Miriam Larsson spostò cautamente la tenda e appoggiò un gomito al davanzale della finestra. L’erba era stata tagliata da poco. Il muschio era fiorito lungo la siepe punteggiandola di piccoli batuffoli rosa, lilla e bianchi. Il pisello odoroso era appena sbocciato lì accanto e si arrampicava sul graticcio, diramandosi in tutte le direzioni. Era stata un’estate calda, ma della siccità non si vedeva traccia nel giardino ben curato.
Miriam si sporse ancora di più fuori dalla finestra. Riusciva a vedere il prato del vicino oltre la siepe. Scosse lentamente la testa quando vide i ciuffi d’erba gialla in disordine e le aiuole dove i fiori crescevano a caso. Si chiese cosa avrebbero detto Bibi e Jan-Åke se avessero visto il loro giardino in quell’istante. Probabilmente niente. Si erano lasciati Sävesta alle spalle.
Erano passati sette mesi da quando erano partiti. Le avevano spedito una cartolina con il nuovo indirizzo e poi non si erano più fatti sentire. Le sembrava strano. Avevano fatto parte della loro vita quasi quotidianamente e poi, da un momento all’altro, avevano tagliato i ponti. Aveva sempre considerato Bibi un’amica, la sua migliore amica. Alla fine dei conti, invece, erano solo vicine di casa.
Grattò con cautela il vetro con l’unghia. La piccola macchia di sporcizia che aveva notato si staccò subito, lasciando però una traccia. Alitò sul vetro e afferrò un angolo del grembiule per strofinare via l’alone. Quando non si vide più nulla, il suo sguardo scivolò di nuovo verso la casa dei vicini.
Jan-Åke aveva ricevuto un’offerta di lavoro a Hudiksvall. Bibi aveva detto che quella era l’ultima occasione. L’ultima chance di avere la sensazione che nella loro vita potesse succedere ancora qualcosa. Così tipico di Bibi.
Miriam sentiva la sua mancanza. Prima del trasloco si erano incontrati meno del solito, si capiva che i vicini avevano la testa altrove. Alla fine, quando le avevano detto che sarebbero partiti, Miriam aveva quasi tirato un sospiro di sollievo. Per un attimo aveva temuto che ci fosse qualcosa che non andava. Si era chiesta più volte se avesse detto o fatto qualcosa di inappropriato. Non l’aveva nemmeno sfiorata il pensiero che Bibi e Jan-Åke stessero pensando di trasferirsi.
Sentiva anche la mancanza del lavoro. Non che le fosse capitato spesso di dare una mano a Bibi in negozio, ma le giornate trascorse con lei avevano dato un senso alla sua esistenza. Erano il pretesto per allontanarsi dalle mura domestiche in via dei Mirtilli per alcune ore. A volte capitava persino che aspettasse con trepidazione il momento di andare alla Bottega dei regali di Bibi, come se fosse una festa e non un impegno di lavoro. Le piaceva ricevere i clienti e consigliarli, mostrare loro un sapone al delizioso profumo di lavanda o un portasciugamani in smalto decorato con una fila di oche. Capitava raramente che i clienti sapessero cosa volevano quando entravano nel negozio. Se qualcuno aveva in mente un regalo in particolare, andava in libreria o comprava un disco. Alla Bottega dei regali di Bibi si andava per cercare ispirazione.
Adesso però era finita. Bibi aveva venduto il negozio quando si erano trasferiti. Era stato rilevato da una giovane coppia che aveva trasformato il piccolo locale in una rivendita di tè e caffè. Miriam non era ancora entrata, ma di solito lanciava un’occhiata quando ci passava davanti. Era sempre vuoto, e non era poi così strano. Il caffè si poteva comprare al supermercato del centro commerciale, e poi quanti intenditori di tè ci potevano essere a Sävesta? La Bottega dei regali di Bibi era un’altra cosa. Per un negozio di quel tipo ci sarebbero sempre stati clienti. La gente non avrebbe mai smesso di compiere gli anni, sposarsi o diplomarsi. E Natale e Pasqua arrivavano ogni anno.
Per un certo periodo Miriam aveva pensato di portare avanti l’attività da sola, ribattezzando il negozio La Bottega dei regali di Miriam e cominciando a lavorare a tempo pieno. Ne aveva parlato con Frank. Suo marito non aveva detto di no, ma quando le aveva spiegato che avrebbe dovuto chiedere alla banca un prestito di più di un milione di corone per rilevare la licenza, il magazzino e il locale, lei ci aveva ripensato. Un milione di corone erano parecchi soldi. E poi c’era anche un’altra cosa. Non era più una ragazzina, come Frank le aveva fatto gentilmente notare. All’inizio c’era rimasta un po’ male, ma più ci pensava più si rendeva conto che aveva ragione. Di lì a qualche anno sarebbero stati sessanta, non era il momento giusto per cimentarsi in qualcosa di nuovo.
