Esercizi di sevizia e seduzione
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Esercizi di sevizia e seduzione

  1. 228 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Esercizi di sevizia e seduzione

Informazioni su questo libro

Ignazia, figlia di genitori siciliani, vive a Milano, dove fa l'architetta precaria e, senza averlo cercato, si imbatte in un ginecologo simpatico e gentile, che mangia vegetariano, fuma senza nicotina e la conquista in punta di piedi.
Ma Ignazia ha anche una segreta, personalissima missione a nome di tutte le donne (e non solo), lontana sia dall'impegno collettivo dei cortei neofemministi sia dalla dimensione glamour alla Sex and the City: leggendo la letteratura di ogni tempo si è resa conto di come qualsiasi forma di violenza sul corpo delle donne sia considerata più che normale, mentre l'equivalente ai danni di un maschio fa inorridire, al punto di essere tacciato di inverosimiglianza. È così che, in solitudine, Ignazia si dedica a un esercizio che non è solo di stile: sceglie con cura pagine letterarie che descrivono la violenza sulle donne e le riscrive al maschile, con gli uomini come vittime. Ma non finisce qui. Senza troppa fatica Ignazia seduce e rapisce uomini in carne e ossa, scelti in quanto prototipi di maschilismo, e li costringe ad ascoltare le sue pagine fino a terrorizzarli, iniettandogli infine una potente dose di ossitocina, ormone che favorisce il rilassamento, la fiducia e l'amore.
Ignazia non è un'eroina, non ha particolari traumi da vendicare, non si definisce una giustiziera: al massimo una serial scarer, una spaventatrice seriale. È una donna normale, semplicemente stanca dei luoghi comuni e delle discriminazioni che si annidano nell'immaginario di tutti, talvolta anche attraverso le pagine dei romanzi.
Irene Chias scrive un libro brillante, arguto, che dà vita a una piccola galleria di donne fuori dal comune e traccia un caustico ritratto della Milano di oggi. Pagine ironiche e provocatorie, che si fanno denuncia proprio perché raccontano con grazia e senza acredine una storia femminile d'amore e ribellione, a tratti surreale, a tratti incredibilmente vicina ai nostri percorsi quotidiani.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804624769
eBook ISBN
9788852038426

LA DOMANDA GIUSTA

Il testosterone appartiene, con l’ossitocina, la serotonina, la codeina, il cortisone, l’estrogeno, l’Omeoprazol, ecc., all’insieme di molecole disponibili oggi per fabbricare la soggettività e i suoi affetti.
BEATRIZ PRECIADO, Testo tossico

