Erano le sei di un mattino di marzo ed era ancora buio. Il lungo convoglio ferroviario avanzava senza scosse tra le luci rade dello scalo, accompagnato dal battito sommesso delle ruote sugli scambi. Nel fascio luminoso della cabina di segnalazione e di nuovo nelle tenebre. Sotto lo smeraldo solitario tra i numerosi rubini del portale del semaforo. Ancora avanti, verso la distesa grigia e deserta delle banchine in attesa sotto gli archi delle tettoie.
Il postale da Londra al termine del suo viaggio.
Si era lasciato alle spalle un’intera notte e ottocento chilometri di binari immersi nell’oscurità nel suo tragitto da Euston. Ottocento chilometri di campi illuminati dalla luna e di villaggi addormentati; di città buie e di fornaci insonni; di pioggia, nebbia e gelo; di turbini di vento e neve; di gallerie e di viadotti. Ora, nella desolazione delle sei di un mattino di marzo, le colline si levavano tutto intorno e il treno stava arrivando, in apparenza irrilevante e quieto, per riposare dopo l’interminabile e pressante corsa. E soltanto una persona su quel lungo convoglio affollato non sospirò di sollievo a quella constatazione.
Tra quelli che sospirarono, almeno due lo fecero con una gioia che rasentava la frenesia. Uno era un passeggero, l’altro un impiegato delle ferrovie. Il passeggero si chiamava Alan Grant, il ferroviere Murdo Gallacher.
Murdo Gallacher era un inserviente dei vagoni letto nonché l’essere vivente più detestato tra Thurso e Torquay. Per vent’anni aveva tenuto in soggezione i viaggiatori costringendoli a sottostare ai suoi ricatti e obbligandoli a rendergli omaggio. Omaggio sotto forma di offerte in denaro, ovviamente. Gli omaggi a parole erano volontari. I passeggeri della prima classe lo conoscevano bene con il soprannome di Yogurt. “Oddio, c’è il vecchio Yogurt!” erano soliti esclamare quando la sua faccia acida compariva in mezzo alle tenebre fumose di Euston. I passeggeri della terza classe gli attribuivano una varietà di appellativi, tutti molti espliciti e adatti a descriverlo fedelmente. Come lo definissero i suoi colleghi restava una faccenda del tutto privata. Soltanto tre persone erano riuscite ad avere la meglio su Murdo: un mandriano del Texas, un soldato scelto dei Cameron Highlanders della Regina, e una sconosciuta popolana londinese della terza classe che aveva minacciato di spaccargli una bottiglia di limonata sulla testa calva. Né il rango né il successo impressionavano Murdo: detestava il primo e il secondo lo irritava; tuttavia aveva un sacro terrore del dolore fisico.
Per vent’anni Murdo Gallacher si era limitato a fare soltanto il minimo indispensabile. Quel lavoro gli era riuscito odioso prima ancora che fosse trascorsa una settimana da quando l’aveva iniziato, ma si era accorto che poteva costituire una miniera d’oro e quindi era rimasto per sfruttarla. Se toccava a lui servire la colazione del mattino, si poteva stare certi che il tè sarebbe stato acqua sporca, i biscotti mollicci, lo zucchero di un colore indefinito e il vassoio sudicio e sprovvisto di cucchiaio; eppure, quando Murdo passava a ritirare le stoviglie, le proteste pronte a esplodere finivano per morire sulle labbra dei passeggeri. Di tanto in tanto, un ammiraglio della Regia Marina, o qualcuno del genere si azzardava a dichiarare che il tè era un maledetto schifo, ma i più sorridevano e pagavano. Per vent’anni la gente aveva pagato, stanca e intimidita, soggiacendo al ricatto. E Murdo aveva prosperato. Era adesso proprietario di una villa a Dunoon, di una catena di fish and chips a Glasgow e di un sostanzioso conto in banca. Si sarebbe potuto mettere a riposo già da diversi anni, ma gli riusciva insopportabile l’idea di dover rinunciare a una parte della pensione; quindi aveva deciso di sopportare ancora un po’ quella seccatura e di prendersi la rivincita evitando di accollarsi la fatica di servire il tè del mattino, a meno che non fossero i viaggiatori stessi a richiederlo; e talvolta, quando si sentiva molto assonnato, si dimenticava comunque dell’ordinazione. Salutava la fine di ogni viaggio con il sollievo di chi vede avvicinarsi il termine della propria condanna dovendo scontare ormai soltanto un breve periodo di detenzione.
