Nuovi Argomenti (41)
eBook - ePub

Nuovi Argomenti (41)

Non ancora trentenni

  1. 368 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Nuovi Argomenti (41)

Non ancora trentenni

Informazioni su questo libro

Hanno collaborato: Raffaele Manica, Andrea Inglese, Alessio Arena, Giacomo Cardaci, Barbara Di Gregorio, Maura Gancitano, Paolo Giordano, Daniele Manusia, Federica Manzon, Federica Scrimieri, Silvia Avallone, Luca Colafrancesco, Marco Gatto, Menotti Lerro, Davide Nota, Carla Saracino, Matteo Zattoni, John Ashbery, Luca Rastello, Andrea Di Consoli, Emilia Zazza, Niccolò Nisivoccia, Pier Luigi Bacchini, Andrea Comotti, Chiara Valerio, Michael McDonald, Massimo Onofri, Graziano Dell'Anna, Leonardo Colombati, Giorgio van Straten, Elisa Davoglio.

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Informazioni

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IMITAZIONE DEL FUOCO


ALESSIO ARENA

Ho indagato me stesso.
Eraclito
Ho visto la vostra offerta, ho usufruito del vostro dono sul sangue degli uomini e le cose.
Bartolomeu Rosselló-Pòrcel
Ho pensato che dovevo correre.
Magari fino al bivio dell’autostrada principale dove forse avrei trovato qualche postazione di soccorso; pensavo che solo correndo potevo venir meno alla possibilità che qualcuno mi investisse, metti uno che spuntava adesso dall’uscita di Golmés, uno con un fuoristrada che veniva coi fendinebbia accesi dalla riserva di Vilasana, uno che cantava una canzone di Celia Cruz nel suo enorme camion che trasporta trecentoventidue polli ammutoliti da tanta grazia.
Correvo perché non era una cosa accettabile stare lì a quell’ora, le mani ghiacciate, gli occhi fradici come a voler interpretare un semplice mal di testa che per quanto correvo non riusciva a trattenersi nelle tempie, mi faceva piangere quel freddo che assisteva costantemente alla possessione cromatica degli alberi della piana di Urgell, proprio lì a costeggiare l’autostrada.
Lì attorno ogni cosa sembrava come incrostata, posseduta dal cancro di un’immobilità che era già di per sé una specie di miracolo, un miracolo sofferto, strappato a una notte che non aveva niente, in cui niente ci poteva stare, in cui ogni cosa doveva andarsene correndo perché così conveniva a una notte che io ero sotto effetto del fevarin, e non potevo accorgermi di un cazzo.
Vedevo i campi di pomodoro asfissiati dalla boira rotolata sull’asfalto, fino a compiere un percorso circolare attorno alla mia testa, che quella nebbia la respirava come fosse stata il presagio di un incendio, la frenesia di bruciare quanto prima un ridicolo attacco d’asma, piegato sulle ginocchia come Miquel, che nei camerini del teatro comincia sempre così a fare la sua parte, quando non ricorda un attacco o il finale di un recitativo.
Ogni volta io morivo dalla paura, e lui faceva così quando il direttore di scena aveva già dato il quarto, quando dovevo andarmene in platea a sedermi piccolo piccolo in mezzo al mormorio elegante della prima fila, tra le signore che leggono a mezza voce tutto il programma, sbagliando puntualmente la pronuncia del suo nome.
Miquel odiava tornare a cantare a Barcellona, odiava tornarci con la sua malattia, e mi ammazzava ogni volta quando gli prendeva così, che la voce gli restava appesa mentre io con le dita seguivo la partitura seduto al tavolo dove stava ancora intatto tutto il trucco di scena, e il costume, la sua voce aveva appannato lo specchio ma non si ricordava, e diceva che era la boira, diceva che ogni volta al Palau lo inseguiva quella maledetta nebbia del suo paesino, la nebbia che toglie le parole da bocca, quella che secondo la nonna Maritxell era una punizione divina che il caudillo infliggeva alla gente della pianura, gente che parlava troppo, parlava catalano, e non si faceva la croce e improvvisava assemblee sindacali nelle parrocchie di paese.
La vecchia Maritxell a Barcellona non c’era mai stata, non poteva sapere che suo nipote, imbottito di cortisone e ansiolitici di ogni genere, si facesse venire la nebbia anche lì, poco prima di andare in scena, e io in platea sentivo pronunciare male il suo nome, avevo come il presentimento che questa volta qualcosa sarebbe andato storto, che Miquel si sarebbe interrotto, magari durante il secondo atto, rimuginando tutto il furore diaframmatico del pezzo forte di Aminta, il suo personaggio; mi avrebbe guardato fisso, in lacrime, e sarebbe scappato lasciando tutto così com’era.
