La fiera delle vanità
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La fiera delle vanità

Romanzo senza eroe

  1. 912 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La fiera delle vanità

Romanzo senza eroe

Informazioni su questo libro

Progettato e iniziato intorno al 1844-45, pubblicato a puntate nel 1847, in volume l'anno successivo, La fiera delle vanità è il romanzo più noto di Thackeray. In queste pagine si narrano le vicende parallele di due donne molto diverse: Becky Sharp, tanto coraggiosa e intelligente quanto astuta, arrivista e priva di scrupoli, e la sua compagna di scuola Amelia Sedley, emblema di virtù ma anche terribilmente ingenua e un po' sciocca. Dominato da un garbato sarcasmo che a tratti si trasforma in un'ironia più feroce, La fiera delle vanità sconvolse la società letteraria vittoriana per la schietta descrizione della realtà sociale dell'epoca, che sia l'ambiente mondano londinese, quello esotico dell'India colonizzata, quello militare, rozzo e primitivo, oppure quello ipocrita e perbenista della Chiesa. Su questo molteplice sfondo si snoda con incredibile fluidità una narrazione dominata da molteplici personaggi. Manca, in questo romanzo, un eroe completamente positivo: al suo posto, per la prima volta, si muovono sulla pagina figure che non sono semplici manichini, ma uomini in carne e ossa

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804592266
eBook ISBN
9788852037436

Davanti al sipario

Quando il capocomico sale sul palcoscenico e si siede davanti al sipario, lo scenario della Fiera gli appare così frenetico e chiassoso da suscitare in lui un profondo senso di sconcerto. Là non si fa che bere e mangiare, far l’amore e mollarsi, ridere e piangere; c’è chi fuma, chi minchiona, chi si azzuffa, balla e strimpella; ci son bulli che si fan largo a spintoni, maschietti che strizzano l’occhio alle donne, furfanti che alleggeriscono le tasche al prossimo, guardie in allerta, ciarlatani (altri ciarlatani, che il diavolo se li porti!) che adescano la gente al loro banco, sempliciotti di campagna col naso in su incantati dai danzatori scintillanti di orpelli e dai poveri giocolieri imbellettati, mentre alle loro spalle agili mani gli fan piazza pulita nelle tasche. Sì, è questa la Fiera di vanità; non certo un luogo raccomandabile, e neppure allegro, anche se molto rumoroso. Osservate le facce degli attori e dei buffoni quando escono dal loro ruolo; e guardate Tom il Tonto che si toglie il trucco dietro le quinte prima di sedersi a tavola con moglie e figlio, il suo piccolo Tontarello. Fra poco si alzerà il sipario, e lui entrerà in scena con una piroetta gridando: «Salve, come va?»
Non credo che passeggiando in una fiera di questo tipo chiunque abbia un minimo di cervello possa sentirsi oppresso dal proprio o dall’altrui buonumore. Qualche scenetta divertente o garbata qui e là magari lo diverte: un bambinetto incantato davanti al banco del panpepato; una graziosa fanciulla che arrossisce quando il suo innamorato le parla e le offre un regalino, il povero Tom il Tonto che laggiù dietro il carro ripulisce il suo osso insieme alla sua onesta famiglia, che mantiene con le sue capriole. Nell’insieme però l’impressione è più malinconica che allegra. Quando tornate a casa vi sedete in uno stato d’animo disteso e ben disposti verso il prossimo, e riprendete i vostri libri o i vostri impegni di sempre.
Al di fuori di questa non vedo altra possibile morale per la presente storia della Fiera di vanità. Alcuni considerano le fiere del tutto immorali, e le evitano insieme a servi e famigliari; non è detto che non abbiano ragione. Ma c’è chi la pensa diversamente, ed essendo di carattere più disponibile, più benevolo o portato all’ironia, forse non disdegna di passarvi una mezz’ora e dare un’occhiata alle varie esibizioni. Ce n’è per tutti i gusti: combattimenti terribili, grandiose ed eleganti cavalcate, scorci di nobile vita e altri di più modesto tenore; immagini d’innamorati per chi è d’animo romantico e qualcosa di più vivace per chi ama la comicità; il tutto accompagnato da scenari appropriati e illuminati a giorno dalle candele dell’Autore.
Cos’altro può dire il capocomico, se non riconoscere il favore che lo Spettacolo ha riscosso in tutte le principali città d’Inghilterra per cui è passato, e dove ha meritato il gradimento non solo dei rappresentanti della pubblica stampa, ma anche della miglior gente, nobile e borghese? Egli è fiero di constatare che le sue marionette hanno soddisfatto i gusti della più eletta società dell’Impero. La piccola e famosa marionetta di nome Becky è stata giudicata straordinariamente flessibile nelle giunture e mobilissima sotto i fili; la bambolina di nome Amelia, pur avendo avuto una cerchia più esigua di ammiratori, è stata foggiata e vestita con gran cura dall’artista; la figura di Dobbin, apparentemente goffa, danza piacevolmente in modo del tutto naturale; molti hanno gradito la Danza dei Bambini, e prego tutti di osservare l’opulenta figura del Perfido Nobiluomo, per la quale non si è badato a spese e che al termine del curioso spettacolo viene portata via da Belzebù.
È tutto. Con un profondo inchino il capocomico si ritira e si alza il sipario.
Londra, 28 giugno 1848