Miriam sospirò e lanciò un ultimo sguardo al giardino trascurato dei vicini prima di raddrizzarsi, rimborsare le tende e legarle con il nastro. Sperava proprio che l’agente immobiliare trovasse in fretta un acquirente, in modo da ristabilire l’ordine. Le case non dovevano restare vuote, altrimenti andavano rapidamente in rovina.
Guardò l’orologio. Le undici e un quarto. La strada era deserta. Probabilmente era l’unica a casa in tutto il quartiere. I bambini erano a scuola e la gente al lavoro. A parte Ellinor Hauge, naturalmente. A proposito: di lì a poco sarebbe dovuta comparire. A quell’ora di solito passava di lì con il passeggino. Miriam si sporse di nuovo fuori dalla finestra per vedere meglio la strada. Eccola là. Aveva le guance arrossate e camminava a passo spedito. Spingeva il passeggino con una mano e teneva l’altra premuta contro l’orecchio. Ci vollero alcuni secondi prima che Miriam capisse che probabilmente stava parlando al telefono. Che peccato. Le sarebbe piaciuto fare quattro chiacchiere, e magari invitare la giovane vicina a prendere un caffè, ma Ellinor sembrava occupata e non era il caso di disturbarla. Avrebbero chiacchierato un’altra volta.
Miriam si allontanò dalla finestra. Per un po’ rimase indecisa sul da farsi, poi andò ai fornelli e prese da una mensola la confezione del caffè Melitta. Avrebbe fatto in tempo a berne una tazza prima di affrontare l’impasto che stava lievitando sul ripiano della cucina.
Ellinor chiuse il cellulare e se lo infilò in tasca. Era di cattivo umore. Come al solito Louise non faceva che chiacchierare del suo lavoro. Questa volta si trattava di un viaggio per il congresso dello studio legale, che si teneva ogni anno in Florida. Avere la possibilità di partecipare era molto importante. L’aveva sottolineato almeno dieci volte. Significava che lo studio puntava su di lei.
Ellinor si era sforzata di sembrare contenta per l’amica, ma in realtà avrebbe voluto riattaccare. Non capiva perché Louise insistesse a chiamarla. Non erano mai state particolarmente intime. Forse non c’erano abbastanza persone nella sua ristretta cerchia di amicizie con cui vantarsi continuamente? Le domande che rivolgeva a Ellinor erano sempre di circostanza e prevedevano una risposta rapida. «Allora, ti trovi bene a casa?» «Come sta Wille?» «E il bambino?» Diceva sempre “il bambino”, come se non riuscisse assolutamente a ricordare che si chiamava Albin. Inoltre pronunciava quella parola come se si trattasse di una malattia mortale e non di un bebè di dieci mesi con il sorriso più bello del mondo.
Cercò di scrollarsi di dosso l’irritazione che le aveva provocato quella telefonata. Si era addentrata nel bosco oltre il quartiere delle ville e, quando scorse una panchina lungo il sentiero di ghiaia, si sedette per fare una breve pausa. Guardò Albin, che si era appena svegliato. Quando vide la sua mamma, allungò le braccia verso di lei con un sorriso così largo che le guance rosa si fecero ancora più rotonde.
«Ti sei svegliato, piccolino?» Si chinò e strofinò il naso contro quello del bimbo. Albin gorgogliò soddisfatto e tentò di tirarsi su. Ellinor lo aiutò, sollevando il sedile del passeggino, poi si accovacciò accanto a lui. «Hai fame? Vuoi un pezzetto di banana?» Albin rispose con un verso che, con un po’ di buona volontà, si sarebbe potuto interpretare come “nana”, e cominciò ad agitare le braccia, al punto che Ellinor fu costretta a ritrarsi per non prendere uno schiaffo in pieno viso. Si mise a ridere. «Calma, adesso te la do!» disse prendendo il frutto dalla borsa appesa al passeggino. Non appena gliene diede un pezzo, il bimbo cominciò a mangiarlo di gusto.
Ellinor si alzò e ricominciò a camminare spingendo il passeggino. Procedeva a lunghe falcate, cercando di fare un po’ di stretching mentre saliva l’ultima china. L’allattamento le aveva fatto perdere molti chili, sebbene non facesse movimento, se si escludevano quelle passeggiate. Da quando si erano trasferiti a Sävesta aveva pensato di ricominciare con l’attività fisica. Se non altro, un’ora alla settimana in palestra sarebbe stata una scusa per uscire di casa ogni tanto.
