1 BARATTOLO DA 500 GRAMMI DI HÄAGEN-DAZS (MIDNIGHT COOKIES AND CREAM)
Meglio di niente.
Ma sì.
Le sorelle di Michele certamente capiranno che ho fatto male i calcoli, non c’era abbastanza salsa d’acciughe per tutti gli spiedini di mozzarella, una volta a tavola cercherò di fare io le porzioni per dare a loro quelli più aromatizzati: ma comunque se ne accorgeranno.
Forse non me lo faranno notare, perché dopo la rapina sono diventati tutti ancora più cari con me, ma se ne accorgeranno.
La pasta alla ricotta, poi, non è il massimo della fantasia, certo, però la torta alle noci è la preferita di mio suocero.
Ma sì: sempre meglio di niente.
È che mi manca il tempo, Dio mio, è come se scappasse, io lo rincorro, sto per prenderlo e quello di nuovo se ne va.
Oggi, per esempio.
Come è possibile che siano già arrivate le otto di sera, che io stia già apparecchiando la tavola, che fra mezz’ora, al massimo, Michele sarà qui, con i bambini e la sua famiglia?
Come è possibile?
Era solo l’una quando sono uscita dalla banca e sono andata a prendere Gustavo al nido.
Solo le due quando l’ho messo a riposare, dopo pranzo.
Solo le due e mezza quando ho fatto la spesa.
Solo le tre quando mi sono accorta che la tovaglia per stasera, quella grande con le api ricamate lungo il bordo, aveva bisogno di una rinfrescata.
Sempre solo le tre quando Gu si è svegliato.
Solo le quattro quando sono iniziati i “Teletubbies” e il pullmino della scuola ha riportato Viola a casa.
Solo le quattro e mezza quando Viola mi ha aiutata a preparare la torta e a sbattere le acciughe con la senape.
Solo le cinque quando è tornato Michele, e i bambini non se l’aspettavano, abbiamo voluto fargli una sorpresa, e: «Chi è che mi accompagna a mangiare un gelato da Parad Ice e poi in stazione a prendere i nonni e le zie?» ha chiesto lui, e loro ioioioioio, pazzi di felicità.
Adorano il gelato di Parad Ice, adorano i nonni, adorano le zie: adorano Michele.
Solo l’una, era solo l’una, erano solo le due, le tre, le cinque: e ora sono già le otto.
Meno dieci.
Dio mio.
Come si fa ad avere tempo per tutto quello che si ha da fare?
L’ho scritto proprio oggi, su facebook, appena Michele e i bambini sono usciti.
Del gruppo “Quelli della mitica B del Rousseau 1991-1996” era collegato solo Davide Morelli.
Speravo ci fosse Fulvio Renna, avrebbe commentato il post con una delle sue battute da morire dalle risate. Come gli vengono, mi chiedo – ce lo siamo sempre chiesto tutti. Una volta la Smith, la professoressa d’Inglese, lo aveva chiamato alla lavagna per interrogarlo e lui aveva risposto: «Ma scusi, non lo vede che sto ripassando Storia? Un po’ di rispetto: voi inglesi dovreste essere campioni d’educazione, no?». È uno così, Fulvio, imprevedibile, divertentissimo.
La sua ragazza per tutti e cinque gli anni era stata Paolina Catone, la più bella della classe. Non è iscritta al nostro gruppo, lei, sapevo che si era laureata in Legge, poi Giulia Fedrizzi un giorno ha scritto in un post che l’ha incontrata in metro, era più o meno sotto Natale, e che le ha raccontato (stanca, ha specificato Giulia, gliel’ha raccontato stanca) di avere sposato un ingegnere di Toronto e di essersi trasferita lì, in Canada.
Giulia le ha detto del nostro gruppo, ma Paolina niente: non si è iscritta.
Credo non si siano lasciati bene, con Fulvio.
Lei sembrava così innamorata.
Poveretta.
Continuo sempre a sperare che almeno non abbia mai saputo di quella notte al Circeo.
Ma no, come potrebbe.
Con Fulvio comunque, da quando c’è il gruppo, non ne abbiamo mai parlato. Giulia Fedrizzi era stata l’unica a sapere: ma anche lei, giustamente, fa finta di niente.
In fondo sono passati tanti di quegli anni.
– e chi lo sa, erica? ci vorrebbero giornate di trentasei ore!
mi ha risposto Davide Morelli.
Già. Ha ragione.
– o di quarantotto!
ho scritto io.
– forse invece bisognerebbe mandare tutto al diavolo e trasferirsi su una spiaggia alle hawaii, io adesso lavoro in un’agenzia turistica e tutti i clienti che ci sono andati mi dicono sia il posto più felice del mondo.
ha scritto lui. E ha allegato il videoclip di una canzone molto allegra, una specie di salsa, che non conoscevo. Se sapessi ballare, mi avrebbe messo voglia di farlo.
– mette voglia di ballare.
Io.
– mette voglia di prendere la vita come un hobby.
Lui.
Poi è squillato il telefono, era la madre della migliore amica di Viola, c’è un problema con una maestra, potrebbe essere trasferita in un’altra scuola e non ci vorrebbe proprio, i ragazzini le si sono talmente affezionati. Ha cominciato a parlare, poveretta, si agita così facilmente: è proprio una tragedia questa, diceva, noi genitori dobbiamo fare il possibile perché non accada, e io avevo il telefono in una mano, con l’altra ho scritto a Davide Morelli:
– perdonami, devo andare, buona serata.
e ho chiuso il collegamento.
