Racconti del terrore
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Racconti del terrore

  1. 364 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Racconti del terrore

Informazioni su questo libro

Quella che avete davanti è una raccolta di racconti di paura che vi prenderà alla gola e vi segnerà per sempre. Leggerete di case lugubri, color del piombo, circondate da paludi silenziose ed esalazioni pestilenziali, di navi fantasma che solcano i mari da secoli ormai e si gettano negli abissali vortici dell'oceano, giù fi no al centro esatto della Terra. Leggerete di persone murate vive quasi per capriccio, di altre seppellite ancora vive per sbaglio, e di amori che vincono la morte... Se state cercando le storie più terrifi canti di sempre, le avete trovate.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804627807
eBook ISBN
9788852039690

RACCONTI
DEL TERRORE
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METZENGERSTEIN

Pestis eram vivus – moriens tua mors ero.
MARTIN LUTERO
L’orrore e la fatalità regnarono in tutti i tempi. Perché dunque darei una data alla storia che sto per narrare? Mi basterà dire che all’epoca di cui parlo, nell’interno dell’Ungheria, si credeva, segretamente ma con ferma convinzione, nelle dottrine della metempsicosi. Delle dottrine per se stesse – e di quanto di falso o di attendibile possano avere – io non dirò nulla. Affermo, tuttavia, che gran parte della nostra incredulità (come La Bruyère dice per tutte le nostre sventure) “vient de ne pouvoir être seuls”.
Ma vi erano alcuni punti nella superstizione ungherese che quasi toccavano l’assurdo. Vi erano delle differenze sostanziali da quanto professano le autorità orientali in materia. Per esempio. “L’anima” dice l’ungherese – lo do nelle parole di un acuto e intelligente critico parigino – “ne demeure qu’une seule fois dans un corps sensible: au reste, un cheval, un chien, un homme même, n’est que la ressemblance peu tangible de ces animaux.
Le famiglie Berlifitzing e Metzengerstein erano state rivali per secoli. Mai si erano viste due case tanto illustri inasprirsi a vicenda in un’ostilità così mortale. L’origine dell’inimicizia sembra sia da ricercarsi nelle parole di un’antica profezia. “Un alto nome subirà una spaventosa caduta, quando, come il cavaliere sul proprio cavallo, la mortalità di Metzengerstein trionferà sull’immortalità di Berlifitzing.”
Certo, in sé, queste parole avevano ben poco senso. Ma cause tanto più volgari hanno portato – e ciò non è molto – a conseguenze ugualmente cariche di avvenimenti. D’altronde, le due proprietà, ch’erano contigue, avevano per lungo tempo esercitato un’influenza rivale negli affari di un caotico governo. Vicini tanto prossimi di rado sono amici, e, dalle loro elevate piattaforme, gli abitanti del castello di Berlifitzing potevan guardare dentro le finestre di palazzo Metzengerstein. Meno che mai la magnificenza più che feudale ch’essi così avevan sott’occhio poteva calmare gli irritabili sentimenti dei meno antichi e meno ricchi Berlifitzing. Perché dunque stupirsi se le parole, comunque bizzarre, della vecchia predizione, avevano potuto determinare e mantenere la discordia fra due famiglie già predisposte all’inimicizia per tutte le istigazioni della gelosia ereditaria? La profezia sembrava implicare – se pur qualcosa implicava – un trionfo finale da parte della casa più cospicua; e naturalmente era ricordata con amara animosità dalla più debole e meno influente delle due.
Wilhelm, conte di Berlifitzing, malgrado il suo alto lignaggio, era, all’epoca di questo racconto, un vecchio infermo mezzo rimbambito, che non per altro si distingueva se non per una inveterata antipatia personale senza limiti verso la famiglia rivale, e un amore così appassionato dei cavalli e del cacciare che nulla, né le infermità fisiche, né l’età avanzata, né la mentale debolezza, poteva impedirgli dal correre ogni giorno i pericoli della caccia.
