La nostra storia personale, è inutile negarlo, è ciò che noi portiamo in psicoterapia. Ognuno di noi pensa che le radici del suo malessere siano figlie della sua storia. “È la mia storia la causa dei miei mali” è più o meno ciò che ciascuno pensa. Ognuno crede, fantasticando, che, se potesse cambiare la storia di colpo, apparirebbe la felicità. Già, ma che cos’è la storia? Esiste di per sé? Se osservo le immagini della mia vita, quelle che almeno mi sovvengono alla memoria, ricostruisco un’immagine di me che è molto frammentata. Io e la mia storia. Non so pensare a una mia storia in cui io non sia protagonista.
La possibilità di mettere una dopo l’altra le mie vicende nei loro tempi, nei loro luoghi, la possibilità di collegare ogni evento in me, di ricordare, questa è la storia...
Ma alla storia chiediamo di più, di essere oggettiva. Ci fa e ci dà dolore, perché è proprio andata così, perché mio padre quella cosa l’ha detta o l’ha fatta veramente. Così si forma l’idea della mia storia come l’idea di un puzzle che ricompongo e si ricompone ogni volta.
Eppure questo è vero per un solo lato della mia mente: il lato ordinatore. Quello che crede che Raffaele sia il risultato di quella somma di episodi. La mente ordinatrice è mente quantitativa: pensa che io sia la somma delle esperienze. Chi va in psicoterapia crede, almeno per molto tempo, di doverla arricchire di dati. Pensa: “Più episodi porto, più lui (lo psicoterapeuta) ‘capirà’”. Vi sono persone tutte concentrate sulla loro storia. Ma la storia appartiene al reale; è difficile indovinare che possa esistere, tra le migliaia di immagini oniriche, la possibilità che si formi una storia. Nei sogni non c’è inizio e non c’è fine, quindi non c’è storia. Mi abitano così mondi senza scopi, senza fine, senza storia. Se non c’è storia, non c’è conclusione, non c’è inizio. Non c’è un fotogramma dopo l’altro. Se di te hai forte la tua connotazione storica, inevitabilmente lì collocherai il tuo destino. «Ero povero» mi dice Alberto. «Ora sono ricco, è andata bene.» Ecco la storia prendere il sopravvento. Se divento ricco, la mia è una storia riuscita. In realtà sei tu che hai strappato un frammento e lo hai valorizzato!
«Mi hanno sempre abbandonata tutti, quando non accadrà più, allora sarò veramente OK.» Altro frammento. Nella storia come successione di eventi il frammento domina sempre la scena. Pensa a te come continuum, come evento che è presente a se stesso, che non ha inizio e fine.
È la storia che ti fa finire, ogni episodio di te che ricordi annienta un po’ di quella continuità. Se esci dalla storia, allora scopri la “vocazione pura”, cioè non frammentata dai falsi obiettivi. La vocazione... la voce che chiama. Allora in un certo senso la storia è l’antitesi di ciò che sono, il residuo, ciò che mi àncora al tempo, contro la vocazione che è virtualità pura, che è di per sé, senza spazio e tempo.
Ricordo la giovane figlia di un conoscente. Ha 16 anni, bellissima, gli occhi chiari, timidi, ha interessi sottili. Parla in modo sommesso, dolce, fa tenerezza. Nei suoi occhi c’è il vuoto, come se non trovasse una collocazione in una famiglia in cui i genitori sono così diversi da lei. La psicopatologia che ho studiato la collocherebbe dentro i sintomi iniziali della schizofrenia, la sua vocazione invece voleva soltanto uscire dalla storia. Il padre, un uomo che per molti anni ha costruito la sua vita sul gioco delle carte, è diventato sempre più “inquadrato”: parla solo di soldi, di chi ne ha di più, usa l’equazione solita “più soldi uguale più qualità, più capacità”. La madre, bellissima, è presa solo dall’esterno, dal fugace, dal mutevole. Non ci sono che i vestiti, l’apparire, le cose di successo. La piccola ha lo sguardo perso, non ci sta.
Che cosa potrebbe esprimere di suo in una famiglia che ha già chiuso tutti i canali della comunicazione per salvare solo quelli del successo e della forma? A casa loro non si parla che di vestiti, di soldi, di oggetti. A 18 anni “la vocazione amica” inesorabilmente rompe tutto, spazza via la storia: bulimia, depressione, allucinazioni, chiusura autistica.
