e all’umiliazione di questo smacco. Vi sono state malattie difficili sia da diagnosticare sia da curare, una delle quali ha quasi spopolato due continenti prima di essere debellata, ma alla fine siamo sempre riusciti a spiegarne le cause. Abbiamo dato un nome ai virus e ai germi che tuttora ci affliggono, con grande mortificazione da parte nostra, dal momento che sembra un affronto personale che ci debbano colpire ancora oggi, come antichi nemici che tengono viva la battaglia e di tanto in tanto uccidono anche quando la loro vittoria è ormai assicurata. La scienza occidentale è stata il nostro dio. Dotata di molteplici poteri, ci ha preservato, confortato, curato, accudito, cibato e divertito e noi ci siamo sentiti liberi di criticarla e occasionalmente di rifiutarla, come da sempre l’uomo ha fatto con gli dei, ben sapendo che, nonostante l’apostasia, questa divinità, creatura nostra e nostra schiava, avrebbe continuato a prendersi cura di noi con anestetici contro il dolore, trapianti di cuori e polmoni, antibiotici, cinema e cinematica. La luce si accende sempre quando premiamo l’interruttore e, se non funziona, sappiamo sempre spiegare perché. La scienza non è mai stata il mio pane: ne capivo poco a scuola e continuo a capirne poco adesso che ho cinquant’anni. Ma è stata un dio anche per me, che pure non ne ho mai compreso appieno le conquiste, e provo anch’io la disillusione universale di chi assiste alla morte del proprio dio. Ricordo bene il tono sicuro di un biologo quando fu definitivamente accertato che non esisteva una sola donna incinta in tutto il mondo: «Ci vorrà del tempo per scoprire la causa di questa apparente sterilità universale». Sono trascorsi venticinque anni e nessuno ci crede più. Come libertini improvvisamente scopertisi impotenti, proviamo un’umiliazione profonda, abbiamo perso fiducia in noi stessi. Con tutta la nostra sapienza, intelligenza e potenza, non sappiamo più fare quel che gli animali fanno senza pensare. Non c’è da sorprendersi dunque che li adoriamo e li odiamo al tempo stesso.
Il 1995 divenne noto come l’Anno Omega, termine ormai universale. Alla fine degli anni Novanta tutti si chiedevano se il Paese che fosse riuscito a trovare un rimedio contro la sterilità universale l’avrebbe condiviso con le altre nazioni e su quali basi. Si convenne che, trattandosi di un disastro globale, il mondo doveva essere unito nell’affrontarlo. Alla fine degli anni Novanta si parlava ancora di Omega come di una malattia, una disfunzione che con il tempo sarebbe stata diagnosticata e corretta, così come era stata trovata la cura per la tubercolosi, la difterite, la polio e perfino, anche se troppo tardi, per l’Aids. Con il passare degli anni, dato che gli sforzi condotti sotto l’egida delle Nazioni Unite non sortivano alcun risultato, la decisione di mantenere un’apertura totale venne meno, la ricerca proseguì segretamente e gli sforzi dei diversi Stati vennero seguiti con profondo e sospettoso interesse. La Comunità Europea si muoveva di concerto, mettendo insieme strutture e ricercatori. Il Centro Europeo per la Fertilità Umana appena fuori Parigi era tra i più prestigiosi del mondo. Cooperava, almeno ufficialmente, con gli Stati Uniti, dove l’impegno era forse ancora maggiore, ma non c’era collaborazione fra le diverse razze: la posta in palio era troppo alta. Sui termini per l’eventuale divulgazione del segreto si scatenò un acceso dibattito e si formularono diverse teorie. Era opinione comune che, se si fosse trovata una cura, essa sarebbe stata divulgata: si sarebbe infatti trattato di una scoperta scientifica che nessuna razza doveva né poteva tenere per sé per un tempo illimitato. Tuttavia ci si guardava con sospetto ossessivo da un continente all’altro, oltre i confini fra nazioni e fra razze, prestando fede a ipotesi e voci. Tornò in auge la vecchia arte dello spionaggio e i vecchi agenti segreti uscirono dai confortevoli gusci nei quali si erano ritirati a Weybridge e Cheltenham per trasmettere alle nuove leve il loro mestiere. Lo spionaggio naturalmente non era mai cessato del tutto, neppure dopo la fine ufficiale della Guerra Fredda nel 1991. L’uomo è troppo assuefatto a questa affascinante miscela di pirateria adolescenziale e di matura perfidia per abbandonarla del tutto. Sul finire degli anni Novanta la burocrazia dello spionaggio rifiorì come non succedeva dalla fine della Guerra Fredda, generando nuovi eroi, nuovi nemici e nuovi miti. L’attenzione era rivolta in particolare al Giappone, nel timore che quel popolo tecnicamente tanto avanzato potesse essere sulla buona strada.
