Penso quindi gioco
eBook - ePub

Penso quindi gioco

  1. 144 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Penso quindi gioco

Informazioni su questo libro

"Per me il gruppo conta tantissimo, ma se mi dimenticassi di me stesso toglierei forza proprio ai miei compagni: tanti singoli fanno una squadra, tanti sogni fanno un trionfo." Un fuoriclasse. Un super campione iper titolato. I complimenti iperbolici non sono mai sprecati se riferiti ad Andrea Pirlo, fantasista della Juventus e della Nazionale, ex Milan - con cui ha vinto e rivinto tutto il possibile - ed ex Inter. Ciò che colpisce di lui, oltre al geniale estro, è la formidabile logica fuori e dentro il campo. Creatività e raziocinio abitano in egual misura il suo corpo mettendo splendidamente in connessione testa e piedi.
Penso quindi gioco è la conferma della perfetta efficienza della macchina Pirlo. Il regista bianconero usa i piedi per calciare, la testa per pensare e la lingua per dire ciò che sente, senza tatticismo o giri di parole.
Fra le tante prese di posizione scomode contenute in questo libro, Pirlo è categorico sui colleghi calciatori coinvolti nelle scommesse, suggerisce provvedimenti drastici per combattere la violenza negli stadi e il crescente razzismo che colpisce gli atleti di pelle nera. Non è certo tenero nei confronti dei dirigenti che hanno provato a rottamarlo, mentre ha qualche rimpianto verso quegli addetti ai lavori (Barcellona, Real Madrid, Chelsea) che gli hanno fatto una corte spietata, ma mai nel momento giusto. Pirlo racconta anche il suo lato spiritoso che si esprime negli scherzi da spogliatoio. Negli anni rossoneri il suo bersaglio migliore è stato Rino Ringhio Gattuso, oggi la voglia di divertirsi gli fa trovare continuamente nuove prede, nella Juve e in Nazionale.
Per la prima volta Pirlo, "il calciatore di tutti" - come lo definisce il mister Cesare Prandelli - svela qual è l'intelligenza che guida i piedi più raffinati del calcio europeo.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804628699
eBook ISBN
9788852038778

1

Una penna. Bella eh, ma pur sempre una penna. Di Cartier, luccicante, più pesante di una Bic, con lo stemma del Milan. Eppure una penna. Con un ripieno di inchiostro blu, banalmente blu. La guardavo, me la rigiravo tra le mani, ci giochicchiavo incuriosito, come fa un neonato con il suo primo peluche. Tentavo di studiarne il profilo da diverse angolazioni, di coglierne il senso più profondo, di portarne in superficie il significato più nascosto. Di capire. Mi è venuto il mal di testa a forza di pensare, credo sia scesa anche qualche gocciolina di sudore, però alla fine l’illuminazione è arrivata. Mistero risolto: il lato B non esisteva, il suo inventore non l’aveva previsto. Volutamente? Chissà.
“E mi raccomando, non usarla per firmare il nuovo contratto con la Juventus.”
Almeno, Adriano Galliani aveva azzeccato la battuta. Come regalo d’addio mi sarei aspettato qualcosina di più di quel tempo comico perfetto. Dieci anni di Milan andati così. Comunque, ho sorriso. Perché io so ridere, tanto e bene. “E grazie di tutto, Andrea.”
Mentre parlava, al sicuro dietro la sua scrivania, io davo un’occhiata in giro. Conoscevo a memoria il suo ufficio, un caveau dentro al quartier generale di via Turati: ci avevo trascorso momenti felici, fatti di altri contratti e di altre penne, eppure certe foto alle pareti – con il peso dei loro anni e con la leggerezza del loro prestigio – non le avevo mai notate, se non in modo distratto. Ce n’era di ogni tipo, soprattutto ricordi di giorni unici e a quanto pare irripetibili, di coppe alzate al cielo e di nuvole spostate sempre un metro più in là. Mi stavano tirando giù dalla cornice, ma non a forza. La noia da Milan era il rischio che non volevo correre, ecco perché alla fine di quell’ultimo incontro ero dispiaciuto, ma il giusto. Come me, Galliani. Come noi, il mio procuratore Tullio Tinti. Ci siamo lasciati senza rimorso. In mezz’ora, arrotondando per eccesso, ero fuori da lì. Quando si ama serve tempo, quando il sentimento muore può aiutare una scusa.