Camminando, Ellinor era tornata in via delle More, la strada che circondava il loro quartiere. Alcune auto le passarono accanto mentre superava a passo svelto gli incroci con via dei Lamponi, via del Sorbo e via dei Ribes. “Che fantasia!” pensò Ellinor. Qualche creativo del Comune doveva proprio essersi spremuto le meningi quando avevano costruito quel quartiere. Si chiese quante idee fossero state scartate prima di arrivare ai frutti di bosco. Avevano pensato anche agli uccelli? E a pesci, mammiferi, cibi, malattie veneree...? Probabilmente no.
Arrivata in via dei Mirtilli, girò a destra e imboccò via delle Ville. Le costruzioni ai lati della strada, con i loro giardini ben tenuti, sembravano case di bambola. Alcune erano in mattoni bianchi, altre in legno, una o due erano dipinte con tenui colori pastello. E poi al numero nove, in fondo alla strada, c’era la loro, con la facciata gialla di legno e gli infissi bianchi.
Erano stati fortunati perché avevano un giardino d’angolo. Era il più grande della strada, sebbene non fosse proprio in buone condizioni. Le aiuole erano per metà coperte di erbacce, mentre le piante di ribes avevano dato pochi frutti. Lei e Wille avevano visto diverse case nella zona prima di decidersi. Ce n’erano anche di più economiche, ma lei era contenta che avessero aspettato. La casa era malconcia. Non erano stati fatti lavori di manutenzione dall’inizio degli anni Ottanta, però era costruita con materiale solido. In giardino gli alberi da frutto avevano tronchi forti e nodosi.
Era veramente innamorata di quella villetta. Le tre camere da letto erano disposte in fila e si affacciavano sul retro. Dalla loro stanza potevano uscire direttamente sul prato. Durante l’estate, nelle notti più calde, avevano dormito con la portafinestra aperta. Dalla parte opposta della casa c’erano la cucina e un soggiorno luminoso, con un bel camino al centro.
L’arredamento era un miscuglio piuttosto variegato di mobili ereditati, di seconda mano e Ikea, che avrebbero pensato a sostituire un po’ alla volta. Il primo passo era stato comprare la casa. Quando lei avesse ripreso a lavorare, ci sarebbero stati più soldi a disposizione. A ogni modo, avevano sistemato la cucina. L’agente immobiliare si era quasi scusato perché il pavimento di linoleum era crepato e il piallaccio si era staccato dagli angoli degli sportelli degli armadietti. Avevano sostituito tutti gli armadietti, rivestito il pavimento di piastrelle e comprato un nuovo frigorifero e un nuovo congelatore.
Negli ultimi tempi Wille aveva cominciato a dire che voleva sistemare la camera di Albin. Il bimbo dormiva ancora nella loro stanza, in un lettino con le sbarre, ma prima o poi avrebbe avuto bisogno di uno spazio tutto suo. Avevano pensato di comprare la vernice e cominciare a dipingere le pareti già durante il fine settimana. Se ne avessero avuto la forza. Ellinor aveva già trovato su Internet diverse carte da parati per bambini. La più bella era verde chiaro con dei piccoli dinosauri gialli, ma era costosa, quasi settecento corone al rotolo. Forse avrebbero scelto qualcosa di più economico.
Ellinor era arrivata in fondo alla strada e svoltò verso la casa gialla nello stesso istante in cui Albin mostrò chiaramente di essersi stancato di stare fermo. Lo aiutò a tirarsi su. Il bimbo cercò di puntellarsi al passeggino con le gambe vacillanti, poi qualcosa attirò la sua attenzione.
«Là! Là!» urlò, indicando un’altalena appesa al ramo di un albero di mele.
«La mamma non può prendersi una pausa dopo aver camminato così tanto?»
«Là!» Albin si girò e le rivolse uno sguardo così implorante che Ellinor scoppiò a ridere.
«Va bene, ma solo per un attimo. Poi dobbiamo andare a mangiare.» Lo prese in braccio e si avvicinò all’albero di mele. Dopo averlo sistemato sull’altalena, afferrò il seggiolino e lo tirò indietro più che poté, poi lasciò la presa. Albin sgambettava dalla gioia, la sua risata riecheggiava per tutto il giardino. Ellinor continuò a spingere l’altalena fino a quando il piccolo cominciò a ridere a crepapelle.
Chiuse gli occhi per un breve istante. Era semplice immaginare quella scena vista dall’esterno. La casa e gli alberi di mele, la mamma e il bambino felici. All’improvviso sentì le lacrime bruciare dietro le palpebre. Sbatté gli occhi e si asciugò il viso col dorso della mano, poi sorrise rivolta al piccolo sull’altalena. Si poteva desiderare di più dalla vita?