Alan Grant, mentre contemplava le luci delle banchine che fluttuavano al di là del finestrino appannato e ascoltava il suono smorzato delle ruote sugli scambi, si sentiva sollevato perché la fine del viaggio coincideva con la fine di una notte di pena. Grant aveva trascorso le ore destinate al sonno cercando di non spalancare la porta dello scompartimento. Del tutto sveglio, era rimasto disteso sulla sua costosa cuccetta per ore. Aveva sudato, non perché facesse troppo caldo – l’aria condizionata funzionava a meraviglia –, ma perché – oh strazio! oh vergogna! oh mortificazione! – lo scompartimento costituiva uno Spazio Limitato e Chiuso. Per le persone normali lo scompartimento era soltanto una minuscola camera ordinata con una cuccetta, un lavabo, uno specchio, rastrelliere per i bagagli di dimensioni diverse, scaffali che apparivano e sparivano a comando, un bel cassettino per gli ipotetici oggetti di valore che qualcuno volesse riporvi e un gancio per appendervi l’orologio una volta tolto dal polso. Ma per gli iniziati, gli iniziati tristemente posseduti, si trattava di uno Spazio Limitato e Chiuso.
Troppo lavoro, questa la diagnosi del medico.
«Non faccia niente per un po’ e se la prenda comoda» aveva detto il dottore, accavallando le gambe rivestite dagli eleganti pantaloni nello stile di Wimpole Street e ammirandone l’effetto.
Grant non riusciva a immaginarsi in ozio e considerava la possibilità di prendersela comoda un concetto abominevole e un’occupazione degna del massimo disprezzo. Prendersela comoda. Mettersi all’ingrasso. Una demenziale soddisfazione di desideri puramente animaleschi. Prendersela comoda! Il solo suono di quelle parole lo disgustava.
«Ha qualche hobby?» gli aveva domandato il medico, spostando lo sguardo ammirato sulle proprie scarpe.
«No» si era limitato a rispondere Grant.
«Cosa fa quando va in vacanza?»
«Pesco.»
«Pesca?» fece lo psicologo, lasciandosi distogliere dalle proprie narcisistiche contemplazioni. «E questo non lo considera un hobby?»
«No di certo.»
«E allora cosa sarebbe secondo lei?»
«Una via di mezzo tra uno sport e una religione.»
E a quel punto la creatura di Wimpole Street aveva sorriso assumendo un aspetto quasi umano e gli aveva assicurato che la sua guarigione era soltanto questione di tempo. Tempo e riposo.
Be’, se non altro, era riuscito a non aprire la porta, durante la notte. Ma quel trionfo aveva preteso un caro prezzo. Si sentiva vuoto e inaridito, una nullità ambulante. «Non cerchi di lottare» aveva detto il medico. «Se desidera stare all’aperto, vada fuori.» Ma aprire la porta quella notte avrebbe significato una sconfitta definitiva al punto che, lo sentiva, non sarebbe più riuscito a riaversene. Una resa incondizionata alle forze dell’Irrazionalità. Perciò era rimasto sdraiato a sudare. E con la porta chiusa.
Tuttavia ora, nelle tenebre ingrate del primo mattino, nel buio anonimo e deprimente, si sentiva a terra come dopo una penosa sconfitta. “Penso che le donne si sentano così dopo un prolungato travaglio” si disse con quel suo distacco di fondo che il fanatico di Wimpole Street aveva notato e approvato. “Ma se non altro loro hanno un marmocchio da mostrare dopo tanta fatica. E io cos’ho?”
Il suo orgoglio, suppose. L’orgoglio di non aver aperto una porta che non aveva nessun motivo di aprire. Oh Signore!
L’aprì adesso, quella porta. Con riluttanza, e apprezzò l’ironia di quella riluttanza. Mal disposto ad affrontare la mattinata e la vita. Con il desiderio di gettarsi un’altra volta sulla cuccetta disfatta e di dormire, dormire, dormire.
Prese le due valigie delle quali Yogurt non si era affatto offerto di occuparsi, si ficcò sotto il braccio il fascio di riviste che non aveva letto e uscì nel corridoio. Il vestibolo all’inizio del vagone era occupato fin quasi al soffitto dai bagagli dei viaggiatori più prodighi di mance in modo tale da nascondere quasi del tutto la porta d’uscita, e Grant si spostò nell’altro vagone letto di prima classe. Anche l’estremità di quello si rivelò ingombra di numerosi ostacoli privilegiati e Grant si avviò quindi lungo il corridoio per raggiungere l’uscita in fondo al vagone. Nel frattempo lo stesso Yogurt si fece avanti sbucando dal suo rifugio all’estremità più lontana per assicurarsi che il passeggero del 7B si fosse accorto di essere quasi arrivato all’ultima stazione. Sarebbe stato diritto dell’occupante del 7B come di qualsiasi altro lasciare il treno con comodo dopo l’arrivo, ma Yogurt, naturalmente, non aveva nessuna intenzione di perdere tempo perché qualcuno non riusciva a svegliarsi. Quindi bussò con energia alla porta del 7B ed entrò.