Anche perché nel frattempo eccole: le otto.
E chi se le aspettava così presto. Dio mio. Con la tavola ancora da finire di apparecchiare, la doccia da fare, il vestito da scegliere.
Michele fa finta di no, ma ci tiene che non mi lasci andare.
Sei sempre la più bella, mi dice, però ogni tanto lo capisco benissimo che non lo pensa, o meglio: lo pensa ma non perché stia guardando me in quel preciso momento, lo pensa pensando alla fotografia che tiene sul display del cellulare.
L’ha scattata a Ferragosto di due anni fa, al lago: Gu fa una smorfia assurda, Viola un sorriso dolcissimo dei suoi, ancora più dolce perché due giorni prima era caduta dalla bici e le si era spezzato un incisivo. Io ho un vestitino stretto sul seno, che lo lascia intuire (ma non così aderente da fare saltare dritti i capezzoli: questo a Michele non piace, sono solo miei, dice), le ginocchia scoperte, ai piedi i sandali di cuoio chiaro che mi ha regalato lui tornando da un viaggio di lavoro a Milano.
Una fotografia a cui quando voglio posso ancora somigliare, e questa è una grande fortuna.
Non sarò stata la più bella della classe, come Paolina, ma forse è un bene, non so come dire: Giulia mi ha raccontato (in una chat privata, naturalmente, mica lo poteva urlare ai quattro venti) che quel giorno, sulla metro, le è sembrata proprio una donna qualunque e tutti i suoi difetti (la ricrescita castana che avanzava sulla tinta mogano, l’ombretto troppo pallido, il soprabito troppo largo) erano messi in evidenza proprio dalle cose che a sedici anni la facevano splendida (i riccioli lucidi che più maltrattava più si sistemavano da soli, attorno al visetto da bambolina, agli occhi d’inchiostro che mandavano segnali bui, pericolosi: scegli me, scegli me, scegli me, sembravano dire a tutto il mondo).
Insomma. Quelle che erano le più belle della classe a sedici anni e restano splendide anche dopo i trenta si contano sulle dita di una mano: sono quelle alla Tea Fidelibus, fanno le attrici, le ballerine, le modelle.
Mica sposano un ingegnere che le trascina, stanche, a Toronto.
Hanno la stranezza dalla loro: perché a sedici anni Paolina, Dio mio, era fantastica, sembrava avere inventato gli occhi, il modo di fare oscillare le braccia mentre si cammina, di tenere lo zaino. Ma non era strana, anzi, l’opposto: faceva sembrare strane tutte noi altre semplicemente per il fatto di NON essere Paolina Catone. Era un vantaggio il suo, lì per lì, era il, vantaggio. Eppure il tempo (sempre lui!, mentre sono già le otto e quattordici e sì, ok, vada per questo, con i fiorellini bianchi e i bottoncini lungo tutta la scollatura, Michele fra il primo e il secondo mi seguirà in cucina e mi sbottonerà i primi due, io gli dirò ma sei matto?, però mi farà piacere e comunque farà piacere a lui) se l’è presa con Paolina proprio per lo stesso motivo per cui noi le portavamo infinito rispetto, a scuola: non era una strana, lei. Somigliava a Kelly LeBrock nella Signora in rosso, le dicevano tutti. Tea Fidelibus a sedici anni sono certa non somigliasse a nessuno. Con quella faccia che non sta mai ferma, quegli occhi liquidi un giorno grigi un giorno acquamarina, quei capelli un giorno corti un giorno lunghi fino al sedere, somiglia solo a se stessa: e infatti non è diventata la moglie stanca di un ingegnere di Toronto, è diventata famosa.
Le strane fanno così.
Mangiano gelato a colazione, pranzo e cena, fanno l’amore mentre gli altri sono al lavoro, vanno in pigiama a fare la spesa (io l’ho vista una sola volta farlo, ma la cassiera in fondo a sinistra, che sa sempre tutto, mi ha assicurato che lo fa spesso: ed è proprio un pigiama! Senza dubbio: felpato, a quadretti rossi e blu).
Fanno come gli pare, insomma, le strane.
Noi altre, tutte, dobbiamo farci i conti: prima o dopo? Ragazzine meravigliose, che mentre vivono e basta non si preoccupano di una metro su cui saliranno da lì a vent’anni, stanche, e dove incontreranno un’ex compagna di superiori che osserverà (con una certa soddisfazione: va detto) la promessa infranta di quello splendore eterno, oppure donne piacevoli, che nella normalità del loro aspetto fisico fin da piccole, e con crescente astuzia, si impegnano a scovare due o tre particolari che un giorno, se ci metteranno un po’ di cura a prepararsi, faranno ancora esclamare al marito, sinceramente “sei sempre la più bella”?
Dobbiamo farci i conti tutte, noi altre.
Tea Fidelibus no.
Ha la stranezza dalla sua.
Ieri sulla Cronaca di Roma del “Corriere della Sera” ho scoperto che è sposata: non lo sapevo!
C’era un trafiletto in cui si annunciava che in un teatro occupato (da chi non lo specificavano, credo dagli studenti arrabbiati di qualche liceo: noi della mitica B ne sappiamo qualcosa perché per due settimane, in quinta, mi pare contro la guerra in Iraq o forse in Jugoslavia, ci eravamo rifiutati di fare lezione e avevamo proiettato vecchi film, organizzato dibattiti, do...