Oltre la rottamazione
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Oltre la rottamazione

Nessun giorno è sbagliato per provare a cambiare

  1. 120 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Oltre la rottamazione

Nessun giorno è sbagliato per provare a cambiare

Informazioni su questo libro

Il mio partito non ha paura degli altri, è curioso.
Il mio partito abbatte i muri, non alza i ponti.
Il mio partito accoglie, non respinge gli elettori.
Il mio partito si fa giudicare dai cittadini con il voto, non li giudica con moralismo supponente.
Il mio partito usa la digitale, non il rullino.
Il mio partito non è schizofrenico per cui un giorno vuole arrestare Berlusconi e il giorno dopo lo farebbe presidente della Convenzione costituente.
Il mio partito rispetta la magistratura non solo quando manda gli avvisi di garanzia agli avversari.
Il mio partito non cambia le regole di una gara perché ha paura di un candidato.
Il mio partito prende i voti degli altri. Perché se non prende i voti degli altri, poi gli tocca prendersi i ministri degli altri.
Il mio partito difende le donne non una volta l'anno, ma tutti i giorni, con la parità di genere. E sa che le quote rosa sono un sistema grezzo. Ma non ne ha trovato uno migliore.
Il mio partito rispetta i referendum. Anche quando dicono che il finanziamento pubblico ai partiti va abolito.
Il mio partito crede negli open data.
Il mio partito vuole cambiare l'Italia, non gli italiani.
Il mio partito non ha la puzza sotto il naso, ma vuole bene ai cittadini.
Il mio partito si occupa di diritti civili ma non dimentica che esistono dei doveri privati verso la comunità.
Il mio partito combatte la burocrazia, perché crede nella forza di un clic contro la potenza di un timbro.
Il mio partito non tiene le mani in tasca.
Il mio partito si chiamerà Partito democratico. Ma non l'abbiamo ancora costruito davvero. Con il suo stile veloce, la battuta pronta, e ironico come solo un fiorentino sa essere, Matteo Renzi traccia i confini di un'Italia possibile e futura. Perché adesso basta rottamare. È il momento di andare «oltre». Oltre la rottamazione di una classe politica che ha sprecato la propria opportunità di cambiare le cose. Questo libro è il manifesto politico di una bella Italia, che parla di lavoro, di politica e di futuro. Con il ritratto dell'Italia di Gregorio, che avrà vent'anni tra vent'anni. Un neonato di oggi. Perché l'Italia ha un'anima. Ed è decisa a non perderla, se vuole offrire un futuro ai giovani.

Domande frequenti

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Oltre la rottamazione, perché l’Italia faccia l’Italia

I primi mesi del 2013 ci hanno tolto molte certezze. Difficile non provare un senso di spaesamento quando vedi l’immagine di due papi vestiti entrambi di bianco che si abbracciano in Vaticano. Inimmaginabile pensare che il video più visto al mondo su YouTube, il primo che supera il miliardo di visualizzazioni, non sia prodotto in America, ma sia quello di un rapper coreano che improvvisamente diventa celebre con il Gangnam Style. E, per chi ama il calcio, è sinceramente complicato non avvertire il vuoto pensando che uno dei più grandi allenatori di sempre, sir Alex Ferguson, lasci dopo ventisette anni la panchina e la guida del Manchester United.
Ci sono tutti gli elementi, dunque, per perdere la bussola. Ma qualche certezza resta intatta. Fortunatamente o sfortunatamente, sia chiaro. Per esempio, la certezza che la sinistra italiana riesca a perdere le elezioni, anche quando sembrerebbe impossibile farlo.
Raccontare la cronaca della politica italiana del 2013 non è semplice. Mettiamo in fila i fatti. In un quadro di profonda incertezza economica e occupazionale, con la crisi economica più rilevante dal dopoguerra, la sinistra realizza la straordinaria impresa di perdere elezioni politiche che sembravano già vinte, grazie a una campagna elettorale da manuale. Manuale dei perdenti, sia chiaro. Silvio Berlusconi risolleva un centrodestra che sembrava cotto e decotto, riuscendo nel capolavoro di cancellare con due mesi di campagna elettorale nove anni di governo fallimentare. Ci salviamo per un soffio, per un pugno di voti: fanno la differenza poco più di centomila cittadini. Le ultime ore dello scrutinio sono un allucinante, inarrestabile avvicinamento del Popolo della Libertà alla percentuale del Partito democratico: finirà con uno scarto da prefisso telefonico, appena uno zero virgola. Mi domando quale peccato abbia commesso il militante democratico tipo per arrivare sempre sul fotofinish a rischiare le coronarie. Se solo i democratici non si fossero alleati con la Südtiroler Volkspartei, giusto per fare un esempio, il Cavaliere avrebbe avuto i consensi per la rimonta più incredibile della storia e, particolare non da poco, per farsi eleggere al Quirinale!