1
Chiswick Mall
In una luminosa mattina di giugno, nel secondo decennio del nostro secolo, una grande carrozza padronale trainata da due cavalli ben nutriti con lustri finimenti e guidata da un corpulento cocchiere in cappello a tre punte e parrucca, si dirigeva alla velocità di quattro miglia all’ora verso il grande cancello di ferro del convitto per signorine di buona famiglia di Miss Pinkerton a Chiswick Mall. Giunto l’equipaggio di fronte alla splendente placca d’ottone, un servo negro che se ne stava rattrappito a cassetta a lato del cocchiere allungò le gambe storte e scese a suonare il campanello. All’istante una ventina di giovani testoline si affacciarono alle strette finestre di quella imponente vecchia casa in mattoni, e a una attenta osservazione si sarebbe potuto riconoscere, al di sopra dei vasi di geranio sul davanzale del salotto personale di Mrs Pinkerton, anche il nasino rosso di sua sorella, la gioviale Miss Jemima.
«È la carrozza di Mrs Sedley, sorella», disse Miss Jemima. «Sambo, il servo negro, ha appena suonato il campanello; e il cocchiere ha un panciotto rosso nuovo fiammante.»
«È tutto pronto per la partenza di Miss Sedley, Jemima?» chiese Miss Pinkerton in persona, quella maestosa signora, la Semiramide di Hammersmith, l’amica del dottor Johnson e corrispondente della grande Mrs Chapone.1
«Le ragazze si sono alzate alle quattro questa mattina per riempirle i bauli, sorella», rispose Miss Jemima; «e noi le abbiamo fatto un mazzo di fiori.»
«Si dice un bouquet, sorella Jemima; è più raffinato.»
«E va bene; un bucché grande quasi come un covone di fieno; e io ho messo nel suo bagaglio anche due bottiglie di essenza di violaciocca per Mrs Sedley e la relativa ricetta.»
«Sono certa, Miss Jemima, che avrai preparato la nota spese di Mrs Sedley. È questa, vero? Perfetto – novantatré sterline e quattro scellini. Mandala, ti prego, all’esimio Mr Sedley, e provvedi a sigillare questo biglietto che ho scritto alla signora.»
Agli occhi di Jemima una lettera autografa di sua sorella, Miss Pinkerton, era degna della massima venerazione, quasi come la lettera di una regina. Solo quando le sue allieve lasciavano il collegio, o erano prossime a sposarsi, e quel giorno in cui la povera Miss Birch morì di scarlattina, Miss Pinkerton scriveva di suo pugno ai genitori delle allieve, e Jemima era sicura che se qualcosa poteva consolare Mrs Birch della morte di sua figlia, sarebbe stato proprio l’eloquente scritto con cui Miss Pinkerton ne dava comunicazione.
In questa occasione il billet di Miss Pinkerton era redatto in questi termini:
The Mall, Chiswick, 15 Giugno 18...
Signora, dopo sei anni di permanenza al Mall ho l’onore e la gioia di restituire Miss Amelia Sedley ai suoi genitori come una giovane non indegna di occupare la posizione che le compete nella loro elegante e raffinata cerchia. Non mancano certo alla cara Miss Sedley le doti proprie della gentildonna inglese, le qualità conferite dalla nascita e dal ceto sociale; la sua diligente operosità e la sua obbedienza l’hanno resa cara agli insegnanti e la sua ammirevole dolcezza ha incantato le compagne, giovani e adulte.
Nella musica, nella danza, nell’ortografia, in ogni sorta di lavoro d’ago e di ricamo ella darà prova di aver soddisfatto i più fervidi voti dei suoi cari. In geografia molto lascia ancora a desiderare, e per almeno quattro ore al giorno nei prossimi tre anni si raccomanda l’uso severo e costante della tavoletta per il dorso, indispensabile al conseguimento di quel dignitoso portamento che è requisito primario di ogni giovane donna di classe.
