Shirley camminava a passo svelto lungo il vialetto. Portava sotto braccio la racchetta da tennis con attaccate le scarpe. Era un po’ a corto di fiato, ma dentro di sé sorrideva.
Doveva sbrigarsi, o sarebbe arrivata tardi per la cena. A essere sinceri, pensò, non avrebbe dovuto giocarlo, quell’ultimo set. E per di più, non era stato affatto un buon set. Pam era una campionessa. Con Pam e Gordon non c’era stata partita per Shirley e... come si chiamava?, Henry, o qualcosa del genere. Henry come? Si chiese. E pensando a lui, Shirley rallentò un po’ l’andatura.
Quel ragazzo non assomigliava a niente che avesse conosciuto finora. Non aveva nulla a che fare con gli altri ragazzi di lì. Si mise a valutarli uno per uno. Robin, il figlio del vicario. Carino e davvero molto rispettoso con quella sua galanteria vecchio stampo. Studiava alla Facoltà di lingue orientali e si dava arie da intellettuale. Poi c’era Peter... troppo giovane e immaturo. E Edward Westbury, che aveva parecchi anni di più, lavorava in banca, e aveva il pallino della politica. Erano tutti di Bellbury. Ma Henry veniva da fuori, l’avevano presentato come il nipote di qualcuno. Aveva portato un’aria di libertà e indipendenza.
Shirley apprezzava molto quell’ultima parola. Era una qualità che lei ammirava.
A Bellbury non c’era indipendenza. Tutti erano profondamente condizionati dagli altri.
I legami familiari avevano un’importanza fondamentale. Ognuno era attaccato alle proprie radici.
Shirley era un po’ spaventata da questi pensieri, ma in effetti esprimevano proprio quello che pensava.
Ora Henry, di certo, non apparteneva a quel mondo. Al massimo era il nipote di qualcuno, di una qualche zia acquisita, senza veri e propri legami di sangue con Bellbury.
“Che pensieri ridicoli,” si disse Shirley “alla fin fine, anche Henry avrà un padre e una madre, e una famiglia come tutti gli altri.” Ma decise che i suoi genitori dovevano essere morti giovani in qualche luogo sperduto del mondo. Oppure sua madre viveva sulla Costa Azzurra e aveva avuto un sacco di mariti.
“Pensieri ridicoli” si ripeté Shirley. “In realtà non sai niente di Henry. Non sai nemmeno il suo cognome e con chi è venuto qui questo pomeriggio.”
E anche questo era tipico di lui. Henry faceva sempre il misterioso. Sarebbe sempre rimasto nel vago, con un passato nebuloso alle spalle, e se ne sarebbe andato all’improvviso prima che qualcuno avesse potuto scoprire il suo nome o di chi fosse nipote. Era solo un bel giovane con un sorriso accattivante, che giocava molto bene a tennis.
A Shirley era piaciuto il tono distaccato con cui, quando Pam Crofton aveva chiesto: «Come giochiamo?», Henry aveva subito risposto: «Io e Shirley contro voi due!». A quel punto aveva fatto ruotare la racchetta per la scelta del campo chiedendo: «Ruvida o liscia? Shirley aveva la certezza che Henry avrebbe sempre fatto esattamente quello che voleva.
Quando gli aveva chiesto: «Resterai qui a lungo?» lui aveva risposto vagamente: «Oh, penso di no», e non le aveva chiesto di vedersi ancora.
Per un attimo Shirley si accigliò in viso. Quanto aveva desiderato che rimanesse...
Di nuovo guardò l’orologio, e affrettò il passo. Era proprio in ritardo. Non che a Laura importasse. Laura non si spazientiva mai. Era un angelo...
La casa era ormai in vista. Languida nella sua bellezza in stile primo georgiano, era un po’ asimmetrica, perché, da quanto aveva capito, un incendio ne aveva distrutto un’ala, che non era mai stato ricostruita.
Inconsciamente Shirley rallentò la sua andatura. Oggi, per qualche ragione, non aveva voglia di tornare a casa. Non voleva rinchiudersi tra quelle mura ovattate e protettive, mentre l’ultimo sole irrompeva dalle finestre occidentali attraverso le tende di cinz un poco sbiadite. Qui il silenzio era così riposante; ci sarebbe stata Laura ad accoglierla con il suo viso benevolo, i suoi occhi pieni di affetto, mentre Ethel portava avanti e indietro pile di piatti per la cena. Affetto, amore, protezione, famiglia... Erano le cose più importanti della vita, ed erano sue senza che avesse fatto nessuno sforzo per ottenerle e neppure per desiderarle. La circondavano, la opprimevano...
“Questo è un modo piuttosto strano di vedere la cosa” pensò Shirley tra sé e sé. “Mi opprimono? Ma che vado pensando?” Ma era proprio quello che provava. Una evidente e costante oppressione. Come il peso dello zaino che una volta aveva portato durante una passeggiata in montagna. Al principio quasi non te ne accorgi, e poi pian piano si fa sentire, preme su di te trascinandoti giù, segandoti le spalle. Un fardello...