Thorsten il vecchio

«Pare sia morto Thorsten» mi ha detto Panagia con un’eco di vaga tristezza. «Mi è arrivata una email dalla figlia che ha avuto accesso alla sua casella di posta elettronica e ha scritto a tutti gli sconosciuti che ha trovato nell’indirizzario di suo padre.»
«Quando è successo?»
«Circa due mesi fa, la figlia ha scritto più o meno il mese scorso, ma ho visto il messaggio solo oggi. Sai, gli avevo dato l’email che uso per lo spam e le seccature. Quella che controllo raramente.»
Thorsten è l’unico uomo che possiamo definire anziano con cui mia sorella abbia avuto rapporti sessuali, e per di più facendosi pagare. Un tedesco conosciuto a Marsa Alam, sul Mar Rosso, nel 2003, a soli due anni dall’apertura dell’aeroporto internazionale e dalla conseguente progressiva espansione del turismo in quell’area specifica.
Era partita da sola, con un pacchetto last minute propostole dall’agenzia sotto casa. Non aveva ancora venticinque anni e aveva da poco interrotto una relazione con uno che le piaceva molto ma che non apprezzava la sua incostanza.
Il pacchetto rispondeva alla formula “hard all inclusive” e mia sorella, almeno all’inizio, non aveva voglia di far nulla di quanto non “included”. Né escursioni al vicino centro di El Quseir, né snorkeling alla baia del Dugongo, né immersioni nei fondali attorno all’isola di Utopia per vedere la barriera corallina, né presunti megasafari nel deserto per fare merenda in una tenda beduina. Voleva solo starsene sdraiata al sole e non pensare a niente se non, al limite, a non perdere il filo del thriller di Jeffery Deaver che stava leggendo.
Una cosa da fare in realtà ci sarebbe anche stata: una puntata a Luxor in autobus. Era una gita in giornata, piuttosto massacrante: sette ore all’andata, con partenza prima dell’alba, sette ore al ritorno, con arrivo probabile dopo la mezzanotte. Solo che costava centocinquanta euro, cifra di cui Panagia non disponeva se non per casi d’emergenza.
Nel villaggio aveva conosciuto un gruppo di spagnoli rincoglioniti che stavano sempre a chiedere ai beduini delle tende di tagliare il tombak del narghilè con l’hashish, e qualche italiano erotomane che aveva decisamente sbagliato destinazione. Avevano cenato tutti insieme la prima sera ritrovandosi inevitabilmente in quella situazione che viene superficialmente definita “fare amicizia”.
Così mia sorella stava trascorrendo il resto della vacanza cercando di evitarli e mimetizzandosi fra gli ombrelloni e le anziane coppie brianzole.
Una mattina, la terza o la quarta di quella settimana in Egitto, notò un uomo solo, sulla sessantina, capelli grigi e pancia leggermente protuberante, visibile attraverso la maglietta giallo stinto che sembrava una prosecuzione dell’incarnato bianchiccio. L’uomo stava leggendo un libro di Günter Grass dal titolo Der Butt, fuori luogo forse, ma non più del suo Deaver.
Si ritrovò a fissarlo, elaborando fantasiose ipotesi sulla vita, la professione, gli affetti di quella faccia tutto sommato simpatica e in qualche modo piacevole, finché non si rese conto che anche lui la stava guardando, o forse stava solo cercando di afferrare il titolo del libro che mia sorella stava leggendo.
Così lei glielo sventolò come per salutarlo e disse: «The Empty Chair», che è il titolo originale del libro che Panagia stava leggendo in italiano. Si misero a parlare e poi andarono insieme al pranzetto incluso nella formula “all inclusive”, anzi “hard all inclusive”.
Thorsten, sessantacinque anni portati correttamente, rappresentante di una ditta di Stoccarda che vendeva prodotti chimici per colorare piastrelle industriali, era separato, padre di tre figli ormai grandi, due femmine e un maschio, e non esageratamente infelice.
Mia sorella si meravigliò di provare attrazione per quel vecchio crucco, tant’è che, dopo l’appiccicoso dolce arabo previsto dalla formula “hard all inclusive”, continuò a stare con lui il pomeriggio e poi durante la serata al bar della spiaggia, parlando di quello che capitava, soprattutto dell’Italia, dato che per lavoro Thorsten doveva saltuariamente recarsi a “Firendsa”.
Dopo cena Panagia, un po’ incerta e piuttosto confusa, lo salutò ai margini dell’area animazione, dove un finto ma avvenente fachiro locale (che in cuor suo, nella noia dei primi giorni, lei aveva ribattezzato il “fuck hero”) si stava esibendo nel numero dei vetri, la performance di apertura, cui sarebbe seguita quella dei chiodi, quella del fuoco e quella delle spade.
La mattina successiva era stranamente nuvolo. Panagia a colazione non lo vide e andò in spiaggia nella speranza di incontrarlo lì, ma niente. Mia sorella si rese conto che il giorno prima aveva sentito quell’uomo emanare un calore che sapeva di accoglienza, un calore tutto emotivo. Così mi disse lei, anche se non sono sicura di aver capito cosa intendesse.
Poi scoppiò un temporale improvviso, uno di quelli che a Marsa Alam fanno sballare in un colpo solo la media annua delle precipitazioni. L’ombrellone cedette al peso dell’acqua e mia sorella finì per correre verso i bungalow. Il villaggio non era attrezzato, niente pendenza nei balconi, niente canali di scolo, e un’enorme quantità di materiali non resistenti all’acqua.
Correndo riconobbe la sagoma di Thorsten controluce dalla porta-finestra della sua stanza e bussò al vetro. Gli chiese un asciugamani e lui le offrì un amaro alle erbe che si era portato o procurato chissà come.
E questi furono gli eventi in seguito ai quali Panagia si ritrovò nell’appartamento 416 a rotolarsi sul lettone con un anziano tedesco. Quando lui, con un ardore che la mia spietata sorella giudicò poco appropriato alla sua età, si tolse la maglietta, lei cercò di non guardare le mammelle pendule, concentrandosi invece sul blu mare dei suoi occhi alemanni.
Ma non era facile, e lo sguardo cadeva giù.
Lui le piaceva, pur facendole un po’ schifo. È una cosa orribile da dirsi su una persona anziana, ma è la verità: a Panagia la decadenza un po’ indecente di quel corpo dinoccolato, e forse una volta piacente, faceva ribrezzo.
Che ci faceva a letto con un vecchio?
Si sentiva in colpa per quei sentimenti di repulsione, e sapeva che probabilmente erano il mero frutto della sua inesperienza, e quindi della sua ignoranza.
Pensò a Luxor, alle tombe dei faraoni, a Mosè che attraversa il Mar Rosso. Rifletté pure su quale circostanza atmosferica potesse spiegare in modo plausibile il ritirarsi delle acque.
A un certo punto si rese conto che lo stava tenendo lontano con tutta la lunghezza del braccio, mentre lui cercava forse di baciarla.
«Vats dea praplem?» chiese quindi lui.
E senza neanche accorgersene mia sorella rispose: «Sono centocinquanta euro».
Lui chiarì che non aveva pensato di dover pagare e fece una battuta sulla formula che doveva essere “hard all inclusive”. Però si disse d’accordo e chiese a mia sorella un pompino.
«No blow jobs» rispose mia sorella.
«Vat dou yo dou, then?»
«Only hand jobs», in quel momento pensò che il massimo che potesse concedergli era una sega.
Ma Thorsten per una sega era disposto a pagare solo trenta euro. Per quell’altra cifra avrebbe ottenuto molto di più e molto altro.
«Ma io sono laureata, è una categoria completamente diversa.»
Alla fine, e non ho mai capito perché, forse nel resoconto di Panagia manca un passaggio chiave, si misero a ridere e il volubile desiderio di mia sorella si sciolse fra le braccia di quell’uomo lattescente e sovrappeso.
Usarono i preservativi che il vecchio previdente si era portato dietro e solo due giorni dopo Panagia visitava il tempio di Karnak e la Valle dei Re, tralasciando la tomba di Tutankamen che richiedeva un esborso extra.
«Mi ha scritto per anni, e io non gli ho mai risposto se non stitici Thank you, o Merry Christmas to you too» mi dice Panagia con la stessa vaga tristezza di prima. «Una volta mi ha chiesto l’indirizzo per inviarmi un “regalo di primavera” e non gliel’ho dato. L’anno scorso mi è arrivata la sua richiesta di amicizia su Facebook e l’ho ignorata.»
«Tecnologico, il nonno!»
«Già» risponde mia sorella con la voce incrinata da una blanda emozione. «Forse dei fiori a Stoccarda glieli avrei mandati, però. Era un bel tipo.»