Quando Grant arrivò all’altezza di quello scompartimento, Yogurt stava scrollando il passeggero del 7B che giaceva completamente vestito sulla cuccetta. L’aveva afferrato per una manica e gli diceva con repressa esasperazione: «Avanti, signore, andiamo! Siamo quasi arrivati».
Sollevò lo sguardo quando l’ombra di Grant oscurò la porta, e disse disgustato: «Ubriaco marcio!».
Nello scompartimento il puzzo del whisky era talmente intenso che si sarebbe potuto tagliare con il coltello, notò Grant. Con un gesto automatico raccolse il quotidiano che gli scossoni di Yogurt avevano fatto cadere sul pavimento, e raddrizzò la giacca dell’uomo.
«Non riconosce un morto, quando lo vede?» disse. Attraverso lo stordimento causato dalla stanchezza udì la propria voce che diceva: “Non riconosce un morto, quando lo vede?” come se fosse stata una cosa del tutto trascurabile. Non riconosce una primula quando la vede? Non riconosce un Rubens quando lo vede? Non riconosce l’Albert Memorial quando...
«Morto!» fece Yogurt con un ululato. «Non può essere! Io devo smontare dal servizio!»
Questa, notò Grant con totale distacco, era l’unica preoccupazione per il signor Che-il-diavolo-se-lo-porti Gallacher. Qualcuno se n’era andato all’altro mondo, lontano dal calore, dai sentimenti e dalle percezioni della vita verso il nulla, e per quel maledetto di Gallacher non aveva importanza se non perché rischiava di tardare a lasciare il servizio.
«Cosa dovrei fare?» domandò Yogurt. «Come facevo a sapere che sulla mia carrozza un tizio si stava ubriacando fino a morirne? Cosa dovrei fare?»
«Chiamare la polizia, naturalmente» disse Grant, e per la prima volta si rese conto che la vita era ancora qualcosa dalla quale si può trarre piacere. Gli diedero un contorto e macabro senso di soddisfazione il fatto che Yogurt avesse alla fine incontrato un suo degno compare, un uomo che gli avrebbe reso impossibile pretendere la mancia, e soprattutto l’idea che quell’uomo sarebbe stato capace di procurargli più seccature di quante gliene avesse procurate chiunque altro durante i suoi vent’anni nelle ferrovie.
Grant guardò ancora una volta il giovane volto sotto i capelli scomposti e proseguì lungo il corridoio. I morti non erano di sua competenza. Se n’era già occupato a sufficienza a tempo debito e, sebbene non fosse ancora riuscito a superare una certa stretta al cuore di fronte alla sua ineluttabilità, la morte non aveva più il potere di sconvolgerlo.
Il ritmico battito delle ruote sulle rotaie lasciò il posto al suono prolungato, basso e cupo che produce un treno quando entra in una stazione.
Grant abbassò il finestrino e rimase a contemplare il nastro grigio della banchina che scivolava via. Il freddo lo investì come un pugno in piena faccia, e lui prese a rabbrividire in maniera incontrollabile.
Posò le valigie sulla banchina e rimase lì – battendo i denti come una dannata scimmia, pensò risentito –, e desiderò che fosse possibile morire per un periodo di tempo limitato. In qualche remoto e buio recesso della mente si rendeva conto che tremare di freddo e di tensione nervosa sulla banchina di una stazione alle sei di un mattino d’inverno costituiva in ultima analisi un privilegio, una conseguenza dell’essere vivi. Però... quanto sarebbe stato meraviglioso poter morire temporaneamente e riprendere a vivere in un momento più felice.
«All’albergo, signore?» domandò il facchino. «Ci penso io ai bagagli, appena avrò sistemato questo carrello.»
Grant incespicò su per i gradini, sulla passerella. Il legno rimbombò sotto i suoi passi con il suono cupo di un tamburo. Grandi sbuffi di fumo salivano dal basso e si gonfiavano avvolgendolo; fragori metallici risuonavano dalle buie volte attorno a lui. Erano tutte sbagliate le concezioni dell’inferno, si disse. L’inferno non era affatto un luogo caldo dove si andava arrosto. L’inferno era una grande caverna gelida e piena di echi dove non esisteva né passato né futuro, una nera e risonante desolazione. L’inferno era l’essenza concentrata di una mattinata invernale e di una notte insonne trascorsa provando disprezzo per se stesso.