A distanza di anni l’attenzione è sempre viva, ma l’ansia si è placata ed è svanita ogni speranza. Si continua a spiare, ma ormai sono trascorsi venticinque anni dall’ultima nascita e sono pochi a credere ancora che sul nostro pianeta risuonerà mai più il pianto di un neonato. Il sesso ci interessa sempre meno. L’amore romantico e platonico ha preso il sopravvento sul bieco appagamento dei sensi, nonostante gli sforzi del Governatore d’Inghilterra per mantenere vivi gli appetiti sempre più languidi della gente con i pornoshop statali. Abbiamo i nostri surrogati, passati a tutti i cittadini dal servizio sanitario nazionale. I nostri corpi segnati dagli anni vengono stimolati, massaggiati, accarezzati, stirati, cosparsi di unguenti profumati: veniamo misurati, pesati, sottoposti a manicure e pedicure. Lady Margaret Hall è diventato il centro massaggi di Oxford e ogni martedì pomeriggio anch’io vado a sdraiarmi su un lettino e guardo i giardini tuttora ben curati all’esterno, mentre mi godo l’ora di misurate attenzioni sensuali che mi passa lo Stato. Con quale assiduità, con quale impegno ossessivo ci sforziamo di mantenere viva l’illusione, se non di gioventù, almeno di spumeggiante mezza età. Il golf è diventato lo sport nazionale. Prima di Omega, gli ambientalisti avrebbero protestato per i vasti appezzamenti di terreno, tra i più belli che ci circondano, che sono stati trasformati e modificati al fine di ottenere campi più movimentati. Sono tutti gratuiti, fanno parte dei piaceri promessi dal Governatore. Alcuni sono esclusivi e rifiutano di ammettere soci indesiderati, non attraverso proibizioni che sarebbero illegali, ma grazie a quei sotterranei messaggi discriminanti che anche gli inglesi più insensibili imparano a recepire sin dalla primissima infanzia. Abbiamo bisogno di un certo snobismo: quello dell’eguaglianza è un principio della teoria politica che non trova applicazione pratica neppure nella Gran Bretagna egualitaria di Xan. Ho provato a giocare a golf una volta, ma l’ho trovato subito decisamente poco interessante, forse a causa della mia tendenza a sollevare zolle di terra invece della pallina. Preferisco la corsa. Ogni giorno macino chilometri a Port Meadow o lungo i sentieri solitari di Wytham Wood, misurando poi battito cardiaco, perdita di peso e resistenza. Ho voglia di vivere come tutti e, come tutti, controllo ossessivamente le funzioni del mio corpo.
Questi atteggiamenti risalgono per lo più all’inizio degli anni Novanta, con l’interesse per la medicina alternativa, gli olî profumati, i massaggi e gli unguenti, il sesso senza penetrazione. La pornografia e la violenza sessuale al cinema, alla televisione, nei libri e nella vita aumentavano e diventavano più espliciti, ma in Occidente la gente faceva sempre meno l’amore e sempre meno bambini. All’inizio tale tendenza fu bene accolta in un mondo altamente sovrappopolato. Come storico, faccio risalire a quel periodo l’inizio della fine.
Avremmo dovuto captare i primi segni d’allarme all’inizio degli anni Novanta. Già nel 1991 un rapporto della Comunità Europea segnalava un forte calo della natalità in Europa: 8,2 milioni di nati nel 1990, con picchi negativi nei Paesi di religione cattolica. Pensavamo di conoscerne le ragioni, credevamo che fosse un calo volontario, frutto di una maggiore apertura verso contraccezione e aborto, della scelta da parte delle donne di rimandare la maternità per motivi professionali e del desiderio da parte delle famiglie di innalzare il proprio standard di vita. Il calo demografico era inoltre aggravato dalla diffusione dell’Aids, soprattutto in Africa. Alcuni Paesi europei iniziarono a promuovere campagne capillari per l’aumento della natalità, ma la maggior parte di noi riteneva tale calo auspicabile, se non addirittura necessario. Eravamo in troppi: stavamo inquinando il pianeta e la diminuzione delle nascite era un fatto positivo. La preoccupazione non nasceva tanto dal calo demografico in sé e per sé, quanto dal desiderio di ogni Paese di salvaguardare la propria popolazione, la propria cultura, la propria razza, di avere un ricambio generazionale sufficiente per mantenere il controllo delle proprie strutture economiche. Ma, per quanto ricordo, nessuno avanzò mai l’ipotesi che la fertilità dell’uomo si stesse irrimediabilmente modificando. Omega giunse di colpo, e fu accolto con profonda incredulità. Sembrò che la razza umana avesse perso il potere di riprodursi da un giorno all’altro. La scoperta, avvenuta nel luglio del 1994, che perfino lo sperma umano congelato per esperimenti e inseminazione artificiale aveva perso ogni efficacia suscitò un profondo orrore e conferì a Omega un’aura di superstizioso terrore, di incantesimo, di intervento divino. Gli dei dell’antichità erano riapparsi in tutta la loro terrificante potenza.
