Racconti di Pietroburgo
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Racconti di Pietroburgo

  1. 240 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

La produzione di Gogol' è caratterizzata da un alternarsi di scritti moralistici e di opere narrative, frutto del suo genio fantastico e della sua irripetibile personalità. Di queste fanno parte i racconti del ciclo pietroburghese, nei quali la capitale - che all'ucraino Gogol' appare come una città non russa, splendida facciata di un edificio ormai in rovina dove si conduce una vita vuota, esteriore, alienata - si fa al tempo stesso scenario grottesco e sinistro burattinaio di quella "vita vegetativa" verso la quale lo scrittore si sentì sempre attirato, in un duplice atteggiamento di compiacimento partecipe e di beffarda ironia. La principale caratteristica dello stile gogoliano è la sua espressività verbale: le immagini d'ambiente nascono da un'incredibile sovrapposizione di infiniti dettagli, i personaggi sono figure indimenticabili, caricature non tanto del mondo esterno, quanto della fauna generata dalla mente stessa dello scrittore, satira di sé nonché della Russia e del genere umano, in quanto l'una e l'altro riflettono quel sé. E grazie a quella forza prodigiosa che è la fantasia creativa del loro autore queste terribili caricature hanno una veridicità, una inevitabilità tali che eclissano la verità ed esercitano un fascino straordinario sul lettore.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804525189
eBook ISBN
9788852036774

Il ritratto

Parte prima
In nessun posto si fermava tanta gente quanta davanti alla botteguccia di quadri dello Ščukin Dvor.1 Infatti, questa botteguccia presentava la più eterogenea raccolta di cose strane: per la maggior parte i quadri erano dipinti a olio, erano coperti da una vernice verde-scura, avevano cornici chiassose color giallo scuro. Un inverno con gli alberi bianchi, un tramonto completamente rosso, simile al bagliore di un incendio, un contadino fiammingo con la pipa e il braccio rotto, piuttosto simile a un gallo d’India con i polsini che non a un uomo: ecco i loro soggetti abituali. A questo occorre aggiungere alcune immagini incise: il ritratto di Chosrev-Mirza con il berretto di montone, i ritratti di certi generali con il tricorno e il naso storto. In più, alle porte di tale bottega erano solitamente appesi fasci di incisioni popolari stampate su grandi fogli, che testimoniavano del talento naturale del popolo russo. Su una era raffigurata la zarevna Miliktrisa Kirbit’evna, su un’altra la città di Gerusalemme, sulle cui case e chiese era diffuso senza cerimonie un colore rosso che invadeva parte del terreno e due contadini russi con i guanti a sacco in preghiera. Solitamente gli acquirenti di tali opere non sono molti, in compenso i curiosi sono tanti. Di certo si vedrà qualche lacchè bisboccione sbadigliare davanti a esse, reggendo in mano il portavivande con il pranzo per il suo signore, che senza dubbio sorbirà una minestra non tanto calda. Certo ci sarà anche un soldato con il cappotto, il solito cavaliere del mercato di roba vecchia che vende un paio di temperini appuntapenne; una venditrice ambulante del sobborgo di Ochtà con una scatola piena di scarpe. Ognuno si entusiasma a modo suo: di solito i contadini mostrano con il dito; i cavalieri esaminano con serietà; i giovani servitori e gli apprendisti ridono e si prendono in giro mostrandosi le caricature; i vecchi lacchè in cappotto di tela di Frisia guardano solo per avere un posto dove poter sbadigliare; e le merciaie, giovani donne russe, accorrono d’istinto per ascoltare di che ciarla la gente e vedere che cosa guarda. In quel momento, per caso, il giovane pittore Čartkòv che si trovava a passare di là si fermò davanti alla bottega. Il vecchio cappotto e l’abito non certo elegante mostravano che era un uomo dedito al proprio lavoro fino all’abnegazione e non aveva tempo di curarsi del proprio abbigliamento, che di solito esercita un segreto fascino sulla gioventù. Egli si fermò davanti alla bottega e dapprima rise dentro di sé per quei quadri mostruosi. Poi fu preso da un’involontaria riflessione: cominciò a pensare a chi potessero servire queste opere. Che i russi ammirassero cose come Eruslàn Làzarevič, Il mangione e il beone, Fomà e Eremà,2 non gli pareva per niente strano: gli oggetti raffigurati erano molto accessibili e comprensibili al popolo; ma dove erano gli acquirenti di queste variopinte, sporche, oleose impiastricciature? A chi servivano quei contadini fiamminghi, quei paesaggi rossi e azzurri