Si fece avanti nel piazzale deserto e l’improvviso silenzio gli procurò un senso di distensione. L’oscurità era fredda, ma pulita. Un accenno di puro grigiore lasciava presagire l’alba, e una brezza che sapeva di neve, con il suo netto alitare, faceva pensare alle alte vette dei monti. Di lì a non molto, quando si fosse fatto giorno, Tommy sarebbe venuto a prenderlo all’albergo per accompagnarlo in macchina nell’ampia e pulita campagna delle Highlands; nel vasto mondo delle zone montagnose, immutabile, semplice, dove la gente moriva nel proprio letto e nessuno si curava di chiudere a chiave la porta perché sarebbe stato solo un fastidio inutile.
Nella sala da pranzo dell’albergo le luci erano state accese soltanto da un lato. Immerse nella penombra della zona buia, si allineavano file di tavoli senza tovaglia con il piano foderato di panno verde. Gli capitò di pensare che non aveva mai visto prima i tavoli di un ristorante senza le tovaglie. Erano davvero molto dimessi e squallidi, privi del loro candido rivestimento. Come camerieri che si fossero tolti lo sparato.
Una ragazza con il grembiule nero e una giacca di maglia verde ricamata a fiori fece capolino da dietro un divisorio e parve spaventata nel vederlo. Lui si informò su quello che avrebbe potuto avere per colazione. La ragazza prese un’oliera dalla credenza e la posò sulla tovaglia davanti a lui con un’aria più affabile.
«Le manderò Mary» disse in tono gentile, e se ne andò sparendo dietro il divisorio.
Il servizio aveva perso smalto e formalismo, osservò Grant tra sé. Per usare il gergo delle stiratrici, non aveva più la piega. Ma qualche volta la promessa di mandare una Mary a qualcuno poteva porre rimedio ai golfini ricamati e ad altre incongruità del genere.
Mary era una creatura grassoccia e placida che avrebbe potuto benissimo essere una nanny se le nanny fossero state ancora di moda, e sotto le sue cure Grant si sentì rilassato come un bambino di fronte a una benevola autorità. Era davvero messo bene, pensò amareggiato, se aveva un tale bisogno di rassicurazione da accontentarsi di una grassa cameriera d’albergo.
Ma dopo aver mangiato quanto lei gli aveva messo davanti cominciò a sentirsi meglio. Di lì a un momento Mary tornò, portò via il pane affettato e lo sostituì con un piatto di panini freschi.
«Ecco qualche pagnottella per lei» disse. «Le hanno portate in questo momento. Non sono più come quelle di una volta, non c’è niente da masticare. Ma sono sempre meglio di questo pane.»
Gli avvicinò la marmellata, si accertò se mancasse il latte, e se ne andò di nuovo. Grant, che non aveva avuto intenzione di mangiare altro, imburrò comunque una pagnottella e prese uno dei giornali del giorno prima, che ancora non aveva letto. Gli capitò in mano un giornale della sera di Londra, e lo guardò interdetto. Aveva comprato un giornale della sera? Era certo di aver letto il giornale della sera alla solita ora, le quattro del pomeriggio. Perché avrebbe dovuto comprarne un altro alle sette, prima di partire? Acquistare un giornale della sera era diventato un riflesso condizionato, un gesto automatico come lavarsi i denti? Edicola illuminata: giornale della sera. Funzionava in quel modo?
Il foglio era il «Signal», l’edizione serale del «Clarion». Grant diede un’altra occhiata ai titoli di testa che aveva già scorso il pomeriggio precedente e rifletté su come sembrassero sempre gli stessi. Si trattava del giornale della sera prima, ma avrebbe potuto benissimo essere quello dell’anno precedente o del mese successivo. I titoli sarebbero stati sempre quelli che aveva sotto gli occhi: le baruffe del consiglio dei ministri, il cadavere di una bionda in Maida Vale, i procedimenti doganali, una rapina a mano armata, l’arrivo di un attore americano, gli incidenti stradali. Allontanò il giornale, ma mentre allungava la mano per prenderne un altro, notò che nello spazio bianco destinato alle notizie dell’ultima ora c’erano degli scarabocchi a matita. Fece ruotare il foglio in modo da vedere a cosa si riferissero quelle che immaginava fossero operazioni di calcolo. Però sembrava che gli scarabocchi non fossero un frettoloso conto del dare e avere di qualche strillone. Era il tentativo di qualcuno di scrivere dei versi. Che si trattasse di una fatica originale e non dello sforzo...