Il viso bellissimo si deforma, si colora i capelli di verde, blu, mangia tutto il giorno, ingrassa a dismisura, fa i capricci. I genitori la rivogliono come prima, carina, dolce, silenziosa, a modo, «anche se era troppo spirituale, poco concreta». Nessuno ci riuscirà, neppure gli elettroshock. La storia era troppo forte per tutti. Quando ci ostiniamo a essere nella storia, costi quel che costi, il Sé prorompe; meglio una vita distrutta che annientata da comunicazioni, idee, luoghi comuni che impediscono la sua espressività. Quando era piccola, Anna Maria passava ore intere a disegnare, a dipingere: i suoi insegnanti ritenevano che fosse un vero e proprio talento. A casa sua tutto questo era considerato come “elemento del tutto secondario se non privo di senso”.
«Meglio» diceva il padre «orientarla su cose concrete, su cose che un domani la possano far realizzare nella vita.»
Chiunque si voglia affacciare alla via del talento deve sapere che la sua “storia” dovrà andare a riposare sullo sfondo del suo essere, non potrà stare in primo piano. Persino il nostro Io, la nostra identità, dovrà andare a riposare. Il contrario di quanto ci hanno insegnato tutte le psicologie: non c’è niente da capire, capire non serve a nulla, appartiene all’Io, alla mente. Non serve a nulla cercare nella nostra storia le cause di ciò che siamo oggi. Non serve a nulla e ci distrae, come tutto ciò che è pensiero. I saggi hanno sempre consigliato di abbandonare la storia individuale, i pensieri, per andare al segreto della nostra vera natura, del talento.
Lascia cadere il sé, e sii consapevole! Il messaggio è tutto qui: questo è il messaggio di tutti i buddha di tutte le epoche, passate, presenti, future.
L’essenza del messaggio è semplicissima: lascia cadere il sé, l’ego, la mente e sii. In questo preciso istante, mentre questo silenzio pervade... chi sei?
Un nessuno, una non-entità. Non hai un nome, non hai una forma. Non sei né uomo né donna, né hindu né musulmano. Non appartieni a nessun Paese, a nessuna nazione, a nessuna razza. Non sei il corpo e non sei la mente. Allora, cosa sei? In questo silenzio, qual è la tua fragranza? Come percepisci il tuo esistere? Semplice quiete, solo silenzio... e da quella pace e da quel silenzio inizia ad affiorare una gioia immensa, affiora senza ragione alcuna. È la tua natura spontanea. (Osho, p. 219-220)
Anche se la psicologia ce lo ha insegnato, guai a pensare: “Io sono così a causa di questi genitori, degli incontri che ho fatto, degli amici che ho avuto”; tutto ciò che credo di essere, tutto ciò che proviene dalla mia storia diviene il maggior ostacolo al fluire del talento. Il talento non si addice all’uomo cerebrale. Sfugge colui che vuole capire. Ama solo chi, come Odisseo, ambisce a diventare nessuno.
L’allievo chiede a Lubavitch, l’ultimo grande rab, che cosa può fare un uomo per Dio. La risposta è sconcertante: seguire la sua vera natura. Mi chiedo, nella nostra vita di tutti i giorni, chi segue davvero l’indicazione del Maestro. A volte mi chiedo se è mai possibile la realizzazione di un simile proposito, abituati come siamo a identificarci nei valori del target e quindi di questa o di quella ideologia. Com’è la vera intima natura di ciascuno di noi? Per Bauer si può passare una vita intera a cercarla ed è più facile smarrirla che avvicinarvisi. Ma perché mai Dio dovrebbe gioire e rallegrarsi di un uomo che ha trovato la sua propria natura? È chiaro che la visione del mondo di Lubavitch è distante da quella delle religioni comuni e ancor di più da quella della scienza. Nell’Universo concepito come unità, come un unico evento, un unico spazio, tutto ciò che esiste è il riflesso della causa originaria. La natura, come la concepisce l’alchimista, è la divinità stessa incarnata e ogni forma vivente è, per dirla con Schwaller, una “contrazione” dello spirito. Trovare e seguire la propria natura è portare a coscienza e a conoscenza il destino, la direzione della forma che la vita in quel momento ha assunto. Ognuno di noi è una forma unica e irripetibile: il talento stesso dell’Universo.
Lubavitch pensa come il cabalista che l’Universo è tutto qui e che a ognuno spetti il compito proprio del minatore: estrarre dalla miniera (dal caos primordiale della materia di cui siamo avvolti) l’oro, la pietra preziosa che ci abita. «Che pietra preziosa sarò mai io, che passo la giornata a fare le cose più banali, portare i bambini a scuola, preparare le cene, guardare la tele, fare l’amore con mio marito quando lui ne ha voglia? Il mio talento? La mia vera natura? Che ne posso sapere se fin dall’infanzia ero predestinato a seguire le orme di mio padre, a succedergli nell’azienda come aveva fatto lui con mio nonno?» Per rispondere a queste domande, che mi sento porre dopo un dibattito, ho chiesto aiuto come sempre all’alchimista.