che mostravano una qualche pretesa a uno stadio già alquanto più alto di arte, ma in cui si rifletteva tutta la profonda umiliazione dell’arte stessa? Esse non sembravano affatto il risultato del lavoro di un bambino autodidatta. Altrimenti, nonostante il grossolano carattere caricaturale dell’insieme, esse avrebbero rivelato un certo slancio. Ma qui erano evidenti semplicemente l’ottusità, un’incapacità impotente e decrepita che arbitrariamente s’intrometteva nelle file dell’arte, mentre il suo posto non poteva essere che fra gli umili mestieri, un’incapacità che tuttavia era fedele alla propria vocazione e introduceva nella stessa arte il proprio mestiere. Gli stessi colori, la stessa maniera, ma la stessa mano rozza e abitudinaria di un automa grossolano, piuttosto che di un essere umano!... Egli si fermò a lungo davanti a questi quadri sozzi, senza nemmeno pensarci più, e frattanto il padrone della bottega, un omino grigio con il cappotto di tela di Frisia, con la barba incolta della domenica prima, già da tempo spiegava, mercanteggiava e trattava il prezzo, non sapendo ancora cosa gli piacesse o gli occorresse. «Ecco, per questi contadinelli e il paesaggino prendo un biglietto bianco.3 Ma che pittura! Ti sfonda addirittura l’occhio; li ho appena ricevuti dalla sala vendite; la vernice non si è ancora asciugata. Oppure ecco un inverno, prendete l’inverno! Quindici rubli! Solo la cornice li vale. Ecco che inverno!» Qui il mercante diede un buffetto sulla tela, probabilmente per mettere in mostra tutta la bontà dell’inverno. «Ordinate di legarli insieme e di portarveli a casa? Dove abitate, signore? Ehi, ragazzo, porta uno spago.» «Aspetta, amico, non così in fretta» disse il pittore ritornato in sé, vedendo che il lesto mercante si accingeva sul serio a legare i quadri. Gli era venuta un po’ di vergogna a non prendere nulla, dopo essere rimasto per tanto tempo nella bottega, e così disse: «Ma aspetta un po’, voglio vedere se qui in giro c’è qualcosa per me» e, chinatosi, cominciò a tirar su dal pavimento vecchie pitture ammassate alla rinfusa, logore, impolverate, che evidentemente non godevano di alcuna considerazione. Erano vecchi ritratti di famiglia, i cui discendenti probabilmente non erano più al mondo, immagini del tutto irriconoscibili con la tela strappata, cornici prive di doratura, insomma ogni sorta di vecchio pattume. Ma il pittore si mise a frugare, pensando in segreto: “Vuoi vedere che salta fuori qualcosa?“. Più di una volta avevano sentito raccontare che in certi casi, dai mercanti di stampe popolari, tra il ciarpame erano stati rinvenuti quadri di antichi maestri. Il padrone, vedendo dove si era ficcato, smise le sue premure e, assunta l’abituale posizione e la conveniente gravità, prese posto di nuovo davanti alla porta chiamando con insistenza i passanti e indicando con una mano la botteguccia... «Di qua batjuška,4 ecco i quadri! Entrate, entrate, sono appena arrivati dal salone delle vendite.» Aveva già strillato a sazietà e per lo più senza risultato, aveva pure a sazietà chiacchierato con un rigattiere di fronte che stava anch’egli sulla porta della sua bottega, quando infine, ricordatosi che c’era un compratore nella bottega, voltò le spalle alla gente e rientrò. «Dunque, batjuška, avete scelto qualcosa?» Già da parecchio tempo il pittore stava immobile davanti a un ritratto dalla grande cornice, un tempo magnifica, ma su cui adesso luccicava appena qualche traccia di doratura. Era un vecchio dal volto color bronzo, dai larghi zigomi, appassito; i tratti del volto parevano essere stati colti in un istante di agitazione febbrile e emanavano una forza non settentrionale. L’ardente mezzogiorno era stampato su di essi. Egli era drappeggiato in un ampio costume asiatico. Per quanto il ritratto fosse danneggiato e impolverato, allorché il pittore riuscì a togliere la polvere dal volto, vi scorse le tracce dell’opera di un grande artista. Il ritratto pareva non finito, ma la forza del pennello era stupefacente. Più straordinari di tutto erano gli occhi: pareva che per essi l’artista avesse impiegato tutta la forza del pennello e tutte le sue cure scrupolose. Essi semplicemente guardavano persino dal quadro, quasi violandone l’armonia con la loro strana vivezza. Quando portò il ritratto vicino alla porta, gli occhi guardavano ancora più vivaci. Quasi la medesima espressione fecero anche tra la gente. Una donna che si era fermata alle spalle di Čartkòv esclamò: «Guarda, guarda» e indietreggiò. Egli avvertì una sensazione spiacevole, incomprensibile e poggiò il quadro a terra.