Ero stato io a convincerlo di prendere la parte. Perché Sergi Balaguer aveva fatto il suo nome alla commissione artistica del Palau, perché sapevo gli sarebbe servito a risolvere un po’ di problemi con sua sorella, che prima o poi tornava dalla sua vacanza in Germania, e con tutti quelli cui doveva dei soldi, e poi perché si trattava di un’opera di Caldara, uno dei miei preferiti.
Cose del genere io le facevo quando ancora ero a Napoli, quando ancora cantavo.
Mi ricordo le mie lezioni al Pallonetto di Santa Lucia, nella casa di Dorotea, quando mi solfeggiavo a voce fredda tutte le arie del Ciro Riconosciuto, anche quelle dei ruoli femminili, e la mia insegnante, nella sua infinita malizia, mi faceva aspettare la fine di una lezione precedente nella sua camera da letto, dove per fama sapevo fossero passati tutti i miei compagni di conservatorio. Ero l’unico a pagare Dorotea per quelle lezioni, e lei ogni volta ne era quasi indignata, covava un odio tutto femminile nei miei confronti, perché ero l’unico a non osare nemmeno toccarle il culo, nemmeno quando veniva ad aprirmi con quella assurda gonna di chiffon che sembrava uno di quei pezzi che la sartoria di Liberato teneva in esposizione nel laboratorio proprio sotto casa sua.
– Uè, oggi finiamo un po’ prima perché tengo il teatro – diceva, e mentre concludeva un’altra lezione mi faceva aspettare in camera sua, mi costringeva a cogliere tutti i segni evidenti di una recente presenza maschile in quel posto, l’odore sui cuscini, sulle coperte, quello delle scarpe che si era tolto qualcuno, dell’orologio lasciato sul comodino.
E io mi cantavo tutto Caldara, e un po’ mi eccitavo.
Esistono poche altre cose che mi eccitano come la voce di Miquel Martinez i Bobé, come il suo nome completo, che resta intatto, vertebrato, composto, resta in piedi solo nella sua voce che prima di parlarti parla a se stessa, si interpreta in un bozzo contrappuntistico di parole che gli riempiono la bocca prima ancora di tutto, e in vantaggio sull’occasione di dire qualcosa gli lasciano spesso un poco di saliva agli angoli della bocca.
La sua voce è un’improvvisa stretta di mano, in mezzo alla folla, il giorno del matrimonio di Sergi Balaguer con una sua allieva francese, in una chiesetta ammuffita che stava vicino al porto di Tarragona.
Ci capitai perché in piena estate si bazzicava sempre da quelle parti, a pochi chilometri dalla città c’era quella famosa Torre della Mora che era un’oasi naturista con la sua spiaggetta selvaggia scavata nel tufo della Costa Daurada. Del resto era da un po’ di anni che Sergi ci invitava a un festival di cui curava la direzione artistica, e noi dell’orchestra eravamo venuti a fare un mottetto di Pergolesi, in cui io facevo la parte del contralto, tenevo gli occhi chiusi e mi fischiavano le orecchie tutto il tempo.
Al matrimonio di Sergi Balaguer con quella lì che sembrava pure un po’ scocciata sentii cantare Miquel per la prima volta, e tutto il tempo stetti a guardarlo e mi mancava il fiato quasi che improvvisamente mi fossi messo a correre dentro a quella voce che spostava continuamente il suo punto d’appoggio, cantava l’assenza di libertà dei gesti della sua faccia che era una malinconia superba, lo sguardo alto, la fronte ammorbidita da qualche goccia di sudore, la sua bocca di uva spina, indecifrabile, indecente.
Mi promisi che tutta una vita mi sarebbe bastata a conoscerlo, e che in risposta a tutto il piacere che provavo ascoltandolo io non avrei mai più cantato.
Miquel non avrebbe saputo niente di quello che avevo fatto fino ad allora, di ciò che era stato solo un capriccio, reso ancora più vile, ancora più superfluo davanti alla sua impareggiabile arte, la sua voce in cui io avrei iniziato a correre forse proprio per chiedere aiuto come ancora quell’ultima notte, magari fino al bivio dell’autostrada principale, dove avrei trovato qualche postazione di soccorso.
