Il Re
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Il Re

  1. 140 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Chiuso nel palazzo settecentesco che da oltre un secolo appartiene agli Agnelli, l'avvocato, il vecchio patriarca, si prepara alla morte. Intorno a lui nessuno parla apertamente della gravità del male che lo sta consumando, ma lui sa bene di trovarsi ormai al crepuscolo. L'unico che non asseconda la menzogna è Giorgio, il giovane cameriere, e proprio con lui il re cede a un'insolita confidenza. Il passato lo assale con i volti e i lutti della sua lunga vita, contrasta la sua volontà di annullarsi, gli impone l'ultima occasione per conoscersi. Ma, guardando indietro, le imprese di ieri perdono qualsiasi tratto eroico e il regno, senza più discendenti, è privo di valore. Attraverso una delle figure più affascinanti del Novecento, italiano e non solo, Colombati scandaglia grandezza, miseria e solitudine del potere, ma soprattutto dipinge con tratto fermo e colori di ghiaccio l'incandescente groviglio di dubbi e rimpianti di un uomo, eccezionale eppure comune, di fronte all'ultima, decisiva sfida.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804605980
eBook ISBN
9788852036095

I

La preparazione

Tutto il saper stare al mondo di un uomo che ha avuto ogni cosa dalla vita non basta a saper morire con dignità.
Lui lo capiva, e ne era terrorizzato. Aveva ricevuto l’educazione, i soldi, la fama e la fortuna sufficienti per non doversi mai chiedere se un suo gesto, una sua parola lambissero la zona grigia in cui lo charme scolora nel semplice buon gusto (che aborriva). Ma non era sicuro se in quelle sere di gennaio – le ultime – quei doni gli sarebbero bastati. Sospettava che tutto si sarebbe deciso se avesse trovato dentro se stesso qualcosa d’eroico, e la trama di quel pensiero s’incrociò con l’ordito di un ricordo lontano: frequentava ancora con scarso profitto il liceo d’Azeglio, quando suo nonno, che coltivava l’ambizione della continuità dinastica, fece chiamare l’insegnante di latino e gli chiese: «Mio nipote è cretino o è pelandrone?». Il professore rispose che era solo un po’ pigro.
Il nonno, che era stato all’Accademia militare di Modena e s’era guadagnato le spalline di tenente del 3° Savoia Cavalleria, era un uomo che concepiva il dovere in modo arcigno: presenza costante al lavoro, orari prolungati, abnegazione. “D’altronde sono le persone poco mondane che fanno andare avanti un Paese” pensò l’uomo senza far caso alla retorica della sua voce interiore, una singolarità recente che all’inizio lo aveva sorpreso, poi infastidito. Ora se ne compiaceva e anzi l’incoraggiava sforzandosi di pensare come se stesse dettando le sue memorie a un biografo invisibile.
Torino, a quei tempi, era ancora una città vecchiotta, provinciale, fresca tuttavia di qualche garbo parigino. Il nonno, a trent’anni, se ne stava al caffè e ammirava assieme agli altri curiosi le prime autovetture che circolavano in città. Allora il commercio delle vetture in Italia si svolgeva a Milano, che si procurava châssis dalla Germania con motori Benz di Mannheim che alcune officine poi carrozzavano. Nel 1899, il patriarca della Famiglia e un meccanico di Cuneo brevettarono un loro modello. “Si chiamava Welleyes, credo” continuò a rievocare. “Fu da quella macchina che partì tutto, quattro anni prima che Henry Ford mettesse su bottega a Detroit. Dopo la Seconda guerra mondiale aprirono una pratica di epurazione per valutare il passato del nonno. Ma lui non era mai stato un nazionalista né un fascista. Non foraggiò mai le Camicie Nere. Diceva che erano dei gran buffoni e prendeva in giro i fez con la frangia. Certo, dovette scendere a patti con Mussolini. Ma cos’altro avrebbe potuto fare?...”