«Allora, prendete il ritratto?» disse il padrone.
«Quanto?» domandò il pittore.
«Perché mercanteggiare? datemi solo tre četver tàčki5
«No.»
«E allora quanto offrite?»
«Venti copeche» disse il pittore preparandosi ad andarsene.
«Ma da dove cacciate questo prezzo! Non compri neanche la cornice per venti copeche. Si vede che avete intenzione di comprarlo domani. Signore, signore, tornate qua! Aggiungete almeno un pezzo da dieci. Prendete, prendete, datemi pure venti copeche. Veramente, solo per cominciare, perché siete il primo cliente della giornata.» Dopodiché il mercante fece un gesto con la mano, come per dire: “Se così dev’essere, quadro sparisci!”.
Fu così che Čartkòv comprò del tutto inaspettatamente un vecchio ritratto, e nello stesso tempo pensò: perché l’ho comprato? a che mi serve? Ma ormai non c’era niente da fare. Trasse fuori dalla tasca le venti copeche, le diede al padrone, prese il ritratto sotto braccio e se lo portò via. Per strada si ricordò che le venti copeche che aveva dato erano le ultime. Subito i suoi pensieri si oscurarono: in quello stesso istante l’assalirono l’ira e un gran senso di vuoto. «Al diavolo! Mondo schifoso!» disse nello stato d’animo del russo a cui le cose vanno male. E quasi meccanicamente si mise a camminare a passi rapidi, pieno d’indifferenza per tutto. La luce rossa del tramonto copriva ancora metà del cielo; le case, rivolte da quella parte, erano ancora illuminate da quella tiepida luce; e frattanto già il freddo, azzurrognolo chiarore della luna diventava più forte. Leggere ombre semitrasparenti cadevano a terra come veli dalle case e dalle gambe dei passanti. Il pittore cominciò a poco a poco a guardare il cielo rischiarato da una luce diafana, sottile, ambigua, e quasi contemporaneamente gli volarono dalla bocca le parole: «Che tonalità leggera!» e «Che rabbia, al diavolo!». E, aggiustando il ritratto, che continuamente gli scivolava da sotto il braccio, affrettò il passo. Stanco e tutto sudato si trascinò fino a casa alla quindicesima linea dell’Isola Vasìl’evskij. Con difficoltà e con l’affanno si arrampicò per la scala inondata di risciacquature e adorna di tracce di gatti e di cani. Picchiò alla porta ma non ci fu alcuna risposta: il domestico non era in casa. Si appoggiò alla finestra e si dispose ad aspettare pazientemente, finché non si sentirono infine alle sue spalle i passi di un ragazzo in camicia azzurra, il suo scagnozzo, modello, stemperatore di colori e spazzatore di pavimenti, che però sporcava subito coi suoi stessi stivali. Il ragazzo si chiamava Nikita, e passava tutto il tempo fuori del portone, quando il padrone non era in casa. Nikita cercò a lungo di ficcare la chiave nel buco della serratura che non ci si vedeva a causa dell’oscurità. Finalmente la porta fu aperta. Čartkòv entrò nella sua anticamera, fredda da non dirsi, come sempre a casa dei pittori, cosa di cui peraltro non si accorgono affatto. Senza dare il cappotto a Nikita, entrò con questo indosso nel suo studio, una stanza quadrata, ampia, piuttosto bassa, con le finestre gelate, cosparsa d’ogni sorta di artistico ciarpame: frammenti di braccia di gesso, cornici, tele già tese, schizzi iniziati e abbandonati, drappeggi appesi sulle sedie. Era molto stanco, gettò via il cappotto, buttò distrattamente il ritratto che aveva portato tra due piccole tele, e si abbandonò sul divanetto, di cui non si poteva dire che fosse foderato di pelle, poiché la fila di chiodini di rame, che un tempo la fissava, da parecchio se ne restava per proprio conto, e anche la pelle se n’era rimasta per proprio conto, cosicché Nikita vi ficcava le calze nere, le camicie e tutta la biancheria sporca. Sedutosi e sdraiatosi, per quanto fosse possibile sdraiarsi su quello stretto divano, chiese finalmente una candela.
