
- 328 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Colazione a Brooklyn
Informazioni su questo libro
Tim e Kate Welch conducono un'esistenza felice: lui è uno stimato professore di storia nell'esclusiva scuola privata di Brooklyn Heights, lei si occupa dei figli e della casa, tentando di essere quella mamma perfetta che non ha mai avuto. Fino al giorno in cui Kate non decide di accettare un'inattesa e superpagata offerta di lavoro e Tim prende un anno sabbatico per seguire i figli e completare la tesi di dottorato che sta trascinando da anni. Una brusca inversione di ruoli, non c'è che dire, cui fa seguito il trasloco nel quartiere dell'affascinante Anna Brody, una donna ricca e misteriosa, che trascina nel suo mondo di privilegi ed eccessi i coniugi Welch..
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Informazioni
Print ISBN
9788804615545eBook ISBN
9788852039041PARTE QUARTA
Tim
Io ti darò un fine settimana.
Sei semplici parole allineate l’una dopo l’altra per formare una semplice frase. Ma che cosa significava? Passai buona parte del mese di gennaio a sezionarla.
Io...
Non disse: “Io posso”. Oppure: “Io potrei. Io potrei/dovrei/non posso/non sono/non ho”. Oppure: “Mai, neppure in un milione di anni...”.
No, disse: “Io...”.
Voleva dire?
“Io, Anna Brody...”
... ti...
Dal momento che me l’aveva bisbigliato all’orecchio, era riferito proprio a me. E questo mi portava a chiedermi: “Perché io?”. Ovvio, le ero stato d’aiuto. Ero stato un amico. Avevamo parlato a cuore aperto. Ed ero molto bravo con Sophie. Quindi sì, mi meritavo un biglietto di ringraziamento, forse una cravatta di Armani o un cesto di frutta e formaggi. Avrebbe potuto regalarmi una scatola di biscotti natalizi! Ma offrirmi...
... darò...
Come un regalo. O come il detto: “È meglio dare...”.
... un fine settimana.
Ma in che senso? Noi due soli? Stare da soli nei due giorni che formano un fine settimana? A che cosa stava pensando Anna Brody? Ammesso che stesse pensando. Dovevo prendere sul serio la sua offerta? Stava certamente scherzando. Oppure era un gioco? Una provocazione?
A dire la verità, non ebbi modo di scoprire se faceva sul serio, perché il giorno dopo il nostro curioso incontro nel reparto alimentari del Garden of Eden di Montague Street, Anna Brody lasciò il paese con il marito e la figlia per un viaggio all’estero.
Così, per il momento, rimasi tutto solo a chiedermi che cosa intendesse dire. Cercai di scacciare la sua offerta dalla mente, di andare avanti con la mia vita, eccetera. Ma troppo spesso facevano capolino casualmente pensieri su Anna Brody, soprattutto mentre lavoravo alla tesi. Se la sua intenzione era di invadere la mia vita quotidiana, c’era riuscita. Mio malgrado, le sue parole e il modo diretto e quasi disperato in cui le aveva pronunciate, non si limitavano a persistere nella mia mente, ma avevano messo radici profonde.
Si spiega così, almeno in parte, il contenuto della seguente lettera.
13 gennaio, ore 3.13Caro Coach,il più grande dono che possiamo fare ai nostri genitori è quello di non ripetere i loro errori. Sei d’accordo? Suppongo di sì. Quindi puoi farmi un favore? Per piacere, fai un elenco dei tuoi dieci errori più grossi, in ordine sparso. Qualsiasi spiegazione sul perché hai scelto quei dieci errori e non altri, tra i tanti, sarebbe gradita. Non ho alcun intento vendicativo né voglio ferirti. Mia sorella e io vorremmo trarre dei benefici dalle dure lezioni che la vita ti ha dato. Compiendo errori nuovi e diversi, non solo rendiamo onore al nostro passato, ma in qualche modo rendiamo onore a te.Tuo figlioTim
Scrissi l’indirizzo sulla busta, la sigillai e incollai un francobollo con la scritta “Love”. La mattina dopo la imbucai.
Due giorni dopo, la spia della segreteria telefonica lampeggiava. Era il Coach: “Che razza di stronzate sono queste? Errori? Un elenco dei miei dieci errori più grossi? Questa è debolezza, Tim. Pura e semplice. È parlare da checca. Che cosa ti è successo? Non capisco. Pensavo che New York ti avrebbe reso un po’ più tosto. Che cosa combini, vai in chiesa?”.
No, però ci feci un pensierino: “Questa sì che sarebbe una buona idea”.
Se c’era qualcuno che aveva bisogno di una chiesa...