Prima dell’attacco di panico – il secondo – i cancelli del Castello avevano iniziato a cigolare nei loro gangheri; e mentre si aprivano con enorme lentezza nella luce decrepita e aumentavano la curiosità e la paura, lui, che sbirciava attraverso la fessura e già poteva riconoscere i primi funghi colorati che crescevano tra i macchinari dell’officina, tenuti insieme da una gigantesca ragnatela di polvere, aveva sentito venir meno l’unica cosa che gli dava sicurezza: la certezza di essere lì, potente e invulnerabile, consacrato alla sorte di vivere la propria vita per conto della Nazione; in altre parole, insensibile ed eterno come un idolo o un corpo glorificato. E via via che il Castello sguarniva le proprie difese rivelando al suo interno non i bei giardini all’italiana ma gli enormi e cadenti padiglioni per il trattamento delle scocche e le catene di assemblaggio, e dunque risultava sempre più evidente che il tempo non aveva soggiaciuto al suo sortilegio (ebbene sì: anche la sua era una Storia, aveva un inizio, c’era stata una Famiglia prima di lui, qualcuno aveva messo su la baracca assieme a un venditore di biciclette, a un banchiere svizzero e a un manipolo di setaioli), poco prima dell’attacco di panico – il secondo e il più grave –, si era sorpreso a passare in rassegna le settantatré auto con motore biblocco a quattro tempi e radiatore a nido d’ape che il nonno aveva prodotto all’inizio del secolo scorso; le trattrici, gli autocarri e i blindati che nell’inverno del 1930 erano stati ordinati dal ministero della Guerra e, fuori dal capannone, sotto una pioggia che apriva minuscoli crateri morti nella terra appiattita dal passaggio di milioni di pneumatici, neri e inquadrati come quattro grandi serre di giacinti, i sedicimila operai a libro paga vestiti di stracci, come animali più vecchi dell’acqua, sferzati da ondate di polvere provenienti da un tempo mitico, accartocciati sulle loro ernie e scossi dalla polmonite, gli occhi spalancati come per un impulso improvviso di sconfinata gratitudine.
Ciò che più segretamente inorgogliva il malato – perso nella voluttuosa discesa della pianta famigliare – era la circostanza che in fabbrica, in quegli anni, vigesse la giurisdizione militare. L’occhio si chiuse per contenere la visione di certe scocche color ferro che aveva potuto sfiorare con le dita di bimbo prima che venissero deposte in qualche magazzino in attesa di un museo. Poi, quella perfetta e sensuale rievocazione di un passato che non gli era appartenuto ma che gli scorreva nelle vene si guastò, come sempre, con l’insorgere della temuta sfilza di cause di questo, ragioni di quell’altro e motivi per cui. “Al nonno imputarono il balzo delle azioni nel ’17: dicevano che stava facendo i soldi sul sangue dei soldati; ma se non li avesse fatti lui, sarebbe toccato – e volentieri – all’Itala o alla Züst.”
Descrivevano il commendatore come un valoroso ex capitano d’industria infiacchitosi a forza di tentar la fortuna nel campo delle speculazioni più temerarie, nei giochi di Borsa più pericolosi, ormai completamente assorbito dalle manovre ciniche dei gruppi di banchieri che si assaltavano a vicenda per parare i colpi minacciosi del nemico. Ma, ammesso che tutto ciò fosse vero, di chi era la responsabilità?, si domandava il nipote, per cui il mondo ideale avrebbe dovuto somigliare a una fabbrica dove la materia prima o semilavorata, senza interruzione e senza ritorni, potesse procedere dal semplice al complesso in un flusso costante e continuo verso il prodotto finito.
Una scossa elettrica alla schiena, proprio all’altezza dei reni, lo sollevò dal letto come un fachiro. Un’altra manifestazione dell’imbarazzante spettacolo di un sovrano al crepuscolo, costretto a smentite sempre meno convincenti, meno credute. Secondo i cinesi, è invulnerabile l’uomo che non ama nulla. Ma lui sapeva che portare il suo nome era sempre stato come rivendicare un modo esatto di crollare. La discesa nel profondo esigeva il silenzio: come ottenerlo se dal profondo emergeva come un urlo la dolcezza indicibile del suo nome, l’unico grande affetto della sua vita?
A quel nome, poi, si attaccavano schegge del passato che come parassiti divoravano la sua aspirazione all’assoluto, la volontà di annullarsi una volta per tutte. Ora gli ritornava l’immagine di quando, da bambino, aveva visto Mussolini. C’era stata l’adunata nel cortile della fabbrica, il nonno indossava il tight, era il 1932. “Il duce arrivò a bordo di un’Alfa e la cosa fu considerata di pessimo gusto.”

Soltanto tre settimane prima, dalle vetrate della camera da letto, l’uomo – un vecchio che avrebbe voluto prepararsi non troppo malvolentieri alla morte – poteva ammirare un cielo turchino, duro, come raramente accade in dicembre sulle colline intorno alla città. Ormai gli occhi non ci vedevano più tanto bene e il profilo innevato del monte Albergian gli appariva come un abisso vezzeggiativo, mentre la televisione, in fondo alla stanza, informava sugli ultimi sviluppi della sua resa. Le pupille atrofizzate riuscivano solo a indovinare strette di mano fra uomini in cravatta che non gli sembrava di conoscere.