«Non ci sono candele» disse subito Nikita.
«Come mai?»
«Ma anche ieri non ce n’erano» fece Nikita. Il pittore si ricordò che anche la sera prima effettivamente non c’erano candele, si tranquillizzò e tacque. Si fece svestire, e indossò la sua vestaglia tremendamente lisa.
«E poi c’è ancora che è venuto il padrone di casa» disse Nikita.
«Be’, è venuto per i soldi? lo so» disse il pittore facendo un segno d’indifferenza con la mano.
«Ma non è mica venuto da solo» disse Nikita.
«Con chi dunque?»
«Non so con chi... con una guardia.»
«E perché la guardia?»
«Non lo so; dice perché l’alloggio non è stato pagato.»
«E allora come andrà a finire?»
«Non so come finirà; lui ha detto: “Se non vuole, allora lasci l’alloggio”; domani torneranno tutt’e due.»
«Che tornino» disse Čartkòv con triste indifferenza. E uno stato d’animo nero s’impadronì completamente di lui.
Il giovane Čartkòv era un pittore di talento che prometteva molto: a tratti e a sprazzi il suo pennello mostrava spirito d’osservazione, prontezza, avvicinandosi con vivo slancio sempre più alla natura. «Guarda, fratello,» il professore gli aveva detto più volte «tu hai talento; sarà un peccato se l’ammazzi. Ma tu non sei paziente. Se ti attira qualcosa, se ti invaghisci di qualcosa, non ti occupi d’altro, e il resto per te non vale niente, e neanche ti vien voglia di guardarlo. Bada, non diventare un pittore alla moda. Già adesso i colori cominciano a gridare con troppa vivacità. Il tuo disegno non è rigoroso, e a volte persino debole, la linea non si vede; tu già rincorri gli effetti di luce alla moda, quello che colpisce al primo sguardo... sta’ attento, puoi proprio andare a finire nel genere inglese. Bada, il mondo comincia ad attirarti; qualche volta ti vedo con un elegante fazzoletto al collo, un cappello lustro... È una tentazione, ci si può mettere a dipingere quadretti alla moda, ritrattini per far soldi. Ma con questo il talento muore e non si sviluppa. Abbi pazienza. Rifletti su ogni lavoro, lascia stare l’eleganza, gli altri facciano pure i soldi. Ciò che è tuo non ti abbandonerà mai.»