«Ecco fatto. Che ne dice?»
«Bello, bellissimo!»
«Prima li ho accorciati leggermente, come le dicevo, poi li ho scalati ancora un po’, per rendere il taglio più vivace. Spero che sia soddisfatta.» Nina abbassò lo specchio e lo appoggiò sul ripiano davanti alla poltrona, poi sbottonò la mantella grigio argento della cliente e spazzolò via qualche capello che si era insinuato nella scollatura.
«Grazie!» disse la ragazza rivolgendole un sorriso. Era una nuova cliente. Una bella ragazza, sui venticinque anni. Si era presentata con i capelli lunghi fino alle spalle, colpi di sole fatti in casa e una frangia con la ricrescita. Nina le aveva suggerito di accorciare il taglio ed era stata di sicuro una buona idea. I capelli adesso avevano più volume e sembravano più forti e folti. Di solito era un problema perché le ragazze con i capelli lunghi erano ossessionate dai centimetri. Come se la lunghezza fosse l’unica cosa che contava. Nina sogghignò. “Lo sanno tutti che è la larghezza la cosa più importante” non poté fare a meno di pensare.
Si diressero alla cassa e Nina prese la banconota da cinquecento corone che la giovane donna le stava porgendo.
«Vuole prendere appuntamento per la prossima volta?»
«No, grazie. Mi farò sentire quando sarà il momento.»
«Okay.» Nina sorrise. «Spero che sia soddisfatta.»
«Sì, certo.»
Si salutarono e il campanello sopra la porta suonò quando la ragazza uscì. Nina la seguì con lo sguardo attraverso la grande vetrina, poi tornò alla sua postazione. Era ora di mettere a posto prima di andare. Prese la scopa e cominciò a raccogliere i capelli sparsi in piccole ciocche sul pavimento, poi si slacciò la cintura da lavoro, da cui pendevano forbici e pettini, e la mise nel cassetto sotto la specchiera.
A dire il vero sarebbe dovuta uscire con Camilla. Da tempo parlavano di passare una serata insieme. Avevano progettato di bere qualcosa a casa dell’amica, uscire a cena e magari andare persino a ballare al Kronan. Nina però aveva disdetto con la scusa di un raffreddore. Camilla si era arrabbiata ugualmente, dicendo che aveva comprato un abito nuovo per l’occasione. A quelle parole Nina si era quasi pentita ma, che diamine!, Camilla non poteva mica obbligarla a uscire solo perché aveva comprato un vestito. Le aveva proposto di vedersi la settimana seguente e Camilla aveva detto che ci avrebbe pensato.
Di solito le piaceva uscire, ma negli ultimi tempi aveva sempre più voglia di restare a casa. Probabilmente non era saggio. Se avesse smesso di uscire, sarebbe rimasta sola per il resto dei suoi giorni. Non che morisse dalla voglia di trovare un uomo. Di solito non era un problema soddisfare i bisogni più urgenti, e comunque a farle compagnia c’era il figlio Mattias, che viveva ancora a casa con lei. Di lì a qualche anno però se ne sarebbe andato e lei sarebbe stata più vicina ai cinquanta che ai quaranta. Non le piaceva l’idea di restare da sola in una villetta di mattoni bianchi aspettando di morire.
No, doveva darsi una mossa, ma non quella sera. Mattias aveva la lezione di judo e lei avrebbe avuto la casa tutta per sé. Gli aveva dato i soldi per comprarsi una pizza dopo l’allenamento, quindi non avrebbe nemmeno dovuto preoccuparsi di preparargli la cena. A lei sarebbero bastati una tazza di tè e qualche tramezzino, poi si sarebbe presa cura di sé. Forse avrebbe fatto un bagno, si sarebbe passata la lima sotto i talloni e avrebbe steso lo smalto sulle unghie. Solo il pensiero di immergere i piedi doloranti in un bagno caldo le procurava brividi di piacere lungo la schiena.
Nina entrò nella stanza del personale. Prese la sua borsa, salutò Maggan e Robert e uscì dal salone di bellezza.
Per strada indugiava ancora un calore estivo, nonostante fossero le sei del pomeriggio e agosto stesse per cedere il passo a settembre. L’autunno stava arrivando, anche se era difficile crederlo in una serata come quella. Una volta tanto non le pesava l’idea che l’estate stesse per finire, forse perché era tornata da poco da una lunga vacanza. Cinque settimane, di cui tre in Grecia. Non avrebbe avuto un solo giorno libero durante l’autunno e a Nat...