Era uno stato, il suo, che si confaceva al modo in cui per tutta la vita aveva affrontato i momenti critici: quanto più gli eventi erano tragici, tanto più forti erano la reticenza e l’omissione. Una forma temporanea e squisita di cecità, o perlomeno una sorta di restrizione di campo. Sapeva che non gli sarebbe mai stato possibile conoscere la verità senza ombre.
Più giù, lontana oltre la valle, nella luce rarefatta dell’inverno, stava Torino, dove proseguivano gli incontri tra gli americani e i suoi amministratori per la vendita dell’Azienda di famiglia. I cowboy gli avevano già pagato il venti percento delle azioni in cambio del cinque percento delle loro. Il rimanente ottanta percento avrebbe dovuto essere ceduto entro un anno, ma sul prezzo s’era accesa la battaglia. Era una trattativa difficile – che doveva andare avanti in mezzo a licenziamenti di massa, scioperi e manifestazioni di protesta – e lui non poteva condurla personalmente. La cosa non gli dispiaceva, anzi. Aveva scelto la strategia della vendita differita proprio perché non voleva essere lui a firmare la resa della Famiglia. Avrebbero dovuto aspettare la sua morte.
Nel momento in cui il sole calava dietro il crinale e la luce all’interno si riduceva a quella di un antico candeliere, l’uomo avrebbe potuto distinguere i tratti della sua persona dentro al televisore, com’erano trent’anni prima. Ma c’erano altre faccende da sbrigare: il dolore era così forte da anestetizzare un dolore più forte, che lo accompagnava da quasi tutta la vita. Avrebbe pagato oro qualche minuto d’oblio, per riuscire ad annoiarsi ancora. Ma poi si ricordava di quanto la detestasse, la noia, la sola vera nemica della sua vita: “È stata una battaglia quotidiana” si sorprese a pensare, “e talvolta credo di avere esagerato come un generale troppo innamorato della tattica”.
Da qualche parte della stanza, nascosto dalla luce, Giorgio forse gli stava dicendo qualcosa; ma la voce del giovane cameriere era solo un’onda sonora immersa nel silenzio carico di presagi. Entravano in camera sua senza più bussare.
Un tempo, quando guidava saldamente la quinta casa automobilistica del mondo, “Paris Match” scriveva di lui che ricordava l’effigie di un condottiero e “Life” intravedeva in lui la fisionomia di Giulio Cesare. Il suo volto era finito sulla copertina di “Newsweek”, sopra un titolo che recitava: Il primo industriale d’Europa. “Stern” lo definiva l’ultimo signore d’Italia, Fellini disse che aveva l’aspetto di un re. Era stato amico di John Kennedy e Nikita Chrušcˇëv, di Rothschild e Fidel Castro, di Andy Warhol e Truman Capote. Negli anni del suo massimo fulgore, a chi lo conosceva sembrava un uomo che viveva in un mondo con una luce e delle tenebre che appartenevano a lui soltanto. Adesso era solo un ottantaduenne in chemioterapia.
Per celebrarlo, in televisione stavano rievocando i suoi successi sportivi: il calcio, la vela, l’automobilismo... Gli tornarono in mente certe domeniche in cui suo padre lo portava alla partita. Qualche volta andavano anche alle corse di cavalli e in giugno al Sestrière. Ma più spesso, quel riluttante genitore era impegnato in schermaglie amorose: per la verità, non aveva mai voluto bene a nessuno.
L’ultima volta che lo vide era la fine di un mattino di luglio del 1935 sulla spiaggia di Forte dei Marmi, ai tempi in cui tutti si vestivano di bianco, le donne svenivano spesso e le racchette da tennis pesavano un chilo. Gli adulti stavano finendo di mangiare sotto una tenda, i tre fratelli più piccoli erano seduti sulla sabbia in cerchio, attorno a Mrs Parker che cantava la filastrocca dei tre topolini ciechi. Le due sorelle maggiori sfogliavano insieme le pagine di un libro, alle prese con le segrete trame dell’adolescenza. Lui – che all’epoca aveva quattordici anni – faceva finta di dormire sdraiato su un divano a dondolo, coi suoi bei pantaloni di tela rimboccati fino ai polpacci e una paglietta sul naso. Fantasticava sulle cose strane che avvenivano nei capanni di falasco disseminati casualmente al confine tra la spiaggia e la pineta, e sperava di parteciparvi al più presto.