“Andrea, il nostro allenatore Allegri pensa che se resti non potrai più giocare davanti alla difesa. Per te avrebbe pensato a un altro ruolo: sempre a centrocampo, ma sulla parte sinistra.”
Piccolo particolare: davanti alla difesa pensavo di poter dare ancora il meglio di me. Un pesce quando il mare è profondo respira, se lo spostano sotto il pelo dell’acqua si arrangia, ma non è la stessa cosa.
“Anche con te in panchina o in tribuna abbiamo vinto lo scudetto. E poi, Andrea, da quest’anno la politica della società è cambiata. A chi ha più di trent’anni, proponiamo il rinnovo di contratto solo per dodici mesi.”
Altro piccolo particolare: non mi è mai capitato di sentirmi vecchio, neppure in quel preciso momento. Solo a tratti ho avuto la sensazione che qualcuno volesse farmi passare per bollito, più che altro erano le premesse a lasciarmi perplesso.
“Grazie, ma davvero non posso accettare. E poi la Juventus mi ha proposto un accordo triennale.”
Ho declinato. Senza mai parlare di soldi, quel pomeriggio della primavera del 2011. Mai. Discorsi economici con Galliani, in quei trenta minuti, non ne sono stati affrontati. Volevo essere considerato importante, al centro del progetto, non un giocatore in lista per la rottamazione.
Il ciclo, a quanto pare, era finito e io sentivo il bisogno di qualcos’altro. L’allarme era suonato il giorno in cui, arrivando a Milanello per allenarmi, nel bel mezzo di una stagione (l’ultima da quelle parti) rovinata da due infortuni, mi ero accorto di non aver voglia di scendere nello spogliatoio. Di cambiarmi. Di lavorare. Andavo d’accordo con tutti, con Allegri avevo un rapporto normale, il problema era l’aria. Riconoscevo i muri che negli anni mi avevano riparato e protetto, però incominciavo a intravederne le crepe, a percepire la corrente che tentava di farmi ammalare. La richiesta interiore di spostarmi, di andare a respirare altrove si faceva presente e pressante, sempre più intensa. La poesia che mi aveva sempre circondato stava diventando routine, e questa non era una novità da sottovalutare. Pure i tifosi, dopo avermi applaudito per tanti anni a San Siro la domenica (e il sabato, e il martedì, e il mercoledì), magari avevano voglia di distrarsi un po’. Di appiccicare sull’album Panini altre facce, di sentirsi raccontare altre storie. Si erano abituati alle cose che facevo, ai miei movimenti, alle mie invenzioni, non si stupivano più, ai loro occhi lo straordinario degradava pericolosamente verso la normalità. “Non puoi più fare il Pirlo”, per me, era un concetto duro da accettare. Profondamente ingiusto, a pensarci bene. Mi creava un principio di mal di pancia, alla ricerca dello stimolo perduto.
Mi sono subito confrontato con Alessandro Nesta, amico e fratello, compagno di squadra e di merende, di mille avventure, da sempre compagno di stanza. Tra il primo e il secondo tempo di una delle nostre infinite partite alla PlayStation, mi sono confessato: “Sandrino, io me ne andrei”.
Non si è stupito: “Mi dispiace tanto, però è la scelta più giusta”.
È stato il primo a sapere, dopo la mia famiglia. L’ho aggiornato su tutto, passo dopo passo, pianto dopo pianto. Certe settimane erano più dure di altre, dentro di me era partito il conto alla rovescia, però non è mai facile dover abbandonare un posto di cui conosci tutto, segreti compresi. Un piccolo mondo a parte, che mi ha dato più di ciò che mi ha tolto, che senza ombra di dubbio mi ha emozionato. Alcune volte era sconforto misto a tristezza, altre sentimento puro, in ogni caso una lezione di vita da imparare: le lacrime fanno bene, sono la spiegazione visibile di chi sei, una verità incontrovertibile. Non mi trattenevo. Piangevo e non mi vergognavo. Con la carta d’imbarco in testa più che in mano, lo stato d’animo era quello di chi si trova all’aeroporto, un secondo prima di voltarsi e salutare amici, parenti e nemici. Che sia tanto o poco, qualcosa indietro si lascia sempre.
Telefonavo al mio procuratore ogni giorno, soprattutto nel periodo in cui dovevo recuperare dall’infortunio, ma la voglia di mettercela tutta mancava. Quantomeno non era la stessa di un tempo. Ambrosini e poi Van Bommel giocavano davanti alla difesa, la mia casa era stata violata (da amici e a fin di bene) e io sfrattato dal mio amato giardinetto di erba spelacchiata.