“Che cose mi vengono in mente!” si disse Shirley e, correndo verso la porta d’ingresso aperta, entrò in casa.
La sala era in penombra. Al piano di sopra, Laura la chiamò dalla tromba delle scale con la sua voce dolce e un po’ roca:
«Sei tu, Shirley?»
«Sì, Laura, mi dispiace, sono terribilmente in ritardo.»
«Non importa, ci sono solo maccheroni al forno. Ethel li ha messi a scaldare.»
Laura Franklin scese per le scale. Era una creatura sottile e fragile, con un viso quasi esangue e profondi occhi marroni dal taglio insolito che, per qualche strana ragione, le davano un aspetto tragico.
Accolse Shirley con un sorriso.
«Ti sei divertita?»
«Oh, sì» rispose Shirley.
«Avete giocato bene?»
«Non male.»
«C’era qualcuno di interessante? O la solita compagnia di Bellbury?»
«Per lo più i soliti di Bellbury.»
È strano che quando la gente ti pone delle domande, non hai mai voglia di rispondere. Eppure le risposte sarebbero state così innocue. Era normale che Laura volesse sapere se si era divertita.
Quando qualcuno ti vuole bene, vuole sempre sapere... Anche Henry dovrà sopportare le domande dei suoi? Cercò di immaginarsi Henry a casa sua, ma non ci riuscì. Sembrava strano, ma non riusciva in nessun modo a vedere Henry all’interno di una famiglia. Eppure doveva pur averne una!
Un’immagine confusa le apparve davanti agli occhi. Henry che entrava in una stanza dove la madre, una bionda appena tornata dal Sud della Francia, si stava mettendo un rossetto di un colore sgargiante. «Ciao, mamma, allora sei tornata?», «Sì, sei stato a giocare a tennis?», «Sì». Nessuna curiosità in quella voce, nessun interesse. Henry e sua madre erano del tutto indifferenti l’uno all’altra.
Laura chiese, incuriosita:
«Che cosa te ne stai brontolando tra te e te, Shirley? Muovi le labbra e aggrotti le sopracciglia da sola.»
Shirley rise:
«Oh, è una conversazione immaginaria.»
Laura alzò le sue sopracciglia sottili con aria interrogativa.
«Sembrava piacerti.»
«In realtà era tutto alquanto ridicolo.»
La fedele Ethel fece capolino dalla porta della sala da pranzo annunciando:
«La cena è pronta.»
Shirley strillò: «Mi devo lavare le mani!», e corse su per le scale.
Dopo cena, mentre erano sedute in salotto, Laura disse: «Oggi ho ricevuto il programma della scuola commerciale Santa Caterina. Mi sembra di capire che è una delle migliori nel suo genere. Tu che ne pensi, Shirley?».
Una smorfia alterò la bellezza del giovane volto di Shirley.
«Imparare stenografia e dattilografia per trovarmi un lavoro?»
«Perché no?»
Shirley sospirò, e poi rise.
«Perché sono una pigrona. Preferirei di gran lunga stare a casa a non far niente. Cara Laura, sono andata a scuola per anni! Non potrei fare una pausa?»
«Vorrei tanto che ci fosse una qualche attività per la quale ti senti portata e che avresti davvero voglia di apprendere.» E per un attimo Laura mostrò un cipiglio severo.
«Sono un tipo all’antica» affermò Shirley. «Voglio solo stare a casa a sognare un marito alto, bello e ricco con cui avere tanti figli.»
Laura non rispose. Aveva ancora un’espressione preoccupata.
«Comunque, se fai un corso presso la Santa Caterina, devi andare ad abitare a Londra. Potresti farti ospitare, pagando qualcosina... magari da tua cugina Angela...»
«La cugina Angela, no. Abbi pietà, Laura.»
«Va bene, niente Angela. Allora da una famiglia. Credo ci siano anche dei pensionati. In seguito potrai prendere un appartamento con un’altra ragazza.»
«Non potrei prenderlo con te?» domandò Shirley.
Laura scosse la testa.
«Io resterei qui.»
«Restare qui? Non verresti a Londra con me?»
Shirley sembrava offesa e incredula.
Laura rispose con sincerità: «Non voglio esserti d’impaccio, tesoro».
«D’impaccio? Come potresti mai esserlo?»
«Sono possessiva, lo sai bene.»
«Come quelle madri che mangiano i loro figli? Laura, tu non sei mai possessiva».
Laura rispose, incerta: «Spero di no, ma non si sa mai». Poi aggiunse, scura in volto: «Non si può mai sapere ciò che si è davvero...».
«Non credo che tu abbia bisogno di farti degli scrupoli, Laura. Non sei per nulla prepotente, almeno non con me. Non sei autoritaria e non pretendi di organizzarmi la vita.»
«In realtà è proprio quello che sto facendo: ti sto iscrivendo a un corso di segretaria a Londra, corso che non ti passa neanche nell’anticamera del cervello di fare!»
E le sorelle scoppiarono a ridere.
Laura si raddrizzò sulla schiena e tese le braccia.
«Sono quattro dozzine» disse.
Aveva raccolto un mazzo di cicerchie odoros...