Scritto e pensato

Appunti di Michele Rombini

Azzardo
È come quando una volta, a quattordici anni, ho camminato sul cornicione, o come quando da bambino pensavo “devo bloccare il portone prima che si chiuda” e altrimenti andavo all’inferno. E allora iniziavo a correre da dieci metri di distanza per fermarlo prima che si chiudesse. Solo che a volte si chiudeva e io pensavo che avevo perso e che sarei andato all’inferno.
È allo stesso modo che ogni tanto continua a prendermi una specie di richiamo dell’azzardo. L’effetto sul mio corpo è lo stesso, una specie di eccitazione silenziosa e moderata ma presente. Quindi preparo una email con tutti gli indirizzi di pazienti o colleghi o capireparto e scrivo a caratteri cubitali una bestemmia, e poi posiziono la freccetta del mouse sul comando invio e inizio ad accarezzare il pulsante di sinistra. E poi faccio una leggera pressione col dito, oppure alzo l’indice e lo faccio ricadere sul pulsante del mouse. Un piccolo eccesso e partirebbe l’email con la bestemmia ai miei pazienti, ai miei superiori, agli infermieri.
Ho fatto la stessa cosa con Ignazia dopo la festa. Ho scritto un sms con un “ti amo” e poi ho iniziato a ticchettare il dito sul pulsante verde del telefonino. Se fosse partito il messaggio le sarebbe arrivato un “ti amo” anche se la conoscevo da due giorni, anche se non era vero.