Il mercurio
Il destino della grande opera alchemica è il mercurio, o meglio separare il mercurio (il sottile) dallo spesso, dalla materia, dal piombo. La grandiosità del pensiero alchemico consiste fondamentalmente in questo: l’Unità. Non c’è nell’alchimista la divisione in parti, non c’è la psiche e il soma. Non c’è la materia e qualche cosa d’altro. Oggi l’alchimia è tornata di moda, ma se ne parla quasi sempre come se si trattasse di un racconto di fattucchiere e magonzoli. Separare il mercurio dal piombo, il sottile dallo spesso significa pensare al rapporto che esiste tra il seme e il frutto, tra la potenza virtuale e l’atto. «A volte mi riconosco in mio padre, ritrovo in me le sue stesse sfumature, le sue ironie, le sue battute, le sue espressioni corrucciate del viso.» Cose ereditate, impregnazioni di geni o acquisite dal loro ripetersi per anni nelle scene e nelle vicissitudini familiari? Ma cosa sono i geni? Elementi fissi, perenni, immutabili, o capaci di impregnarsi d’ambiente per divenire a ogni passaggio nella vita, della vita vere e proprie “costellazioni genambientali”? Ma il mercurio dell’alchimista è ben altro... Egli pensa che il mercurio sia se stesso al di là della forma che assume, anzi ritiene che la forma momentanea, il gene familiare, per così dire, vada digerito per liberarsene, per allontanarlo. Separare lo spesso dal sottile significa più di tutto uscire dai meandri della fissazione genetica familiare, dal destino degli avi, dei genitori, dei parenti; significa uscire dalla storia per ritrovare un raggio di sole, la sua incidenza. La propria natura, l’essenza di noi stessi altro non è che il “cadere della luce” in quello spazio. Per questo a ogni corpo (spazio) corrisponde la forma unica del sole unico. In un secondo momento, dopo aver liberato la propria natura, l’alchimista punta al Sole dei Soli, al Sé, al ricongiungimento con la Causa Unica.
I due destini
Quando il taoista dice che il Tao scompare se la nostra vista è ristretta, se la nostra mente è orientata su piccoli segmenti della vita, egli sa che i luoghi comuni sono quanto più ci distanzia dal mercurio dei mercuri. Non è vero che nella tua vita non succede nulla, è che guardi dalla parte sbagliata... Quando ci dicono che assomigliamo ai nostri padri o alle nostre madri, quando portiamo bene o male avanti il lavoro di famiglia oppure quando per reazione fuggiamo per non esserne assorbiti, stiamo sempre guardando dalla parte sbagliata. Il talento ereditato non è il talento. Ciò da cui fuggiamo non ci porta nuove vie creative. La domanda da farsi costantemente è questa: c’è qualcosa di veramente autentico che sto esprimendo? Qualcosa di non collegabile alla mia storia, alla mia famiglia, all’ambiente che ho respirato, alle tradizioni che ho assorbito? Qualcosa che non mi appartiene? Indefinibile e autentico, libero da me stesso.
Stai certo che chi non ha sorprese, prima o poi sta male. Il bambino è curioso. Tu non hai più curiosità perché hai soffocato il tuo talento. (Bauer)
Se diventi come la tua famiglia ti ha progettato, se diventi il luogo delle loro aspirazioni allora sei destinato, anche al massimo del successo, a non essere nulla, ad appartenere a un progetto altrui. Il talento fugge le leggi genetiche. Non vi è rito di iniziazione che non cominci con lo staccare l’adepto dai luoghi comuni, dal pensiero dominante del gregge.
La prima cosa da fare è cambiare nome, prova a chiamarti con un altro nome, vedrai quante possibilità si aprono... (Bauer)
Nell’incontro con il Maestro all’iniziando viene dato un nuovo nome, a indicare che egli deve attivare un nuovo suono dentro di sé. Non deve più riconoscersi nel nome che ha ereditato dalla famiglia, dalla storia... Deve diventare un altro.
Su che base viene scelto il nome dal Maestro? La risposta di Bauer è inequivocabile.
Ogni forma vivente ha una sua vibrazione, ognuno di noi è una sinfonia. Il Saggio, nel nome che ti consegna, si ispira a quella sinfonia. (Bauer)
Se la “vibrazione” che siamo viene liberata dai falsi suoni, allora la nostra natura può incominciare a raccontarsi.
Quando l’africano dice: «Se sei edera, arrampicati; se sei leone, ruggisci; se sei pecora, bela» mette in luce l’apertura di altri spazi dell’identità. L’identità così riformulata si appella a eventi dell’Universo (forme, funzioni) che non appartengono al nostro Io, che non siamo noi, o almeno non siamo quel noi che conosciamo, con cui amiamo definirci e riconoscerci. Dire: “Se sei edera, arrampicati” è come dire che il tuo percorso non può che partire da una capacità, da una funzione sommersa, da una forza, da una tendenza...