Quanto ai principi religiosi e di morale, Miss Sedley si mostrerà degna di una istituzione che è stata onorata dalla presenza del Grande Lessicografo e dal patronato dell’esimia Mrs Chapone. Nel lasciare il Mall Miss Amelia porta con sé l’affetto delle sue compagne e la devota considerazione della sua direttrice, che ha qui l’onore di apporre la propria firma.
Signora, la vostra più devota serva,
Barbara Pinkerton
P.S. Miss Sharp accompagna Miss Sedley. Si raccomanda vivamente che la sua permanenza a Russell Square non duri più di dieci giorni. La distinta famiglia presso la quale è destinata desidera avvalersi dei suoi servizi il più presto possibile.
Terminata la lettera, Miss Pinkerton provvide a scrivere il proprio nome e quello di Miss Sedley sul foglio di guardia del Dizionario di Johnson, la prestigiosa opera che invariabilmente offriva in omaggio alle sue allieve al momento in cui lasciavano il Mall. All’interno della copertina era inserita una copia delle «Parole rivolte a una giovane signora nel momento in cui lascia la scuola di Miss Pinkerton, al Mall, dal compianto reverendissimo dottor Samuel Johnson». Il nome del Lessicografo era infatti sempre sulle labbra di questa maestosa signora da quando egli le aveva fatto visita, evento dal quale era dipesa la reputazione e la fortuna dell’istituto.
Alla richiesta di prelevare il Dizionario dallo scaffale, Jemima ne aveva prese due copie, e quando la sorella ebbe scritto sulla prima la dedica, con aria timida e incerta Jemima le porse la seconda.
«E questo per chi è, Miss Jemima?» le chiese Miss Pinkerton con sconcertante freddezza.
«Per Becky Sharp», rispose Jemima, volgendo tremante le spalle alla sorella e con il viso rugoso rosso fino alla radice dei capelli. «Per Becky Sharp; anche lei se ne va.»
«MISS JEMIMA!» esclamò la Pinkerton a lettere maiuscole. «Hai perso la testa? Rimetti subito il Dizionario al suo posto e non ti azzardare mai più a prenderti una simile libertà.»
«Va bene, sorella, ma si tratta solo di due scellini e nove pence, e la povera Becky si sentirà molto infelice se non lo avrà.»
«Mandami subito Miss Sedley», intimò la Pinkerton, e la povera Jemima trotterellò via alla svelta tutta agitata e incapace di aggiungere parola.
Il padre di Amelia Sedley era un commerciante di Londra piuttosto facoltoso, mentre la piccola Sharp era un’allieva a servizio, per la quale, anche senza concederle il grande onore del Dizionario al momento della partenza, Miss Pinkerton riteneva di aver già fatto abbastanza.
Sebbene normalmente gli encomi espressi per lettera dalle direttrici di scuola alle famiglie non siano più credibili di quelli riportati sulle epigrafi sepolcrali, a volte accade che, lasciando questa terra, qualcuno meriti veramente tutti gli elogi che lo scalpellino incide al di sopra delle sue ossa: buon cristiano, buon padre, buon figlio, o moglie, o marito, che lascia in pianto una famiglia sconsolata; così negli istituti maschili e femminili può esserci a volte un allievo del tutto degno dell’apprezzamento disinteressato del suo educatore. Ora Amelia Sedley era una giovane di questa singolare specie, e non solo possedeva i meriti che Miss Pinkerton le attribuiva, ma anche molte altre pregevoli qualità che quella boriosa vecchia Minerva non era in grado di vedere data la differenza di rango e di età che la separava dalla sua allieva.