Già, il Colle. Il Parlamento neoeletto conferma – per la prima volta nella storia della Repubblica italiana – l’inquilino uscente, Giorgio Napolitano. Uscente che non aveva molta voglia di rientrare, pare. E che accetta con generoso spirito di patria la supplica dei principali gruppi parlamentari scottati dal voto dei franchi tiratori. E dal loro incredibile autolesionismo. Surreale la scena del discorso di insediamento del presidente della Repubblica: parole durissime contro le colpe dei partiti e dei loro esponenti che, con raro e notevole sprezzo del pericolo applaudono freneticamente. Un marziano che assistesse alla scena in diretta tv non capirebbe. Neanche un umano, forse. Più il presidente gliele canta, più i membri del Parlamento sembrano entusiasti: rara forma di masochismo politichese. Viene quasi voglia di mettere un sottotitolo: Ragazzi, guardate che sta dicendo a voi, eh!
Il quadro del grande caos si completa con il risultato straordinario dell’ex comico Beppe Grillo il cui Movimento 5 Stelle prende i voti di un italiano su quattro, e con il tonfo, sobrio come da marchio di fabbrica, del partito dell’ex premier Mario Monti, Scelta civica. Ora, io mi immagino un giornalista straniero. Per mesi ha detto e scritto che finalmente Monti ha restituito serietà e credibilità al Paese (non era impresa complicata dopo che avevamo avuto per ministri persone come Bossi, Brambilla, Brunetta, solo per restare a quelli con la lettera B). L’Italia è tornata un Paese normale, dicono i media di tutto il globo. Poi vengono le elezioni e l’uomo considerato per un anno il salvatore della patria arriva quarto. Addirittura giù dal podio. Preceduto anche da un signore che, per non farsi intervistare, si rinchiude a febbraio sulla spiaggia di Marina di Bibbona e cammina tranquillo con una specie di tuta da sub e una maschera da Star Trek in testa. Quando poi arrivano i giornalisti si mette a correre. Con la maschera. E quelli dietro con la telecamera. E giù, parole in libertà: la mafia non ha mai strangolato nessuno, l’Aids non esiste, e altre perle di straordinaria assurdità. L’Italia non sarà mai un Paese normale, rettificano i media di tutto il globo.
Seguo queste vicende da attore non protagonista, come si direbbe al cinema. La mia vicenda personale non è di per sé interessante. Non ero candidato alle elezioni politiche, avendo scelto – dopo le primarie contro Bersani – di evitare i classici premi di consolazione: vieni a Roma, fai il ministro di qui, il parlamentare di là. Una scelta inedita, per la politica italiana: di solito gli sconfitti delle primarie si piazzano in una poltrona prestigiosa, anche solo come riconoscimento per l’impegno. Con i miei amici abbiamo deciso di fare una scelta diversa, non per snobismo ma per coerenza: volevamo cambiare il Paese, non cambiare poltrona. Non siamo riusciti nell’impresa? Bene, riproveremo. Ma adesso non ci facciamo lusingare da un incarico. E dunque, il giorno dopo la sconfitta alle primarie del dicembre 2012, ho continuato a fare il sindaco della mia città, quella meraviglia planetaria chiamata Firenze, senza mendicare incarichi o accettare compromessi. Rimane chiaro, però, che alcune battaglie che avevamo lanciato e coltivato negli ultimi mesi continuano a farsi pesantemente spazio e giocare un ruolo dentro l’agorà della politica.
Ho lanciato, ad esempio, una parola che è stata molto contestata e criticata: «rottamazione». Non ricordo partito politico che non abbia preso le distanze da questo termine: anche chi magari poteva arrivare a essere d’accordo con la sostanza, ne contestava quasi sempre la forma. Mi sono preso del maleducato, del qualunquista, del demagogo. Con leggerezza e sobrietà il giornale del mio partito mi ha bollato con l’epiteto del «fascistoide». E questo è il mio, di partito. Figuriamoci gli altri.