Pensavo di essermi già allontanato abbastanza dalla macchina, e quando mi fermai per azzardare un altro disperato tentativo di accendere il telefono, mi accorsi che stavo sanguinando. Probabilmente nello scontro mi ero fratturato qualche dito della mano, perché era gonfia, ma il fevarin che avevo preso appena m’ero messo in piedi mi attenuava il dolore, e potevo vedere solo il sangue che mi ero asciugato dalla faccia, quello che colava dal naso, e quello di una piccola ferita appena sopra l’occhio sinistro che riuscivo a tenere aperto a malapena.
Ero arrivato al limite dello sterrato ferruginoso che attornia le serre e gli altri campi biologici della pianura di Miralcamp, il paese dove Miquel è andato a scuola, dove rubava i vecchi dischi della Decca mettendoseli sotto il pullover grigio.
La nebbia lasciava vedere soltanto le luci della torre Robiales, la più alta di quella ridicola fabbrica di concimi che da anni arrivava persino ad appestare l’aria del paese. Più che le persone erano i cani ad accorgersene e a farsi carico della protesta contro le inesorabili esalazioni della fabbrica: tutti i cani di Miralcamp, che a quanto pare dovevano essere pure un bel branco, erano come impazziti per il leggero furore chimico dell’aria attorno al paese, ed erano finiti a unirsi in un esodo attraverso le campagne vicine, o almeno così mi raccontò la vecchia Maritxell, andando incontro alle misure cautelari di ogni diabolico contadino dell’Urgell che si fosse imbattuto in quei cani che avevano perso la testa, e che insieme alle patate e ai carciofi dei campi, si sarebbero di certo mangiati pure i loro figli.
– Alla fine si armavano per tenerli fermi, e li accecavano con degli spilli.
Questo invece lo disse Miquel, la prima notte che passammo insieme a Tarragona. Infatti dopo qualche noiosissima chiacchierata sulla spiaggia, e qualcos’altro a casa di Sergi, mi aveva invitato a stare da lui perché, disse, ho la sensazione di poterti far stare bene, io.
Mi fece assai ridere, e già immaginavo la corsa di quella sua magica voce baritonale tutta presa in un orgasmo, ma Eraclito s’era messo ad abbaiare senza posa, e noi ci eravamo fermati ben prima. In realtà avevo già notato qualcosa di strano negli occhi di quel cane, sempre così aperti, a spalancare quel chiarore innaturale sul grigio del muso.
– Vuole che lo porti a vedere New York – disse Miquel, e io ovviamente non afferrai, ma giacché sembrava che la cosa finisse lì tanto valeva accontentare Eraclito e portarlo dove voleva.
Così Miquel ci accomodò entrambi nel suo fuoristrada scassato, e tamburellando un motivetto stupido con le dita sullo sterzo, come un padre di famiglia che sembra non stare nei panni e gioisce per la sorpresa che farà ai suoi bambini, guidò fino al quartiere di San Adrián, un rettangolo di palazzine residenziali accasciato su una collina appena fuori la città.
Quando arrivammo anche a me mi prese come una specie di colpo di tosse e un po’ mi emozionai a vedere la reazione di Eraclito davanti a New York.
Quel cane sembrava piangere di fronte allo spettacolo notturno di quello che è il polo industriale più grande della Catalunya, le raffinerie e il loro insensato tripudio di luci beffarde, tremendamente coreografiche.
– Fa così perché in tutta probabilità è l’unica cosa che riesce ancora a vedere.
Invece sembrava di no, Maritxell mi disse che quel cane poteva addirittura vedere i morti, e tra quelli il suo unico figlio maschio, l’unico morto giovane di tutta la famiglia.
Quando convinsi Miquel a portarmi dalle sue parti era come se lo stessi costringendo a una specie di nostalgia di tornare della quale non sembrava essere più padrone.
– Guarda che c’è mia nonna – disse un paio di volte, come se la certezza di quella terribile presenza fosse bastata a scoraggiarmi – È una che non smette mai di parlare, la devi evitare.
Io di certo feci l’esatto contrario. Quella prima volta andammo in treno, fino a un paesino abbozzato in mezzo a una marea di uliveti rachitici, che si chiama Les Borges Blanques.
La nonna Maritxell ci venne a prendere in una seat violetta accompagnata da un omaccione che aveva una matassa di capelli bianchi acquattata sotto al berretto.
Era il postino del paese che veniva a raccogliere la corrispondenza in quella che è l’unica stazione delle vicinanze.