Il professore aveva in parte ragione. Invero, il nostro artista a volte aveva voglia di far baldoria, di sfoggiare eleganza, insomma di far vedere qua e là di essere giovane. Ma, nonostante ciò, poteva anche dominarsi. A volte poteva dimenticare ogni cosa, prendendo il pennello in mano, e se ne staccava come da un bellissimo sogno interrotto. Il suo gusto si sviluppava sensibilmente. Ancora non capiva tutta la profondità di Raffaello, ma già era attratto dalla rapida, ampia pennellata di Guido,6 si fermava davanti ai ritratti di Tiziano, si entusiasmava ai fiamminghi. Ancora il velo scuro che rivestiva i quadri antichi non si era interamente dissipato ai suoi occhi; ma già vi intravedeva qualcosa, sebbene dentro di sé dissentisse dal professore che sosteneva essersi gli antichi maestri allontanati da noi in modo irraggiungibile; gli sembrava persino che il secolo diciannovesimo li avesse in qualcosa superati, che l’imitazione della natura in qualche maniera si fosse fatta adesso più chiara, più viva, più vicina; insomma, in tal caso egli pensava come la pensano i giovani che abbiano già raggiunto qualcosa e l’avvertano nella loro coscienza orgogliosa. Talvolta si indispettiva quando vedeva che un pittore di passaggio, francese o tedesco, a volte addirittura nemmeno pittore per vocazione, ma solo per una certa maniera fattasi abitudine, per la destrezza del pennello e la vivacità dei colori, riusciva a sollevare un clamore generale e in un battibaleno accumulava un bel capitale. Questo non gli veniva in mente quando, preso completamente dal suo lavoro, dimenticava e di bere e di mangiare e il mondo intero, ma quando infine urgeva la necessità, quando non c’era di che comprare i pennelli e i colori, quando il fastidioso padrone di casa veniva anche dieci volte al giorno a pretendere il pagamento dell’affitto. Allora nella sua immaginazione affamata si disegnava con invidia il destino del pittore ricco; allora gli veniva persino l’idea, come spesso avviene nella testa dei russi, di buttare all’aria tutto e per dispetto darsi completamente alla sbornia. E adesso era quasi in un tale stato d’animo.
«Sì! pazienza! pazienza!» articolò con stizza. «C’è alla fine anche un limite alla pazienza. Pazienza! Ma con quali soldi domani pranzerò? Nessuno vorrà farmi un prestito. Vado a vendere i miei quadri e disegni: in tutto non mi danno venti copeche. Essi sono certamente utili, me ne accorgo: ognuno di essi non è stato iniziato per caso, ognuno di essi mi ha insegnato qualcosa. Ma a che servono? Studi, tentativi, e non se ne vedrà mai la fine. E chi li compra, non conoscendo il mio nome; e poi a chi servono i disegni dagli antichi della classe di pittura dal vero, oppure il mio incompiuto amore di Psiche, o la prospettiva della mia camera, o il ritratto del mio Nikita, sebbene sia davvero migliore dei ritratti di qualsiasi pittore alla moda? E allora? Perché mi tormento e come uno scolaro indugio sull’abbiccì, quando potrei brillare non peggio degli altri e essere pieno di soldi come loro?» Detto questo, il pittore improvvisamente cominciò a tremare e impallidì; protendendosi da una tela poggiata a terra, un volto febbrilmente alterato lo fissava. Due occhi terribili erano puntati proprio su di lui, come s’apprestassero a divorarlo; sulle labbra era dipinto l’ordine minaccioso di tacere. Spaventato, voleva gridare e chiamare Nikita, che nella sua anticamera già aveva cominciato a russare come un Ercole; ma all’improvviso si fermò e scoppiò a ridere. Il senso di spavento sparì all’istante. Era il ritratto che aveva comprato e che aveva completamente dimenticato. Il chiaro della luna, illuminando la camera, era caduto anche su di esso conferendogli una strana vivacità. Si mise a esaminarlo e a pulirlo. Inzuppò d’acqua una spugna, la passò ripetutamente sulla tela, tolse quasi tutta la polvere e lo sporco che vi si erano accumulati e depositati, lo appese alla parete dinanzi a lui e ancor più si meravigliò di quel lavoro straordinario: tutto il volto pareva vivo, e gli occhi lo guardarono in modo tale che alla fine ebbe un brivido e, arretrando, esclamò con voce stupita: «Guarda, guarda con occhi umani!». All’improvviso gli venne in mente la storia, raccontatagli tanto tempo prima dal suo professore, di un ritratto del celebre Leonardo da Vinci sul quale il grande maestro aveva lavorato per alcuni anni considerandolo non finito e che, secondo le parole del Vasari, era nondimeno da tutti ritenuto