“Tullio, ci sono novità?”
Ce n’erano sempre, di buone e di ottime. Il mio disagio aumentava la forza contrattuale, strana regola del calcio. Assomigliavo molto alla X sulla mappa del tesoro. Si sono fatti avanti tutti, anche l’Inter. Prove di terremoto a Milano, fosse successo si sarebbe rotto il sismografo. Hanno chiamato Tinti, ponendo una semplice domanda, “Andrea tornerebbe da noi?”, che mi è stata girata pari pari.
“Andrea, torneresti da loro?”
Non scartavamo nulla a priori. In ogni caso, era prevista una risposta per tutti.
“Senti bene cosa vogliono.”
Volevano me. Però sono stati lenti (bravi ma lenti), nel senso che prima di iniziare a trattare seriamente avevano bisogno di capire come sarebbe finito il campionato, chi sarebbe stato l’allenatore nella stagione successiva, quali sarebbero stati i programmi e gli obiettivi della società. Io, direttamente, sono stato contattato solo una volta. Me la ricordo bene, era un lunedì mattina, a stagione appena terminata.
“Pronto, Andrea, sono Leo.”
Dall’altra parte della cornetta c’era Leonardo, in quel momento allenatore dell’Inter.
“Ciao Leo.”
“Senti, finalmente è tutto a posto. Ho il via libera del presidente Moratti. Possiamo iniziare a trattare.”
Tra l’altro, mi raccontava grandi cose dell’Inter, di come si sentisse carico e si trovasse bene. Poteva essere una bella sfida, affascinante: tornare dove ero già stato. Passare sull’altra sponda dopo dieci anni consecutivi al Milan, di cui nove straordinari. Pure in questo Leonardo avrebbe potuto aiutarmi, non fosse stato che dopo poche settimane si è trasferito al Paris Saint-Germain degli sceicchi.
“Andrea, nella nuova Inter avrai un ruolo fondamentale.”
Sì, a un certo punto ci ho pensato, ma non ne sarei stato capace. Sarebbe stato davvero troppo, un affronto che i tifosi del Milan non avrebbero meritato.
“Ti ringrazio Leo, ma non posso. Anche perché ieri sera ho firmato con la Juventus...”
Con quale penna, non lo dirò mai.

2

Scaricato. Buttato via. Rottamato. Oppure cancellato, demolito, disinnescato. Forse archiviato, abbandonato, seppellito. Gettato. Se il progetto di qualcuno al Milan era davvero quello di farmi fare una fine del genere, è naufragato. Un piccolo Titanic. Lo smog al posto degli iceberg. Però, un grazie a chi ha sbagliato i conti lo voglio dire. Se la calcolatrice non fosse impazzita, se la palla che predice il futuro non fosse stata interpretata da mani troppo rugose, io non mi sarei mai sentito uno come gli altri. Una persona normale. Un calciatore da sei in pagella. Per un breve periodo ho vissuto proiettato dentro una realtà virtuale, ero l’altro Andrea Pirlo, quello per cui volevano farmi passare, ciò che avrei potuto essere ma che invece non sono diventato. Mi hanno trattato come uno dei tanti, facendomi tirare il fiato, ottenendo però l’effetto contrario, alimentando la convinzione esterna che io fossi qualcosa di più.
Da bambino, e poi da ragazzo, ho tentato di combattere contro un concetto declinato in diverse definizioni: unico, speciale, predestinato. Poi ho imparato a conviverci, a sfruttarlo a mio favore. Non è stato facile, né per me né per chi mi vuole bene. Fin da piccolo sapevo di essere più forte degli altri, e per questo hanno iniziato presto a parlare tutti di me. Troppo. E non necessariamente bene, tanto che mio padre Luigi più di una volta ha abbandonato la tribuna da cui mi stava guardando per fuggire dall’altra parte del campo, da solo, per non sentire i commenti cattivi degli altri genitori. Scappava per non reagire, o forse per non diventare troppo triste. Non aveva niente di cui vergognarsi, quindi li ignorava camminando, sempre più veloce, come Forrest Gump, fermandosi solo nel momento in cui trovava un posto più silenzioso. Più sicuro e riparato. Purtroppo, dalle iniezioni di nervosismo non è stata risparmiata neppure mia mamma Livia.