Ma la parola «rottamazione» è entrata nel lessico familiare degli italiani. E si è fatta strada persino in politica se è vero, come è vero, che a conclusione di questa lunga impasse istituzionale abbiamo votato il Parlamento più giovane della storia repubblicana e ci siamo trovati con un presidente del Consiglio under 50. Io ho perso alle primarie, ma la rottamazione ha vinto alle secondarie. Non posso che gioirne: il destino personale è meno rilevante del cammino delle idee. Fai politica per affermare le cose in cui credi, non per elemosinare uno strapuntino di visibilità.
Il Parlamento manda in pensione (purtroppo con cospicua liquidazione e annesso vitalizio) molti dei leader degli ultimi vent’anni. Il governo Letta sembra voltar pagina, tenendo fuori i big di una generazione. Non è arrivato il momento della nostra generazione, non è (ancora) arrivato. Ma ci siamo andati molto vicini. Come dice la saggezza popolare, tuttavia, «vicino» vale solo a bocce. Arrivare vicino, in politica come nella vita di tutti i giorni, non basta. Però è già un passo in avanti.
Adesso che la rottamazione è riuscita, voglio essere il primo a dire basta con la rottamazione. E spiegare finalmente, una volta per tutte, che nessuno di noi ha mai inteso fare una battaglia squisitamente generazionale. Noi vogliamo cambiare l’Italia, non cambiare l’anagrafe.
Credo che il presidente della Repubblica italiana sia uno dei più anziani capi di Stato in carica. E credo che il leader della Corea del Nord sia uno dei più giovani capi di Stato in carica. Il primo ha ottantotto anni, il secondo ne ha trentadue. Esiste qualche persona dotata di buon senso che oggi pensi di scegliere Kim Jong-un, il leader della Corea del Nord che ha minacciato la Corea del Sud e gli Stati Uniti d’America di un attacco nucleare?
Ovviamente no. Scegliamo tutti – convintamente – Napolitano, tutta la vita. Nessuno accetterebbe uno scambio neanche sotto tortura. Avremo finalmente vinto davvero, allora, quando riusciremo a spiegare che non si tratta semplicemente di una questione legata alla carta d’identità.
Cos’è stata dunque, in sintesi, la rottamazione? L’idea di riportare la politica in sintonia con il Paese. Di rimettere l’Italia dei Palazzi sui binari della quotidianità. Se ho indossato con convinzione i panni del rottamatore non è quindi per il furore iconoclasta del nuovismo. Quando lo dico non mi crede nessuno, ma sono una persona che adora le tradizioni, che si è laureata in storia del diritto e che crede alla bellezza del patto tra generazioni. Credo nella bellezza e nel valore costitutivo della memoria, e mi piace da impazzire quel pensiero di James Matthew Barrie, il padre di Peter Pan, che dice «Dio ci ha donato la memoria, così possiamo avere le rose anche a dicembre». Ma penso anche che la politica abbia un senso e una missione solo se viaggia alla velocità del Paese. Se insegue con il fiato corto, non è più politica: è semplice autoconservazione di una classe dirigente sbiadita. Opaca. Ingrigita. Per me la politica ha senso solo se è un laboratorio di innovazione da cambiare giorno dopo giorno, non un triste tour al museo delle cere.
Di questa rottamazione c’è ancora molto bisogno. Paradossalmente c’è bisogno più di prima di una spinta che aiuti l’Italia a rimettersi in movimento. Andare oltre la rottamazione non significa dunque rinnegarla, ma completarla.
Chi ha occupato gli scranni del Parlamento in quest’ultimo quarto di secolo non si è accorto che fuori stava accadendo una rivoluzione. Una rivoluzione culturale, sociale, sociologica. Fatta con le armi del pensiero e della novità. Una rivoluzione che ha cambiato in profondità la vita quotidiana delle famiglie. E chi stava al riparo, ovattato dal potere, semplicemente non se ne è accorto. Dire che una generazione di politici ha fallito non significa esprimere un giudizio morale su di loro: significa più banalmente esprimere un giudizio oggettivo. Sono stati per molti lustri in Parlamento. Magari sono più bravi, più preparati, più professionali, più simpatici di noi. Ma vanno giudicati per ciò che hanno fatto. E prima ancora per ciò che non hanno fatto. Li giudichiamo per tutte le volte in cui hanno avuto la nostra fiducia e l’hanno sprecata litigando tra loro. Hanno cambiato tante volte il nome, ma si sono dimenticati di cambiare le facce.