un’opera d’arte delle più compiute e definitive. In essa gli occhi erano la cosa più definitiva, che stupiva i contemporanei; neppure le venuzze più piccole, appena visibili, erano state trascurate, ma erano state affidate alla tela. Eppure qui, in questo ritratto, che ora si trovava dinanzi a lui, c’era qualcosa di strano. E già non era più arte: era qualcosa che annientava addirittura l’armonia del ritratto. Erano occhi vivi, erano occhi umani! Sembrava che essi fossero stati strappati a un uomo vivo e messi lì. Non c’era qui nemmeno quell’alto godimento che invade l’anima davanti all’opera di un pittore, per quanto terribile possa essere il soggetto scelto; qui c’era come una sensazione morbosa, opprimente. “Che cos’è questo?” si chiese involontariamente il pittore. “Eppure è proprio la natura, natura viva: da che cosa dipende dunque questa sensazione stranamente spiacevole? Oppure la servile, letterale imitazione della natura è già un crimine e appare come un grido acuto, disarmonico? Oppure, se tratti il soggetto senza partecipazione, insensibilmente, senza simpatizzare con lui, senz’altro si presenta soltanto nella sua orribile realtà, non illuminato dalla luce del pensiero irraggiungibile, che si nasconde in ogni cosa, si presenta in quella realtà che scopri quando, volendo conoscere un bell’uomo, ti armi di un coltello anatomico, fai a pezzi le sue viscere e vedi un uomo ripugnante. Perché dunque la semplice, vile natura appare in un pittore in una certa luce, e non se ne ricava alcuna sensazione di volgarità; al contrario ti sembra di provare godimento, e poi tutto scorre più tranquillamente e più regolarmente intorno a te? E perché quella stessa natura in un altro pittore appare vile, sordida, benché anch’egli si sia mantenuto fedele alla realtà? Perché non c’è in essa qualcosa che la illumini. Proprio come un paesaggio vero: per quanto possa essere grandioso, tuttavia gli manca qualcosa se in cielo non splende il sole.“
Si accostò di nuovo al ritratto per poter osservare quegli occhi prodigiosi, e con terrore notò che essi guardavano proprio lui. Non era più una copia della natura, era quella strana vivezza che avrebbe potuto illuminare il volto di un cadavere levatosi dalla tomba. Fosse la luce della luna, che reca con sé il delirio del sogno e riveste tutto di altre immagini, contrapposte a quelle positive del giorno, o fosse altra la causa, chissà perché, improvvisamente ebbe paura di restare solo nella stanza. Piano piano si allontanò dal ritratto, si voltò dall’altra parte e cercò di non guardarlo, ma intanto, con la coda dell’occhio, involontariamente continuava a fissarlo. Infine ebbe persino paura di girare per la stanza; gli pareva che in quello stesso momento qualcuno gli andasse dietro e ogni tanto timidamente si voltava a guardare. Non era mai stato un codardo; ma la sua immaginazione e i suoi nervi erano sensibili, e quella sera non sapeva capacitarsi della propria paura. Si sedette in un angolo, ma anche qui gli sembrò che qualcuno da dietro le spalle lo stesse fissando. Lo stesso russare di Nikita, che veniva dall’anticamera, non riusciva a scacciare la paura. Finalmente, senza levare gli occhi, si alzò con timore, si diresse al di là del paravento e si coricò. Attraverso le fessure del paravento vedeva la camera illuminata dalla luna e vedeva pure il ritratto appeso proprio alla parete davanti a lui. Gli occhi si fissarono su di lui in modo ancora più terribile, più significativo, e sembravano non voler guardare nient’altro che lui. Pieno di una sensazione angosciosa, decise di alzarsi dal letto, afferrò il lenzuolo e, avvicinatosi al ritratto, lo avvolse tutto. Fatto ciò, si coricò più tranquillo, cominciò a pensare alla povertà e al triste destino del pittore, al tragitto spinoso che doveva percorrere a questo mondo; e intanto i suoi occhi involontariamente guardavano attraverso una fessura del paravento il ritratto avvolto nel lenzuolo. Lo splendore della luna faceva risaltare il bianco del lenzuolo, e gli sembrò che i terribili occhi cominciassero a brillare persino attraverso la tela. Con terrore fissò ancor più gli occhi, come volendo convi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Nikolaj Gogol’
  3. Racconti di Pietroburgo
  4. Introduzione di Giuseppe Mariano
  5. Cronologia
  6. Bibliografia
  7. RACCONTI DI PIETROBURGO
  8. La Prospettiva Nevskij
  9. Il naso
  10. Il ritratto
  11. Il cappotto
  12. Le memorie di un pazzo
  13. Copyright