“Ma quello chi si crede di essere, Maradona?” era la domanda retorica più utilizzata, la facevano ad alta voce e con l’intento di provocare, spinti dall’invidia, senza sapere che in realtà mi stavano regalando il più grande dei complimenti. Cazzo, Maradona. Come dare del Chechi a un ginnasta o del Jordan a un cestista o della Campbell a una top model o del Watusso a Berlusconi. Adulti contro un marmocchio, la sfida per definizione era impari e sbagliata, non potevo che difendermi stupendo. Facendo esattamente quello di cui venivo accusato. Segnato da una colpa inesistente. Protetto da un’armatura invisibile, che ogni tanto lasciava passare qualche coltellata, troppe frecce di archi avvelenati. Tutte insieme mi hanno colpito quando avevo quattordici anni, durante una partita del campionato Allievi. Giocavo nel Brescia, ma quella volta era il Brescia a giocare contro di me.
“Passatemi la palla.” Silenzio. Eppure avevo urlato forte, e parlavo un italiano piuttosto corretto.
“Ragazzi, passatemi la palla.” Altro silenzio, talmente opprimente da sentire l’eco delle mie parole.
“Oh, allora?” Ancora silenzio, tutti sordi.
Il pallone non me lo passava nessuno. I miei compagni giocavano tra di loro, senza considerarmi. C’ero ma non mi vedevano, o meglio mi vedevano ma si comportavano come se non ci fossi. Mi escludevano come un lebbroso, solo perché ero più bravo di loro. Vagavo come un fantasma, mi sentivo morire. Si stavano ammutinando contro di me. Neanche mi parlavano. Neppure uno sguardo nella mia direzione. Niente.
“Allora, me la date o no?” Di nuovo silenzio.
Mi sono saltati i nervi, sono scoppiato a piangere. Sul campo, senza ritegno, davanti a ventuno avversari, undici dell’altra squadra e dieci della mia. Non riuscivo più a smettere. Correvo e piangevo. Scattavo e piangevo. Mi fermavo e piangevo. Abbattuto, depresso, soprattutto ancora adolescente. E a un adolescente queste cose non dovrebbero capitare. A quell’età si dovrebbe fare gol ed esultare, ma il fatto che ne segnassi troppi dava fastidio a un sacco di gente.
È stato quello il momento preciso in cui la mia carriera ancora all’inizio ha svoltato, prendendo la direzione giusta. Le possibilità erano due: incazzarmi e smettere, oppure incazzarmi e continuare, ma a modo mio. La seconda ipotesi mi sembrava più intelligente della prima, realizzabile in tempi rapidi. Sono andato a prendermi il pallone. Una, dieci, cento volte. Io contro il resto del mondo, io contro i resti del mio mondo. Assomigliavo a un crociato buono. Non volevano giocare con me? E allora io giocavo da solo, tanto avevo le armi per farlo. In dieci non riuscivano a segnare, io da solo sì. Li dribblavo tutti, compresi quelli che vestivano la mia stessa maglia. Su una cosa erano completamente fuori strada: non avevo la minima intenzione di fare il fenomeno, la verità era molto più semplice, io ero proprio fatto così. Agivo d’istinto, non si trattava di fantasia costruita. Mi venivano in mente una giocata, un passaggio, un gol, e a quel punto li avevo già fatti: correvo più veloce di me stesso, in particolare quando pensavo. Già allora ero costretto a vivere come uno che doveva sempre dimostrare qualcosa, obbligato a standard comunque alti, per tutti una partita normale era accettabile, se la giocavo io veniva percepita come una sconfitta. Che fossi stanco, che non ce la facessi più lo dicevano fin dall’inizio, sviati dal mio modo di muovermi, ciondolante, fatto di piccoli passi (piccoli passi per me, grandi passi per l’umanità...).