D’altro canto, Frederick, barone di Metzengerstein, non era ancora maggiorenne. Suo padre, il ministro G…, era morto giovane. Sua madre, lady Mary, aveva seguito a breve distanza il marito. Frederick era allora nel suo diciottesimo anno. Diciotto anni in una città non sono un lungo periodo di tempo; ma nella solitudine, nella solitaria solennità di un posto come quello, il pendolo vibra con un più profondo significato.
Per alcune particolari circostanze amministrative, il giovane barone, immediatamente dopo la morte del padre, entrò in possesso dei suoi vasti dominii. Di rado s’era visto tanta proprietà in mano di un nobile d’Ungheria, prima d’allora. I castelli non si contavano. E il più splendido e vasto di tutti era il palazzo Metzengerstein: il limite della terra intorno al quale non era stato mai nettamente definito; il parco principale aveva ad ogni modo un giro di cinquanta miglia.
La successione di una persona così giovane, dal carattere così ben conosciuto, al possesso di quella enorme fortuna, non lasciava molto a supporre circa la probabile linea di condotta ch’egli avrebbe tenuta. E, in verità, nello spazio di tre giorni, la condotta dell’erede oscurò la fama di Erode e superò magnificamente le speranze dei suoi ammiratori più entusiasti. Orge vergognose, tradimenti, inganni, atrocità inaudite, fecero tosto capire ai trepidanti vassalli che nessuna servile sottomissione da parte loro, né alcuno scrupolo di coscienza da parte di lui, avrebbero potuto metterli in qualche modo al sicuro dagli spietati artigli del piccolo Caligola. La notte del quarto giorno si videro bruciare le scuderie del castello di Berlifitzing; e nell’unanime opinione del vicinato il delitto dell’incendio andò ad aggiungersi alla già terribile lista dei misfatti e delle atrocità del barone.
Ma durante il tumulto fomentato da quell’evento, il giovane gentiluomo se ne stava, apparentemente assorto in meditazione, seduto in una vasta camera solitaria su nella parte più elevata del palazzo avito dei Metzengerstein. La ricca ancorché sbiadita tappezzeria che oscillava lugubremente alle pareti, raffigurava immagini tetre e maestose di migliaia d’illustri antenati. Lì preti in ermellino, dignitari pontifici che trattavano familiarmente con l’autocrate e il sovrano, o si opponevano ai capricci di qualche re temporale, e, grazie al potere della supremazia papale, rattenevano lo scettro ribelle dell’arcinemico. Qui le cupe, alte stature dei principi di Metzengerstein, i cui muscolosi cavalli da guerra calpestavano i cadaveri dei nemici caduti, riuscivano a scuotere, per la loro forte espressione, anche i nervi più solidi; e lì ancora, le voluttuose figure come di cigni delle dame d’altri tempi strisciavano via negli intrecci d’una danza irreale al suono di una immaginaria melodia.
Ma mentre il barone ascoltava, od ostentava di ascoltare, il rumore che veniva ogni momento più forte dalle scuderie di Berlifitzing – o forse rifletteva intorno a qualche nuovo e più deciso atto di audacia –, involontariamente i suoi occhi si posarono sulla figura di un enorme cavallo, d’un colore non naturale, che nella tappezzeria era rappresentato appartenente a un antenato saraceno della famiglia rivale. Il cavallo stava immobile come una statua in primo piano, mentre poco più indietro il suo cavaliere periva, sconfitto, sotto il pugnale di un Metzengerstein.
Sulle labbra di Frederick apparve un’espressione diabolica, come egli si accorse della direzione che, involontariamente, aveva presa il suo sguardo. Epperò non distolse gli occhi. Al contrario, non poté in alcun modo sottrarsi all’opprimente ansietà che pareva cadesse come un manto sopra i suoi sensi. Difficile gli riusciva unire le sue incoerenti sensazioni da sogno alla certezza di essere sveglio. E più s’indugiava a contemplare, più sentiva l’incanto far presa in lui; più gli pareva impossibile sottrarre lo sguardo al fascino di quella tappezzeria. Ma come il tumulto di fuori s’era d’improvviso fatto più violento, con uno sforzo egli portò la propria attenzione sul rosso riverbero di luce che le scuderie in fiamme mandavano alle finestre della stanza.