Quella domenica svegliai i bambini, li rimpinzai di Kellog’s Frosties, li vestii e li portai con me mentre Kate dormiva ancora.
Non entravo in una chiesa da anni. Da bambino ci andavo di rado perché mio padre disprezzava il culto organizzato. Secondo il Vangelo del Coach, Dio era un padre tremendo. «Che razza di padre farebbe morire suo figlio su una croce?» Domanda sensata. «No,» mi diceva quando ero piccolo «se io fossi stato Dio e tu il mio unico figlio, sai che cosa avrei fatto per te? Ti avrei fatto vincente!»
Ma quale chiesa?
Scelsi la più vicina.
La Chiesa episcopale della Grazia era un bellissimo edificio di pietra grigia, costruito nel 1847, con vetrate Tiffany, un altare elaborato, il catechismo domenicale e un servizio di animazione per i più piccoli. Un usciere molto cordiale ci indicò il seminterrato, dove i bambini si tuffarono in un’attività un po’ pasticciata ma all’apparenza divertente, che consisteva nell’incollare dei maccheroni secchi su piatti di carta. «Fate i bravi» dissi.
Mi sedetti in un banco dell’ultima fila. Passai buona parte della mattinata a imparare quando dovevo inginocchiarmi, sedermi o alzarmi in piedi, i complessi passaggi dal breviario nero al ben più corposo libro blu scuro degli inni al bollettino della chiesa e chissà come, in tutto quell’inginocchiarsi e alzarsi e sedersi e cantare, riuscii a tirar fuori una preghierina, qualcosa a proposito del bisogno di una guida, della natura del peccato e della necessità di trovare una direzione. Durante l’ultimo inno, quando tutti gli altri parrocchiani erano in piedi e cantavano Oh God, Our Help in Ages Past caddi in ginocchio e pregai: “Ti prego, non so che cosa fare dell’offerta di Anna Brody. Quindi, Dio... se c’è un Dio... dammi un segno”.
Kate
La maggior parte della gente ritiene di essere in grado di tenere un segreto. Tim dice che io sono una delle poche che ci riesce davvero. Già da piccola, quando mia madre mi confidava cose che nessuna figlia dovrebbe mai sapere, andavo fiera della mia capacità di tenere la bocca cucita. Da che mi ricordi, è sempre stata una delle mie qualità migliori, o così pensavo. Nel mio periodo cupo, l’anno infinito che precedette il mio incontro con Tim, era la mia raison d’être. Al punto che pensai di farmi confezionare una T-shirt con la scritta: “Sono un’esperta custode di segreti”.
Fu questo a rendere Tim così interessante. La sua mancanza di segreti. Questo rese i nostri primi giorni insieme così gradevoli. I segreti, del genere che custodivo io, erano estenuanti. Io ero estenuata. E con Tim potevo finalmente riposare.
Comunque...
Dovevo liberarmi del vestito di Anna. Finché restava nel mio armadio sarei stata stregata o, come suggerì Claudia, maledetta. Forse era stato un errore, ma avevo detto a Claudia che a Tim era sfuggito il nome di Anna. Claudia era rimasta di stucco, poi aveva detto: «Pensiamo tutti a qualcun altro, di tanto in tanto, ma a chi fa piacere sentirselo dire?». Claudia non aveva dubbi: il vestito andava restituito. A suo parere, dovevo farlo al più presto.
Venni a sapere che Philip aveva portato Anna e Sophie in Francia per tutto gennaio. Il mio piano era di riportare il vestito mentre erano via, lasciandolo alla governante.
Ma con mia grande sorpresa fu Philip Ashworth ad aprirmi la porta. Era appena uscito dalla doccia e profumava di sapone inglese. Ricordo di avere pensato che, se fosse stata la scena di un film in bianco e nero, a interpretare il suo ruolo sarebbe stato Gary Cooper oppure una versione bionda di Henry Fonda. Ma il bianco e nero sarebbe stato un peccato, perché i suoi occhi erano azzurri come quelli di Paul Newman.
«Oh,» disse «pensavo fosse la macchina.»
Gli tesi la sacca portabiti e dissi: «Se potessi darlo ad Anna...».
Sembrava perplesso. «Che cosa ci facevi, con questo?»
«Lo restituisco.»
«Perché lo avevi tu?»
«Be’, me lo ha dato tua moglie. Ma ora lo restituisco.»
Rimase quasi a bocca aperta. Abbassò lo sguardo. Sospirò. «Non entri?»
«Faccio tardi al lavoro.»
«Ti prego, Kate. Per favore, entra.»
Si ricordava il mio nome: fu per questo motivo che decisi di entrare.