Amelia infatti non solo cantava come un usignolo, o come Mrs Billington,2 danzava come la Hillisberg o la Parisot,3 era eccelsa nel ricamo e corretta nel discorso come il Dizionario stesso; ma possedeva anche un cuore così tenero, gentile, gioviale e generoso da conquistarsi l’affetto di chi stava al suo fianco, dalla stessa Minerva alla povera sguattera e alla figlia strabica della donna che confezionava dolciumi e aveva il permesso di venderli una volta la settimana alle ospiti del Mall. Fra le ventiquattro allieve del collegio dodici erano sue intime amiche, e persino l’invidiosa Miss Briggs non sparlava mai di lei; l’altera e arrogante Miss Saltire, nipote di Lord Dexter, le riconosceva un tratto signorile, e quanto alla Swartz, la ricca mulatta dai capelli lanosi proveniente da St Kitts, il giorno in cui Amelia lasciò il collegio ebbe un tale convulso di pianto da rendere necessario l’intervento del dottor Floss che la stordì quasi del tutto con i sali. Date l’alta posizione e le eminenti virtù di Miss Pinkerton, i suoi slanci, come è facile immaginare, erano molto più contenuti e dignitosi, ma Jemima aveva pianto più volte al pensiero della partenza di Amelia, e se non fosse stato per paura della sorella avrebbe ceduto a un attacco isterico come l’ereditiera di St Kitts che, sia detto per inciso, pagava retta doppia. Tanta abbondanza di compianto era però consentita solo alle allieve di maggior pregio, e la buona Jemima doveva occuparsi dei conti, del bucato, del rammendo, e dei pudding, dell’argenteria e delle porcellane, nonché sovrintendere alla servitù. Ma perché parlare di lei? Probabilmente d’ora in avanti non ne sapremo più nulla, e una volta chiuso alle sue spalle il pesante cancello di ferro né lei né la sua terribile sorella avranno più accesso nella storia di questo piccolo mondo.
Dal momento invece che dovremo occuparci a lungo di Amelia, possiamo permetterci di dire fin dall’inizio che era una creatura dolcissima, e poiché tanto nella vita quanto nei romanzi (in questi soprattutto) abbondano mascalzoni della peggior specie, avere come costante compagna una creatura così schietta e d’animo gentile non è cosa da poco. Siccome non è un’eroina, non c’è bisogno di descriverla fisicamente; temo anzi che il suo naso fosse troppo corto, le sue guance troppo piene e troppo colorite per l’eroina di un racconto, ma il suo viso roseo era splendente di salute, le sue labbra fresche di sorriso e i suoi occhi scintillanti dei più puri e generosi impulsi, a eccezione di quando si riempivano di lacrime, cosa che per la verità accadeva troppo spesso: la sciocchina piangeva infatti per la morte di un canarino, per un topolino caduto fra gli artigli di un gatto, o per la conclusione di un romanzo, anche il più banale; ma soprattutto piangeva per una parola poco gentile, ammesso che vi fosse qualcuno tanto duro di cuore da rivolgergliela, e allora tanto peggio per lui. Persino l’autoritaria e austera Miss Pinkerton dopo la prima volta smise di rimproverarla, e sebbene capisse la sensibilità altrui non più dell’algebra, diede a tutti, educatori e insegnanti, ordini precisi perché Miss Sedley fosse trattata con il massimo riguardo, e senza toni troppo bruschi a lei inadeguati.
Così, quando giunse il giorno della partenza Miss Sedley fu molto combattuta su quale scegliere fra le sue consuete risorse: il sorriso o il pianto. Era lieta di tornare a casa e al tempo stesso rattristata di lasciare la scuola. Nei tre giorni precedenti aveva avuto costantemente al suo fianco la piccola Laura Martin, l’orfanella, che la seguiva dappertutto come un cagnolino. Poi dovette dare e ricevere almeno una dozzina di regali e fare una dozzina di solenni promesse che avrebbe scritto ogni settimana. «Metti le mie lettere nella stessa busta di quelle indirizzate a mio nonno, il conte di Dexter», le aveva detto Miss Saltire, che per la verità era piuttosto avara; e invece «Non far caso ai francobolli, mia cara e carissima, ma scrivimi tutti i giorni», le aveva raccomandato con slancio Miss Swartz, la ragazza dai capelli lanosi, tanto irruente quanto affezionata e generosa. La piccola Laura Martin, che aveva imparato a scrivere da poco, le aveva preso la mano e guardandola fisso con aria triste: «Amelia», le aveva detto, «quando ti scriverò ti chiamerò mamma».