L’atto fu però momentaneo; e di nuovo il suo sguardo tornò automaticamente a posarsi sul muro. Con sbalordito terrore egli s’accorse allora che la testa del gigantesco destriero aveva cambiato posizione. Il collo dell’animale, dapprima piegato come in compassione sull’atterrato suo signore, s’era teso adesso in tutta la sua lunghezza verso il barone. Gli occhi, che prima non si vedevano, avevano preso adesso un’energica espressione umana e brillavano rossi d’ardore; mentre le labbra contratte mettevano in piena mostra i sepolcrali e ripugnanti denti dell’infuriato destriero.
Invaso dal terrore, il giovane signore corse, vacillando, alla porta. Mentre l’apriva, uno sprazzo rosso di luce irruppe nella sala riflettendosi in perfetto disegno sulla tremolante tappezzeria; ed egli fremette – mentre varcava barcollante la soglia – vedendo che quel riflesso andava a coincidere, riempiendone tutto il contorno, con l’implacabile trionfatore del saraceno Berlifitzing.
Per liberarsi dall’oppressione il barone si precipitò all’aperto. Sull’ingresso principale del palazzo incontrò tre scudieri, i quali, con grande difficoltà e a rischio della loro vita, cercavano di frenare i balzi convulsi di un gigantesco cavallo color di fuoco.
«Di chi è questo cavallo? Dove lo avete preso?» domandò il giovane con rauca voce irata, vedendo subito che il furibondo animale era la copia perfetta del destriero misterioso disegnato sulla tappezzeria.
«È vostro, signore» rispose uno degli scudieri «non c’è altri almeno che lo reclami per suo. L’abbiamo preso mentre scappava, tutto fumante e schiumando di rabbia, dalle scuderie incendiate del castello dei Berlifitzing. Pensavamo fosse uno dei cavalli stranieri allevati dal vecchio conte e lo abbiamo condotto da lui. Ma lì ci hanno detto di non aver mai visto quest’animale; e questo è strano, perché ha tracce addosso che indicano come sia scampato a stento alle fiamme.»
«Eppoi ci sono queste lettere W.V.B. impresse distintamente sulla sua fronte» continuò il secondo scudiero.
«Io pensavo che fossero le iniziali di Wilhelm von Berlifitzing, è naturale; ma lì tutti sostengono di non aver mai visto questo cavallo.»
«Che strana faccenda!» disse il giovane barone, sopra pensiero, con l’aria di non sapere quello che diceva. «Difatti, è un cavallo magnifico, eccezionale, benché, come avete giustamente osservato, di ombroso e intrattabile carattere. Ma lasciate che sia mio» soggiunse dopo una pausa «forse a un cavaliere come Frederick von Metzengerstein riuscirà di domare anche il diavolo delle scuderie di Berlifitzing.»
«V’ingannate signore, a credere che il cavallo sia del conte, ve lo abbiamo già detto. Se provenisse di là non lo avremmo portato alla presenza di una persona della vostra nobile famiglia.»
«Già!» osservò il barone, seccamente; e in questo mentre ecco giungere un paggio di camera dall’interno del palazzo, a passi precipitati e tutto rosso in viso. Sussurrò all’orecchio del padrone come fosse improvvisamente scomparso un pezzo di tappezzeria da una stanza che indicò adducendo minuziosi e circostanziati particolari; ma tutto così a bassa voce che non una parola poté giungere a soddisfare l’eccitata curiosità degli scudieri.
Frederick, nell’atto che il paggio gli parlava, parve agitato da una certa emozione. Ma ritrovò presto la calma e la sua faccia prese un’espressione di malvagia risolutezza nel dare ordini perentori perché si chiudesse quella camera sull’istante e se ne rimettesse la chiave nelle sue mani.