Quando Maritxell saltò fuori da quella macchina e prese a baciare suo nipote come fosse appena tornato da una guerra che durava anni, non potevo credere ai miei occhi, e non certo perché ritenessi fuori luogo una tanto esagerata manifestazione d’affetto. Erano i suoi gesti, la voracità dei suoi movimenti, che mi sorprendevano, il perfetto equilibrio di quel corpo di vecchia che senza dubbio pareva fosse stato appena dissepolto, o che stesse lì lì per diventare polvere.
– A Vilanova de Bellpuig siamo tutti così vecchi perché la morte fa fatica a trovarci – disse farfugliando nel tira e molla della sua dentiera.
Era la prima volta che sentivo pronunciare il nome del paese.
Miquel non l’aveva mai detto, e io non mi ci ero messo di intenzione, lasciavo correre ogni volta che lui si riferiva al poble, a la terreta, tutte quelle piccole parole che mi davano un quasi doloroso sapore di casa, di cosa propria. Maritxell aveva quasi ragione a dire che pure la morte s’era abituata a perdersi per la strada prima di arrivare a Vilanova.
Il postino aveva preso una provinciale appena fuori la stazione che sembrava immergersi nell’altissimo grano che costeggiava la pianura e poi man mano si era perso nella boira che s’era mangiata tutto il resto attorno, e la macchina andava di quarta singhiozzando dentro a quella inspiegabile nuvola grigia.
Maritxell vedendo la mia faccia scoppiò a ridere.
No tinguis por, home questa qui è una regola di vita, tutte le cose stanno meglio quando sono nascoste, quando non si vedono, no?
Parlava così Maritxell, come se ogni sua frase dovesse essere l’ultima, interpretando la solennità di quel suo respiro sempre affannoso, intimamente accordato agli insoliti ululati che Eraclito intonava in ogni angolo della casa.
– Lui lo vede, il mio bambino, ma purtroppo non può dirmi cosa si dicono.
– Miquel, di chi stava parlando? – gli chiesi quella notte, quando lui s’era alzato per raggiungermi nella camera degli ospiti, attraversando tutta la casa, che si divideva in due zone divise da un lungo corridoio pieno di scatole di libri.
– Dello zio Bartolomeu, il fratello di mia madre.
– Cosa gli è successo?
– Niente, aveva scritto molte poesie, poi andò in guerra come ausiliare e si prese la tubercolosi.
– Ah, e non c’è niente di suo da leggere?
– Certo, tutti quei libri che vedi in quelle scatole nel corridoio sono suoi, sono tutti lo stesso libro... non preoccuparti che la nonna te ne metterà qualche copia nella borsa prima di andartene.
– E cosa dice in quelle poesie?
– Non dice niente, secondo me, era solo uno che si inventava il dolore per riuscire a raccontarlo, tossiva dalla mattina alla sera, mi ricordo, perché era caduto da un albero quand’era ragazzo e gli si era accartocciato un polmone, ma per il resto era un tipo tranquillo, viaggiava di tanto in tanto, e poi qualche notte entrava nella mia stanza, anche se non osava troppo, solo qualche carezza, qualche bacio sulla fronte, poi faceva tutto da solo, lì davanti.
– Non ti credo – gli dissi.
Poi Miquel iniziò a baciarmi trascinandosi sotto le coperte, tremando come faceva da qualche tempo, come se quella cosa gli facesse male. In fin dei conti ci conoscevamo solo da qualche mese e io sentivo una grande compassione per lui e me ne vergognavo, avevo la precisa sensazione che non gli restasse altro che questo, nient’altro che la mia assoluta timidezza nel vederlo sparire giorno dopo giorno, nel vederlo lontano da ogni piccola cosa che non fosse una bugia per andare avanti, per credere che il medico non avesse dato l’aut aut da qui a poco tempo, perché la malattia cominciava a manifestarsi in maniera più decisa, e dopo quella cosa ai bronchi, potevano essere i reni, poteva essere il cuore.
Forse mi vergognavo di pensare che a Miquel non restava altro, e che non era lo stesso per me, perché non ero io il malato, e in segreto, vergognandomi, cominciavo già a cercare di allontanarmi da lui, dal pensiero della nostra vita insieme.
– Ti è piaciuto il paese? – mi disse dopo.
– Cazzo, non si vedeva niente.
Il mattino ci svegl...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nuovi Argomenti (41)
  3. DIARIO - Raffaele Manica
  4. ARGOMENTI - Andrea Inglese - UN ATEO NEL PAESE DEI CREDENTI
  5. NON ANCORA TRENTENNI
  6. SCRITTURE
  7. RIFLESSIONI SULLA LETTERATURA
  8. REPORTAGE - Elisa Davoglio - DEL MOTO PERPETUO, OVVERO BREVE STORIA DI UN ULTRA ROYALISTE
  9. Copyright