Quello sfogo è stata la molla: se noto troppe persone intorno tendo a non parlare, a emozionarmi, nel bene o nel male, senza darlo a vedere, però quel pomeriggio le cose sono andate diversamente. E ho incominciato un discorso lunghissimo, interiore e quindi silenzioso, privato, al limite del folle: “Andrea, avere un pregio non può essere vissuto come un peso, è vero, sei di un livello superiore e di questo vanne orgoglioso. Madre Natura con te è stata generosa, quando sei nato era in buona, ti ha regalato il tocco magico: sfruttalo. Vuoi diventare un calciatore? Questo è il sogno che ti si è appiccicato addosso? Gli altri vogliono fare gli astronauti ma a te di volare non frega un cazzo? Ecco, allora vatti a prendere quel pallone. Accarezzalo. Ti appartiene, deve essere tuo, gli invidiosi non lo meritano. Loro sono ladri di emozioni, torna in possesso di quella parte di te. Sorridi. Sii felice. Rendi magnifico questo momento, poi aggiungine altri. Salta anche tu dall’altra parte della staccionata, idealmente insieme a tuo padre, intanto gli inseguitori perderanno terreno, questo è scritto. Vai, Andrea. Vai”.
Il fatto è che ancora oggi non sono del tutto convinto di essere unico, o insostituibile, ma non riesco a spiegarlo a chi mi circonda, a coloro che sono abituati a studiarmi con estrema superficialità. Però sono giunto a una conclusione, credo di aver capito: un segreto in effetti c’è, vedo il gioco in maniera diversa. È una questione di punti di vista, un’osservazione ad ampio raggio, una specie di visione d’insieme. Un centrocampista classico guarda avanti e vede gli attaccanti, io invece mi concentro sullo spazio tra me e loro per far passare il pallone. Più geometria che tattica. E quello spazio lo vedo più largo, più semplice da oltrepassare, un cancello facile da abbattere. Mi hanno paragonato a Gianni Rivera, dicono che sotto questo aspetto potrei ricordarlo, ma non l’ho mai visto giocare, neanche in videocassetta. Non ho gli elementi per giudicare. E mai mi è capitato di riconoscermi in qualche altro calciatore, del passato o del presente, anche se per questo c’è ancora tempo. Non sono alla ricerca di cloni, non mi interessa, d’altronde Dolly non potrà mai essere uguale alle altre pecore. E poi non sento la pressione, la schivo, me ne sbatto. Il pomeriggio del 9 luglio 2006 a Berlino ho dormito, poi ho giocato alla PlayStation. La sera ho vinto il Mondiale. Dal punto di vista mentale, il mio maestro involontario – ma non inconsapevole – è stato Mircea Lucescu, l’allenatore che a quindici anni mi ha preso dagli Allievi del Brescia e mi ha portato direttamente in prima squadra, nel mondo dei grandi. Mi sono trovato ad allenarmi con trentenni piuttosto seccati di avermi tra i piedi, con il doppio della mia età, certi giorni con il doppio della mia cattiveria.
“Andrea, continua a giocare come negli Allievi” è stata la prima frase che mi ha sussurrato Lucescu, e da buon soldatino ho eseguito. Non tutti l’hanno presa bene, a partire dai senatori dello spogliatoio, tra i più ascoltati in campo, rispetto a me dei vecchietti: un giorno ho dribblato per tre volte consecutive uno di loro, la quarta mi è stata fatale. Mi ha tirato una legnata senza precedenti, ha pianificato e messo in pratica un’entrata assassina sulla mia caviglia. Sarebbe stato superfluo raccontare che non l’aveva fatto apposta, non ci avrebbe creduto nessuno. Anche lui pensava volessi fare il fenomeno, in realtà stavo semplicemente dando retta a Lucescu, che mi ha fatto l’occhiolino: “Tutto a posto, va bene così. E riprovaci, per favore”.
Mi trattava con dolcezza, poi alzava la voce rivolgendosi alla squadra: “Date la palla a Pirlo, lui sa come trattarla”. Storia di una strana amicizia, tra un oggetto e una persona. Sapevo fare certe cose anche senza averle mai provate. Il primo vero trionfo è stato quando il numero di calci presi dai compagni è diventato inferi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Penso quindi gioco
  3. Prefazione di Cesare Prandelli
  4. Capitolo 1
  5. Capitolo 2
  6. Capitolo 3
  7. Capitolo 4
  8. Capitolo 5
  9. Capitolo 6
  10. Capitolo 7
  11. Capitolo 8
  12. Capitolo 9
  13. Capitolo 10
  14. Capitolo 11
  15. Capitolo 12
  16. Capitolo 13
  17. Capitolo 14
  18. Capitolo 15
  19. Capitolo 16
  20. Capitolo 17
  21. Capitolo 18
  22. Capitolo 19
  23. Capitolo 20
  24. Ringraziamenti
  25. INSERTO FOTOGRAFICO
  26. Copyright