Eravamo nell’atrio con il pavimento di piastrelle blu egiziano e i soffitti decorati. Vicino alla porta, un borsone di pelle, pronto per il viaggio. Anche se parlava a bassa voce, le sue parole riecheggiavano nell’ampio locale. Voleva i dettagli. Sembrò molto interessato alla tempistica, per esempio a quando lei mi aveva dato il vestito. Gli dissi che me lo aveva prestato per il ballo di Natale, al quale non voleva partecipare da sola. Sembrò addolorato dalle mie parole, ma pensai che fosse meglio essere sinceri. Poi spiegai che aveva insistito perché lo tenessi. Dissi che era troppo, che ricevere un regalo così prezioso mi metteva a disagio. Mi ringraziò per averglielo restituito.
Si sentì il rumore di qualcosa che veniva rovesciato al piano superiore. Sembrò non farci caso. Poi una voce di donna chiamò: «Philip?», o almeno così mi sembrò.
«Qualcuno ti ha chiamato?»
«No» disse. «Siamo soli.»
Poi suonò il campanello della porta.
«Non più» dissi, tentando di fare una battuta.
«È la macchina.» Prese il borsone. «Vado in città, Kate. Posso darti un passaggio?»
All’aperto sembrava più vecchio. La luce del giorno sottolineava le sue rughe, dimostrando così che anche a Philip Ashworth toccava invecchiare. Trovai la cosa confortante.
L’autista mi tenne aperta la portiera e io mi infilai in macchina. Mentre Philip girava intorno all’auto, alzai gli occhi e vidi una donna alla finestra d’angolo al terzo piano di casa Ashworth. Non era la governante e non era Anna Brody, anche se aveva i suoi stessi colori. Era una versione più anziana e più spenta di Anna: pallida, non graziosa, sembrava uno schizzo solo abbozzato. Questa fu la mia impressione, ma accadde tutto molto in fretta: sollevò la mano come per salutare, poi mentre Philip saliva in auto accanto a me, appoggiò la mano sul vetro. Era un gesto triste, pensai, un gesto che fui l’unica a notare. Doveva essersi accorta che la stavo guardando, perché all’improvviso fece un passo indietro e lasciò andare la tenda.
«Che fortuna,» disse Philip «poter passare un po’ di tempo con te.»
«Be’, grazie del passaggio.» Cercai di agganciare la cintura di sicurezza in silenzio, ma non ci riuscii, mentre lui infilò la sua senza fare alcun rumore.
«Allora, Hank, cos’abbiamo?»
Hank era l’autista. «Ray Charles.»
«Spero che ti piaccia» disse Philip rivolto a me.
«Sì» risposi. «Era un punto a favore della cecità.»
Per mia fortuna, Philip ignorò il commento. Giustificai la bizzarra scelta di parole con il fatto che la mia mente era ancora concentrata sulla donna alla finestra. «Siamo soli» aveva detto. Evidentemente, la donna alla finestra non contava.
Ray Charles cominciò a risuonare dallo stereo – roco, appassionato, a basso volume – mentre l’auto svoltava sul ponte di Brooklyn.
«Comoda?» chiese Philip.
«Sì» risposi affondando nel sedile di morbida pelle nera. «Decisamente.»
Philip aveva cominciato a illustrarmi il suo vorticoso programma – tornato il giorno stesso negli Stati Uniti, era passato da casa a rinfrescarsi prima di recarsi a un incontro importante a Midtown, per poi correre a prendere l’ultimo volo per Parigi e raggiungere Anna e Sophie nel sud della Francia –, quando l’auto si fermò in coda sul ponte.
«Un cantiere, signore, oppure un incidente, non saprei.»
Philip si sporse di lato per studiare le condizioni del traffico, poi disse: «Mi parla di te in continuazione».
«Scusa?»
«Mia moglie mi parla di te in continuazione.»
«Oh no.»
«Oh sì, è sempre “Kate questo” e “Kate quello”. Cita continuamente te e tuo marito.»
«Non mi spiego il perché.»
«Pensa che siate molto fortunati.»
Non riuscii a trattenere una risata. Un conto era adulare me con queste sciocchezze, ma perché fare il lavaggio del cervello al marito?
«La conosci molto bene?» mi chiese.
«Non direi.»
Philip sospirò e disse: «Temevo che lo avresti detto». Guardò fuori dal finestrino. «Gonfiare le cose è nella sua natura. A volte si forma un’idea balzana nella testa.» Si girò di nuovo verso di me, con un’espressione dolente. «In effetti non la conosci bene pe...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Colazione a Brooklyn
- PARTE PRIMA
- PARTE SECONDA
- PARTE TERZA
- PARTE QUARTA
- PARTE QUINTA
- Copyright