Il marito dell’amica sposata

Il marito della mia amica sposata si chiama Mario ed è un coglione.
Una sera a cena a casa loro si parlava di escissione e infibulazione, per via di un’inchiesta sul fenomeno in Italia e l’imbecille non riusciva a togliersi dalla faccia un sorrisetto compiaciuto. All’inizio non avevo capito di che si trattasse, pensavo a un tic, o a un pensiero estraneo che gli attraversava la mente distogliendolo dalla natura spiacevole dell’oggetto della nostra conversazione.
La mia amica sposata ritiene che le mutilazioni genitali femminili siano uno strumento di predominio di un genere sull’altro attraverso il controllo della sessualità, così come l’azzoppamento che, secondo il mito, le amazzoni perpetravano sui bambini maschi era l’imposizione di un genere sull’altro attraverso il controllo della mobilità.
A un certo punto, per associazione di idee, ho iniziato a parlare della pratica della subincisione, statisticamente di gran lunga più limitata e originata da motivazioni e finalità completamente diverse, socialmente e simbolicamente, tuttavia piuttosto impressionante.
Presso alcune tribù oceaniche, ma anche africane, mi pare, nel corso di specifici riti iniziatici, ad alcuni giovani uomini già circoncisi si pratica un taglio longitudinale del pene, dalla base fino allo sbocco dell’uretra, in maniera da aprire il canale uretrale. L’obiettivo è dotare questi giovani di una sorta di divina totalità, attraverso l’evocazione di una vulva, e dei poteri attribuiti all’essere androgino.
Il marito della mia amica sposata ha quindi smesso il suo sorrisino divertito e si è risentito. Ha iniziato a darmi della “misandra”.
«Ma quando mai» gli ho risposto. «Stiamo parlando di deformazioni genitali, e anche questa lo è. Mica ho detto che sono favorevole.»
«Ma che c’entrava tirar fuori questa storia?»
«Si parlava di modificazioni agli organi sessuali, delle loro finalità, di altre culture...»
«Vabbè, ma una cosa è la figa e un’altra è il cazzo.»
A quel punto si è alzato e se n’è andato.
Io ho fissato per un po’ quel vaso orribile che ho portato in regalo da un viaggio a Copenaghen e che loro tengono di fianco al televisore, poi ho guardato interrogativa la mia amica sposata che continuava a mangiare l’insalata di mele e noci.
«Ne vuoi un altro po’?» mi ha chiesto come se nulla fosse.
«Ma che è successo? Non ci ho capito niente.»
«Quando?» mi ha domandato lei. E poi con una torsione del collo ha gridato verso il corridoio: «Caro, ti lascio il secondo sul ripiano della cucina».
La mia amica sposata è una donna generosa, colta, intelligente, talvolta spiritosa, sempre elegante.
Suo marito, ribadisco, è un coglione.
Cosa ci vedrà in lui, ci chiediamo in tanti. O almeno, cosa ci avrà visto.
È un belloccio decaduto, arrogante e ignorante, volgare, stupido.
La verità è che, in generale, dall’esterno la coppia è un organismo misterioso e incomprensibile. Una macchina complessa dai meccanismi segreti.
Spesso anche dall’interno.

Ridere

Ieri ho ripensato al primo incontro con quella che sarebbe diventata una persona fondamentale nella mia vita.
Avevo quasi dieci anni, all’inizio della quinta elementare. Ero in una fase in cui non c’era uno spazio tutto mio, avevo continuamente alle calcagna mia sorella Lucia: mi seguiva dappertutto, mi copiava, mi sottraeva giochi e accessori vari, quando arrivava una mia compagna a casa non c’era verso di scollarsela di dosso neppure mentre facevamo i compiti. Come se non bastasse la pervicacia persecutoria di mia sorella, mia madre, occupata con la piccola Panagia, me la appioppava a ogni occasione.
Ecco perché quell’anno decisi che, fra i corsi sportivi offerti dalla scuola, ne avrei scelto uno off-limits per i minori di nove anni. Dissi quindi a mia madre che mi sarei iscritta a ginnastica artistica, dove a nove anni eri al secondo livello.
Fu lì che la vidi per la prima volta. Aveva i capelli castani lisci, la fronte molto ampia, la pelle sottile chiazzata di lentiggini.
Eravamo tutte allineate davanti all’istruttore Giuliano che ci spiegava come si sta in riga da ginnaste, lo stesso istruttore che da lì a qualche lezione sarebbe entrato in tale sadica intimità con i corpi delle ragazzine che gli stavano davanti da sedersi sui nostri culi che svettavano dal suolo nei primi vani tentativi di spaccata. Petto a terra, braccia aperte e gambe spalancate. Ci saremmo trovate a pelle d’orso se i tendini d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Esercizi di sevizia e seduzione
  3. L’endometriosi
  4. Come se i colori non fossero di tutti
  5. Decompressione
  6. IL CORPO STRANIERO
  7. LA DOMANDA GIUSTA
  8. NON SERBO RANCORE PER MANCANZA DI SPAZIO
  9. Ringraziamenti
  10. Nota dell’autrice
  11. Copyright