Il giorno prima, nella piazza del paese, aveva visto la figlia della fioraia montare in bicicletta e schivare a tutta velocità i ragazzini che giocavano a rimpiattino attorno alla pompa (che faceva da piomba). E gli era venuta voglia di seguirla, non perché gli piacesse – era decisamente brutta e poi qualcuno (ma chi?) gli aveva detto che crescendo era diventata cattiva –, ma in base allo stesso impulso che spinge un possidente a mettersi dietro a uno scoiattolo che zampetta impaurito nella sua tenuta o a percuotere una delle sue querce con una canna di bambù. La bambina – quanti anni poteva avere? undici? dodici? Lui sapeva che il padre era vecchio e che aveva perso la vista nella guerra di Libia –, la bambina a quel punto aveva già preso il lungomare superando le Balilla parcheggiate davanti alla Capannina con lo sguardo basso sui pedali, e stava volando verso Marina di Pietrasanta senza accorgersi di quel ragazzo grazioso ma subdolo che arrancava cinquanta metri dietro di lei.
Se l’avesse visto l’avrebbe riconosciuto: tutti sapevano chi era. Alla domenica la messa non cominciava finché non arrivava – sempre con qualche minuto di ritardo – assieme alle sorelle con le gonne lunghe, gli scialli colorati e gli zoccoli olandesi. Non avrebbe mai creduto possibile che quel figlio di ricchi la volesse controllare mentre s’inoltrava nei viottoli della pineta della Versiliana con le guance in fiamme per un appuntamento – il primo – con Aurelio, il fabbro campione di “mastro”. Era un gioco in cui si doveva lanciare una piastra contro un blocchetto di marmo rettangolare su cui venivano messe le monete. Bisognava colpire il blocchetto, anche da una distanza di trenta metri, per farlo schizzare più lontano dai soldi rispetto alla piastra tirata. Aurelio era il giocatore più giovane, ma nonostante l’inesperienza vinceva quasi sempre.
Lo aveva visto arrivare da un sentiero di ghiaia e affiancare la bambina. Insieme erano scomparsi dietro l’ombra di un pino che tagliava la strada in diagonale, e lui si era alzato sui pedali per riuscire a vedere, ma i due erano stati inghiottiti dal buio. Non sapeva chi fosse; non lo aveva mai visto prima. Ma aveva provato un’invidia che si ripresentava intatta e misteriosa anche il giorno dopo, in quel sonnacchioso mattino sulla spiaggia.
Distante qualche passo dal dondolo, una poetessa tedesca, che d’inverno trafiggeva i cuori e i denari dei salotti fiorentini, tirava di scherma in calzoni neri alla zuava, camicia a quadrettoni e cravatta blu cielo, fingendo di credere agli arretramenti di un principe baffuto. Il ragazzo aprì un occhio e guardò a monte, dove le piatte dune di sabbia coperte dal prunaio grigioazzurro cedevano alla pineta. Dietro emergeva il profilo neorinascimentale della villa di famiglia sullo sfondo delle Alpi Apuane.
Più nomi sono vantaggiosi per un’unica idea; e quelli che gli venivano in mente in quel momento erano molti ma non rendevano l’idea. Quale? Non riusciva a capirlo. Era qualcosa di vago e di triste, ma scomparve subito quando suo padre venne loro incontro nella luce, baciò sulla fronte i figli – anche Giovanni, che finse di svegliarsi – e scomparve nella carlinga dell’idrovolante che scintillava a riva con guizzi argentati. Erano anni in cui lungo la costa era ancora disponibile una certa luce. Quando decollò, il sole sfocò il profilo dell’aereo e le goccioline d’acqua ricaddero come squame. Tutti corsero d’istinto verso la battigia a fare ciao con la mano. Poi tornarono ai giochi e alle tazze di tè, mentre l’idrovolante puntava deciso verso nord-nordovest, sfumando contro il promontorio di Porto Venere – un enorme ippopotamo a mollo nel mare a ponente del golfo di La Spezia.
Dissero che quando l’idrovolante apparve nel cielo di Genova preparandosi per l’ammaraggio fece due giri a bassa quota, poi iniziò la discesa. I galleggianti sbatterono contro una boa, il pilota fu sbalzato fuori dall’abitacolo, l’unico passeggero fu arso vivo dalle fiamme.

Si risvegli...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il Re
  3. I. La preparazione
  4. II. Pamela
  5. III. La passeggiata
  6. IV. «Tutto tranne l’irresponsabilità»
  7. V. La fine
  8. Nota
  9. Copyright