Tutti dettagli, non c’è dubbio, che quel tale Mr Jones, che va leggendo questo libro al club, reputerà troppo sciocchi, futili, inconsistenti e sentimentali. Già, mi par di vederlo, congestionato in viso, alle prese col suo pezzo di montone e una mezza pinta di vino, prendere la matita e sottolineare le parole «sciocchi, futili» e via dicendo, e aggiungere di suo: «proprio così». Certo, è un grand’uomo Mr Jones, un uomo di genio che ammira, nella vita e nei romanzi, ciò che è eccelso ed eroico; meglio dunque per lui prender le distanze e occuparsi d’altro.
Bene, allora. Una volta sistemati nella carrozza i fiori, i regali, i bauli e le cappelliere di Miss Sedley, Sambo consegnò al cocchiere, scambiando con lui un risolino di scherno, un bauletto di cuoio assai consunto, sul quale era stato inchiodato bene in vista il biglietto di Miss Sharp. E venne l’ora della partenza. La grande commozione del momento fu sensibilmente attenuata dalle edificanti parole che Miss Pinkerton rivolse alla sua allieva, parole di commiato che non indussero comunque Amelia ad approfondire o a valutare con calma la situazione; di fronte a quel discorso pedante, pomposo e insopportabilmente stucchevole, Miss Sedley, che aveva una grande soggezione della sua direttrice, non si azzardò a manifestare il proprio dispiacere. Come nelle solenni occasioni in cui i genitori venivano a visitare le allieve, furono portate nel salotto una torta e una bottiglia di vino, e una volta consumati i rinfreschi la giovane fu libera di partire.
«Andate a salutare Miss Pinkerton, Becky!» disse Jemima alla ragazza che nessuno aveva notato e che stava scendendo in quel momento le scale con la sua cappelliera.
«Credo di non poterne proprio fare a meno», disse Miss Sharp senza scomporsi, lasciando interdetta Miss Jemima; poi bussò alla porta e, ricevuto il permesso di entrare, si fece avanti molto spigliata dicendo in francese, con perfetta pronuncia: «Mademoiselle, je viens vous faire mes adieux».
Miss Pinkerton, che non conosceva il francese ma amministrava chi lo sapeva, si morse le labbra e alzando imperiosa la testa ornata da un ampio solenne turbante, e in cui spiccava il suo naso aquilino, disse: «Buon giorno a voi, Miss Sharp». E qui la Semiramide di Hammersmith agitò una mano in gesto di saluto per dare a Miss Sharp l’opportunità di stringere un dito dell’altra, rimasta inattiva a tale proposito.
Miss Sharp congiunse le proprie con un sorriso glaciale e inchinandosi rifiutò l’onore che le veniva concesso; al che la Semiramide scosse il turbante più indignata che mai: era una piccola battaglia fra la giovane e la vecchia signora, nella quale quest’ultima era senz’altro perdente. «Dio vi benedica, mia cara», disse abbracciando Amelia e guardando Miss Sharp con cipiglio al di sopra delle sue spalle. «Su, andiamo, Becky», fece Jemima spingendo via tutta allarmata la giovane. Infine la porta del salotto si chiuse per sempre alle loro spalle.
Al piano di sotto si svolse poi il piccolo dramma della partenza. Insufficienti le parole per descriverlo. C’erano tutti nell’ingresso: il personale di servizio, le amiche del cuore, le giovani ospiti del collegio, il maestro di danza, che era appena arrivato; e c’era un tale tramestio, un tale concitato scambio di baci, di ab...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La fiera delle vanità
  3. Introduzione di Anthony Trollope
  4. Thackeray
  5. Cronologia
  6. Bibliografia
  7. LA FIERA DELLE VANITÀ
  8. Davanti al sipario
  9. Note
  10. Copyright