«Avete udito della brutta morte che ha fatto il vecchio cacciatore Berlifitzing?» disse al barone uno dei vassalli, quando il paggio se ne fu andato. E intanto il gigantesco destriero, che il gentiluomo aveva adottato per suo, faceva balzi e tuffi, con rinnovato furore, lungo il viale che dal palazzo portava alle scuderie dei Metzengerstein.
«No!» disse il barone, volgendosi bruscamente. «È morto?»
«Sicuro, signore; e credo che per voi non sia una cattiva notizia.»
Un sorriso balenò sul volto del barone. «E com’è morto?» egli chiese.
«Mentre si affannava a cercar di salvare certi suoi favoriti cavalli da caccia, è miseramente perito tra le fiamme.»
«Ah, co… s… ì?» esclamò il barone, come se lentamente andasse convincendosi della verità di una qualche straordinaria supposizione.
«Proprio!» disse il vassallo.
«Che orrore!» concluse il barone con calma, tranquillamente ritornando al palazzo.
Da quel giorno si verificò un forte mutamento nella condotta del giovane dissoluto Frederick von Metzengerstein. Invero egli s’era comportato in modo da sconcertare qualsivoglia speranza, e da mandare all’aria i disegni di molte intriganti mamme; e i suoi costumi adesso finirono per concordare in tutto con quelli dell’aristocrazia dei dintorni. Non lo si vide più fuori dei suoi dominii, e nell’ampio mondo della società si trovò completamente privo di amici; ammenoché quel sovrannaturale e impetuoso cavallo color di fuoco ch’egli ormai montava continuamente non potesse, per qualche misteriosa ragione, chiamarsi suo amico.
Purnondimeno continuarono ad arrivargli dai suoi vicini, per un pezzo, numerosi inviti. “Vorrà il barone onorare la nostra festa della sua presenza?”, “Vorrà il barone prendere parte alla nostra caccia al cinghiale?” “Metzengerstein non va a caccia”, “Metzengerstein non accetta” erano le sue laconiche altere risposte.
Tali ripetuti insulti non potevano alla lunga esser sopportati dall’orgogliosa nobiltà. Gli inviti si fecero meno cordiali, meno frequenti, e poco alla volta cessarono del tutto. La vedova del disgraziato conte di Berlifitzing espresse il desiderio “che il barone, giacché disprezzava la compagnia dei suoi eguali, fosse costretto a stare in casa quando avrebbe desiderato di non esserci, e a cavalcare, giacché preferiva la compagnia di un cavallo, quando non avrebbe voluto cavalcare”. Il che non era, di certo, che una sciocca esplosione del rancore ereditario; e dimostrava soltanto come le nostre parole possano perdere ogni significato a forza di voler dar loro una forma di estrema energia.
Le persone d’animo benigno, tuttavia, attribuivano il mutamento di condotta del giovane gentiluomo al suo naturale dolore di figlio troppo presto rimasto privo dei genitori; dimenticando, però, il suo atroce e strafottente contegno dei giorni che avevano immediatamente seguito a quella duplice perdita. Alcuni lo accusarono di essersi fatta un’idea esagerata della propria importanza e della propria dignità. Altri (e fra questi il medico della famiglia) non esitarono a parlare di malinconia morbosa e di mali ereditarii; mentre oscure insinuazioni, di più equivoca natura, correvano sulle bocche della moltitudine.
L’attaccamento morboso del barone per la sua nuova cavalcatura – attaccamento che pareva rafforzarsi ad ogni nuovo esempio che l’animale dava delle sue feroci e demoniache tendenze – finì per essere giudicato, da tutta la gente ragionevole, come una passione contro natura. Al riverbero meridiano, nelle ore morte della notte, col bel tempo o con la tempesta, e fosse malato o in buona salute, il giovane Metzengerstein era sempre inchiodato alla sella del suo colossale destriero, la cui irrefrenabile audacia si accordava così bene al carattere di lui.