Il mio mestiere per il momento è fare il sindaco. Dico «per il momento» perché fortunatamente questo servizio alla comunità ha dei limiti temporali dettati dalla legge: al massimo puoi farlo dieci anni. È un principio sacrosanto. Dieci anni in politica nello stesso posto sono più che sufficienti. E il principio della rotazione è fondamentale per mantenere in vita entusiasmo e stimoli. Come tutti i miei colleghi sono considerato il primo cittadino del mio territorio. Ma è un errore terminologico mica da ridere. Il sindaco non è il primo cittadino: è soprattutto l’ultimo cittadino, quello che si deve accorgere del passo di chi resta indietro, che deve indicare una via ma essere anche come il padre di famiglia che spegne la luce in casa rimboccando le coperte ai figli più piccoli. Il sindaco sta in mezzo a una comunità. Non sta (solo) curvo sulle scartoffie burocratiche: ha l’ufficio nel luogo simbolo della città, ma viaggia in mezzo alle persone, si muove in bicicletta, prende il caffè in ogni bar. Respira gli umori e gli amori della propria gente. E si accorge di quando la politica stecca, sbaglia tono. Il sindaco non vive nell’iperuranio della chiacchiera: si confronta con i problemi, con gli incidenti stradali e con i cassintegrati, con i tombini e le buche nelle strade. Ricordate quando ancora andavano di moda i tecnici? Bene, ecco cosa sono i sindaci: sono tecnici con l’anima. Affrontano problemi concreti, quotidiani, ma ci mettono l’entusiasmo, la passione, la grinta. Sono responsabili delle comunità che vengono loro affidate dal voto, non solo di un budget o di una procedura. Ci piace coltivare una speranza, non solo presentare l’ultima slide, insomma.
Camminando per le strade di Firenze, e poi non solo di Firenze, mi sono reso conto che il mondo che stiamo vivendo è straordinariamente difficile e complesso. Ma ricco di opportunità e di cambiamenti. Penso alla mia vita. Sono considerato un supergiovane, solo perché non sono ancora entrato negli «anta». Ma in realtà ho già fatto in tempo ad appartenere a un’altra stagione. A scuola avevo il gesso e la cimosa, non le lavagne interattive multimediali. Giocavo (maluccio) a calcio in piazza e bisognava fermarsi quando uno gridava all’improvviso «Macchina!». Registravo le musicassette per far capire chi ero, perché la musica mi definiva più di quanto faccia oggi un profilo Facebook, e usavo la matita per riavvolgere il nastro quando si ingarbugliava. Non c’era Internet, la tv satellitare, il telefonino con l’annesso sistema di messaggini. Usavamo strumenti specifici come la macchina fotografica con il rullino, la sveglia, le cartine geografiche, l’enciclopedia, il walkman, e ascoltavamo le previsioni del tempo: tutte funzioni che oggi svolgiamo tranquillamente con un solo oggetto, lo smartphone.
Può sembrare banale, ma proprio il telefonino è il simbolo di un cambiamento ontologico della vita quotidiana. Lo utilizziamo talmente tanto, dal fare una ricerca su Internet al coltivare i rapporti personali attraverso gli sms, che ormai non sappiamo più pensarci senza. È diventato infatti una protesi della nostra quotidianità: secondo i dati emersi nell’aprile 2013, ci sono oltre 4 miliardi di telefonini nel mondo, e da qui al 2017 i numeri saranno più che raddoppiati, sfiorando quota 9 miliardi. Il telefonino ci definisce e ci finisce, anche perché lo usiamo per le mappe, per lo svago (il 61 per cento degli italiani dichiara di giocare sul proprio cellulare), per la relazione, per i social network: per uscire da una dipendenza mentale, persino io che sono considerato un patito della tecnologia, ho tolto dal mio iPhone le applicazioni Twitter e Facebook. Quando voglio usare i social, apro il tablet o il computer. Così, almeno evito di controllare in modo compulsivo il cellulare.
In questa mutazione genetica, e talvolta generica, il fattore tempo è centrale. Non perdere tempo è una priorità irrinunciabile. Gli smartphone, che oggi sono poco più di 1,2 miliardi, quadruplicheranno in un quadriennio la propria diffusione, e possiamo soltanto immaginare cosa significhi questo anche solo dal punto di vista economico, se è vero, come è vero, che Apple ha perso negli ultimi sei mesi quote rilevanti del mercato mondiale, passando dal 23 al 17 per cento. Non solo. Il «Wall Street Journal» riporta un’anticipazione per la quale Amazon, non sazia di aver cambiato il mondo dell’editoria, starebbe sperimentando il primo smartphone con immagini 3D visibili senza bisogno degli specifici occhialini. Il tutto avverrebbe nei laboratori di ricerca di Cupertino, a due passi dall’headquarter Apple. Il breve periodo non sono più i mesi ma i giorni, ormai. Correre non è un lusso, è un’esigenza.