Il mondo non perse le speranze fino a quando la generazione nata nel 1995 non giunse alla maturità sessuale. Ma al termine dei controlli, accertato che nessuno di quei giovani era in grado di produrre sperma fertile, capimmo che si trattava davvero della fine dell’Homo sapiens. Fu in quell’anno, il 2008, che si registrò un’impennata nel numero dei suicidi. Non fra gli anziani, ma fra le persone di mezza età, della mia generazione, la generazione destinata a sopportare le esigenze umilianti ma inevitabili di una società sempre più vecchia e decrepita. Xan, che a quel tempo era già Governatore d’Inghilterra, tentò di porre un freno a quella che era ormai un’epidemia, imponendo una multa ai parenti più prossimi sopravvissuti, così come ora il Consiglio paga cospicue pensioni ai parenti degli anziani non più autosufficienti che si suicidano. La manovra sortì gli effetti sperati e il numero dei suicidi scese rispetto alle cifre record registrate in altre parti del mondo e soprattutto nei Paesi la cui religione si basava sul culto degli antenati e sulla continuazione della stirpe. I superstiti tuttavia si lasciarono andare a un negativismo universale, a ciò che i francesi chiamano ennui universel. Ci assalì insidioso come una malattia, perché in realtà di malattia si trattava, con sintomi che presto divennero familiari: stanchezza, depressione, malessere indefinito, tendenza a contrarre piccole infezioni, cefalea persistente e invalidante. La combattei, come molti altri. Alcuni, e Xan è fra questi, non ne sono mai stati afflitti, protetti forse dalla mancanza d’immaginazione o, nel caso specifico di mio cugino, da un egocentrismo così forte da risultare impermeabile a qualsiasi catastrofe esterna. Ogni tanto mi capita ancora di doverla combattere, ma la temo di meno. Le armi cui faccio ricorso sono anche le mie consolazioni: i libri, la musica, la buona cucina, il vino, la natura.
Queste soddisfazioni, questi palliativi, mi ricordano con un misto di amarezza e di piacere la precarietà dell’umana gioia; quando mai è stata duratura? Mi dà ancora piacere, più intellettuale che sensuale, la primavera di Oxford in tutto il suo splendore: i fiori di Belbroughton Road che sembrano più belli ogni anno che passa, la luce del sole sui muri di pietra, gli ippocastani in fiore che ondeggiano nel vento, l’odore di un campo di fagioli, i primi fiocchi di neve, la fragile compattezza di un tulipano. Il piacere non è necessariamente meno intenso per il fatto che ci saranno centinaia di primavere sui cui fiori non si poseranno gli occhi di nessun uomo, in cui i muri crolleranno a poco a poco, gli alberi moriranno e marciranno, i giardini si riempiranno di erbacce, perché la bellezza sopravviverà all’intelligenza umana che la descrive, la apprezza e la celebra. Mi dico questo, ma lo credo davvero, ora che il piacere è diventato tanto raro e talvolta inscindibile dal dolore? Capisco quegli aristocratici e latifondisti che, senza eredi, lasciavano andare in rovina le loro proprietà. Non possiamo provare nulla se non il presente, non possiamo vivere che nel momento presente e capire che questo significa arrivare il più vicino che ci sia concesso alla vita eterna. Ma la mente ripercorre secoli di vita cercando rassicurazione nei nostri antenati e, senza eredi, non solo nostri ma dell’intera specie umana, senza il conforto di una vita dopo la nostra morte, tutti i piaceri della mente e dei sensi mi paiono talvolta nulla più che patetiche e fragili difese innalzate contro la r...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di P.D. James
  3. I figli degli uomini
  4. Parte Prima - OMEGA Gennaio – Marzo 2021
  5. Parte Seconda - ALFA Ottobre 2021
  6. Copyright