Si verificarono inoltre delle circostanze che, rapportate agli ultimi avvenimenti, circonfusero di una atmosfera di prodigio e di sovrannaturalezza la mania del cavaliere e le qualità dell’animale. Si misurò accuratamente lo spazio che questo superava con un salto, e si trovò ch’era assai più grande di quanto dai più esagerati fosse stato supposto. Il barone, poi, non aveva dato nessun nome alla bestia, laddove tutti gli altri cavalli della sua scuderia erano distinti da appellativi caratteristici. La stalla per il nuovo destriero era stata adattata a una certa distanza dalle altre; e nessuno, eccettuato il barone, aveva osato varcarne la soglia per la cura e la pulizia dell’animale. Si notò pure che nessuno dei tre inservienti, i quali erano riusciti per mezzo di una corda a nodo scorsoio a impadronirsi del destriero in fuga dal disastro di Berlifitzing, poteva affermare con certezza di aver posto le mani, nel corso della pericolosa lotta o in alcun altro momento successivo, sopra il corpo della bestia. Che un nobile e focoso destriero dia prove di una speciale intelligenza non è cosa che possa destare in modo eccezionale l’interesse della gente, ma nel caso in questione c’erano circostanze tali da impressionare anche i più scettici e indifferenti; tanto che si diceva di volte in cui l’animale aveva fatto retrocedere inorridita la folla che gli stava intorno ad ammirarlo, per l’impressionante profondità di significato del suo terribile pestar di zampa, e di volte in cui il giovane Metzengerstein s’era voltato altrove tutto pallido per sfuggire a un improvviso sguardo indagante del suo occhio serio e quasi umano.
Nessuno tra la servitù del barone pose mai in dubbio l’eccezionale affezione che il giovane nobiluomo portava al cavallo per le sue focose qualità; nessuno, tranne un insignificante paggetto le cui deformità erano sempre tra i piedi alla gente e alle cui opinioni non si poteva attribuire molta importanza. Egli (se la cosa vale la pena d’esser ricordata) aveva la sfrontatezza di affermare che il suo padrone non era mai salito in sella senza un inesplicabile tremito, impercettibile quasi; e che al ritorno da ognuna delle sue lunghe cavalcate quotidiane una espressione di malvagità trionfante tendeva tutti i muscoli della sua faccia.
Una tempestosa notte, Metzengerstein, destatosi da un sonno pesante, uscì come pazzo dalla sua camera, salì in gran furia a cavallo e scomparve d’un balzo nei labirinti della foresta. L’avvenimento era tanto comune che nessuno vi fece caso, però i domestici attesero il ritorno del barone con viva ansietà dacché gli stupendi, meravigliosi edifizi di palazzo Metzengerstein avevano cominciato, qualche ora dopo quella partenza, a scricchiolare e a vacillar sulle fondamenta per la livida intensità d’un indomabile incendio.
Come le fiamme, quando la gente se ne avvide, avevano già progredito di tanto che ogni sforzo per salvare una parte qualunque degli edifizi appariva chiaramente inutile, gli accorsi se ne stavano attoniti là intorno in ozioso se non apatico silenzio. Ma ecco che qualcosa di nuovo e terribile richiamò su di sé l’attenzione della moltitudine, e dimostrò quanto più intenso sia l’interesse che può fomentare in una folla la contemplazione della sofferenza umana, a paragone di quello suscitato anche dai più spaventevoli spettacoli della materia inanimata.
Sul lungo viale di antiche querce che dalla foresta conduceva all’ingresso del palazzo Metzengerstein, fu scorto un destriero, montato da un cavaliere senza cappello e con gli abiti tutti scompigliati, che spiccava salti tali da vi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Racconti del terrore
  3. Contenuti extra
  4. RACCONTI DEL TERRORE
  5. Intrecci
  6. Copyright