L’Italia politica del dopo elezioni perde due mesi di tempo a discutere di formule politicistiche e lascia che la vita fuori dal Palazzo proceda senza governo. In compenso i leader o presunti tali discutono del modello di governo: elettorale, di scopo, balneare, di servizio, a termine, tecnico, di larghe intese, di coalizione, di unità nazionale. Tanti aggettivi senza sostantivi. E, soprattutto, senza sostanza. Mi permetto di far notare sui giornali che, mentre loro chiacchierano, la crisi morde. Le banche stringono sul credito, la mancanza di fiducia impaurisce chi ha qualche soldo da parte e distrugge chi vive sul confine della povertà, la classe media non c’è più, distrutta dalle incertezze di una politica mediocre. Già, più mediocre che cattiva. Lancio un allarme in un’intervista, lo ripeto in tv: fate pure le scelte che vi sembrano più opportune, ma fatele. Non sprecate altri istanti.
Mi accusano di essere un qualunquista. La politica, mi si dice, richiede per le sue liturgie che si sprechi del tempo. Capisco, ma non sono d’accordo. La politica esige una visione, tempi lunghi, profondità. Tutti temi veri, sui quali io per primo mi sento impegnato a dimostrare cosa valiamo davvero. Ma richiede anche rapidità e leggerezza, soprattutto in questa nostra società così convulsa. Capacità di rimettersi in asse con i problemi dell’Italia. E fare di corsa le cose che vanno fatte. Sprecare il tempo, tra l’altro, concorre ad alimentare il gap tra cittadini e istituzioni. Parlo con alcuni neoeletti in Parlamento: si tratta di giovani professionisti, abituati a correre da una parte all’altra della città, a tenere insieme le necessità della vita privata con il lavoro. Arrivati in Parlamento, stanno ore sui divanetti del Transatlantico (il celebre corridoio dei passi perduti. E delle ore perdute, verrebbe da aggiungere): «Mi sembra di essere come all’aeroporto, quando perdi una coincidenza e l’aereo dopo è in ritardo. Ti trascini tra una votazione e l’altra e ti rendi conto che quando stavi fuori dal Palazzo era tutta un’altra vita».
Non è difficile individuare alcuni simboli di questa profonda lontananza tra società e politica. Potremmo fare un lungo elenco di temi su cui la frattura tra il ceto politico e la vita quotidiana si è sviluppata in modo insostenibile. Scelgo un tema delicato. Si pensi al modo di concepire il tema dell’immigrazione da parte della classe dirigente del nostro Paese: oddio, parlare di classe dirigente e citare la Bossi-Fini può sembrare azzardato. Non chiamiamola classe dirigente, allora: quelli che stavano al governo. La Bossi-Fini ha impostato politiche sull’immigrazione basate sulla paura. Paura di cambiare, paura del diverso, paura di accogliere, paura di condividere, paura di vivere. La frontiera come rifugio. La frontiera come lugubre preludio di minaccia. La frontiera come casa dell’angoscia. La Bossi-Fini, naturalmente, non ha risolto i problemi della criminalità o dell’immigrazione. Ha costretto a ridicole code davanti alle Poste intere generazioni di famiglie normali per regolarizzare una colf o una badante. Ha offerto a popolazioni di tutto il mondo, stupite e incuriosite, un perverso master sulla lucida follia dell’italica burocrazia. Ha tenuto lontano dal nostro Paese studenti di ingegneria, giovani designer, turisti del Far East o dei Paesi emergenti, con una ridicola gestione dei visti, incomprensibile persino per gli addetti ai lavori. La Bossi-Fini è stato il tributo culturale più alto pagato dal Paese all’alleanza tra la Lega Nord e la destra storica. Non è un caso, credo, se alla fine di questa legge si vergognavano anche i loro. Negli ultimi mesi della sua esperienza politica, persino Gianfranco Fini usava parole totalmente altre verso gli immigrati, come se la legge portasse il nome di un suo lontano parente. Come se quel Fini lì fosse quello dei tortellini. Come se la coerenza fosse un optional, in politica. Non è un caso, io credo, che al momento del voto per le politiche del 2013 proprio Fini sia stato – meritoriamente – lasciato a casa dagli elet...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Oltre la rottamazione
  4. Oltre la rottamazione, perché l’Italia faccia l’Italia
  5. Si chiamerà Partito democratico
  6. Il diritto di lavorare e la libertà di assumere
  7. Immaginare il futuro
  8. L’Italia di Gregorio
  9. Copyright