Pepys Road
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Pepys Road

  1. 504 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Pepys Road

Informazioni su questo libro

A quarant'anni, Roger Yount può dirsi un privilegiato, lavora ai piani alti della City, vive nel lusso, e ha fatto quel che si dice un bel matrimonio. Il superbonus su cui conta (roba da un milione di sterline) può anche sembrare un'esagerazione, ma tra seconde case, bambinaie, costosi fine settimana comincia a essere quasi una necessità.
Smitty è l'ultimo bad boy dell'arte contemporanea, un simpatico mascalzone e artista concettuale che ama le provocazioni, cercando di mantenersi in equilibrio tra successo e anonimato. Una celebrità senza volto, ciò che è forse la sua opera d'arte più riuscita. Ha una nonna, Petunia Howe, che lo adora, un'arzilla vecchietta di ottant'anni che difende intrepida la sua proprietà e la sua indipendenza.
Freddy Kamo è il nuovo prodigio del calcio mondiale, un giovane e già viziatissimo africano catapultato dalla sua capanna nel Senegal in uno dei più lussuosi appartamenti di Pepys Road.
Ma ci sono anche i Kamal, i pachistani del negozio all'angolo, teatro di una guerra in famiglia fra integrazione e tradizione. E Quentina, l'ausiliaria del traffico che semina il panico nelle vie dei ricchi dopo aver messo a punto un lucroso sistema per arrotondare lo stipendio. E Zbigniew, l'immigrato polacco che sta restaurando casa Yount, dove lo chiamano Bogdan perché il suo nome è troppo difficile da pronunciare.
Che cosa hanno in comune tutti costoro? Pepys Road, la strada in cui abitano o lavorano, l'esclusiva via di Londra che da popolare è diventata trendy, ambita dalle nuove classi dirigenti e dai nuovi ricchi, luogo simbolo del rapido successo regalato dall'economia volatile e pirotecnica del nuovo millennio. Ma siamo nel 2008, la crisi è appena cominciata. Si avvertono sinistri scricchiolii. E soprattutto, a ognuno di loro è stata recapitata una cartolina anonima con la foto della porta di casa e una scritta minacciosa: "Vogliamo Quello Che Avete Voi"...
Con la sua verve straordinaria, raffinata e graffiante, John Lanchester ci consegna un ritratto impietoso della società contemporanea colta in un momento cruciale di svolta, quando l'insicurezza riaffiora e la domanda per tutti è: come sarà la nostra vita, dopo? Da moderno Balzac, lo fa con uno strepitoso romanzo in cui "i personaggi sono empaticamente disegnati, le loro vicende sono raccontate con immensa bravura, e in tutto scorre una vena di arguzia e di ironia che fa di Pepys Road un'autentica delizia" ("The Times").

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804624462
eBook ISBN
9788852037177

Parte seconda

APRILE 2008

31

Stava arrivando la primavera. Al numero 42, i crochi piantati da Petunia Howe l’autunno precedente, prima che cominciasse a sentirsi strana, erano già sfioriti. Le malvarose e i delfini piantati perché sbocciassero in estate non si vedevano ancora, perciò il giardino era meno colorato di quanto piacesse a lei; anche il prato aveva un’aria trascurata. Non voleva chiedere alla figlia di tagliare l’erba, e non c’era nessun altro che potesse farlo. Eppure la primavera si sentiva lo stesso: quando faceva abbastanza caldo da poter aprire la finestra – sul retro della casa, che era più riparato, a volte si poteva già aprire – Petunia percepiva la peculiare consistenza dell’aria della nuova stagione, la sua fertile tenerezza. Aveva sempre amato quella sensazione. Non pensava che il mondo si dividesse in persone primaverili o autunnali, perché lei amava entrambe le stagioni, ma se avesse proprio dovuto scegliere avrebbe scelto la primavera. Entro maggio, o al massimo giugno, i gerani sarebbero spuntati, il cerfoglio selvatico avrebbe messo fuori la testa e le iris sarebbero state in piena fioritura; il mughetto sarebbe stato ovunque, e il giardino sarebbe esploso di colori e di vita, come piaceva a lei – con un senso di profusione, di generosità, con una tale molteplicità di piante da sfiorare un disordinato abbandono. Le piaceva sedere accanto alla finestra della camera da letto e guardare il giardino immaginando come sarebbe diventato. Era dura accettarlo, era un pensiero insostenibile, ma stava per morire, entro l’estate sarebbe morta. Così le aveva detto il medico specialista.
Gliel’aveva detto nel suo solito modo, goffamente. Come se sapesse di non dover essere brusco, ma non riuscisse a gestire la cosa. Il tumore al cervello che aveva detto di voler “escludere” si era rivelato la causa del suo malessere. Per il dottore la faccenda dell’“escludere”, si rendeva conto adesso Petunia, non era che un modo eufemistico per dire “probabilmente è quello che ha”. Aveva un tumore grosso, un tumore che, le aveva spiegato, cresceva sorprendentemente in fretta per una persona della sua età.
«Ho il cancro» aveva detto Petunia, con la sensazione di essere andata a sbattere contro qualcosa. Dicevano che ti sentivi sprofondare, che ti mancava la terra sotto i piedi e cose simili, ma lei non aveva provato niente del genere; si era sentita come se fosse andata a sbattere contro qualcosa di invisibile. Qualcosa che c’era sempre stato ma lei non era mai riuscita, e ancora non riusciva, a vedere.
«Non proprio» aveva detto il medico, dopo essersi visibilmente chiesto se fosse o meno il caso di correggere su una questione terminologica una donna che stava per morire, e aver deciso di sì. «Il tumore al cervello non è un cancro. Però lei ha un tumore, e sono spiacente di dirle che abbiamo le prove che sta crescendo.»
Le prove: parole dure.
Il medico aveva detto che il tumore era troppo grosso per poterlo operare, ma che potevano curarlo con la chemioterapia. O meglio, che “forse” potevano curarlo con la chemioterapia. Molti anni prima, dopo aver visto la sua amica Margerie Talbot – che aveva abitato al 51, dove adesso stavano gli Yount – soffrire orribilmente per le terapie antitumorali e poi morire lo stesso, Petunia aveva deciso che non si sarebbe mai sottoposta alla chemio. Ora, seduta nell’ufficio dello specialista al diciottesimo piano della torre dell’ospedale, si era resa conto con stupore che la pratica non era diversa dalla teoria: non era per nulla tentata di accettare l’offerta di una cura. Non che l’offerta fosse particolarmente allettante. Si trattava di sei settimane di trattamento per sei mesi di vita in più – Petunia adesso non ricordava con esattezza i dettagli, ma ricordava che sul momento aveva trovato che somigliasse in modo bizzarro alle offerte per l’estensione della garanzia, 5 sterline e 99 al mese per una copertura extra di tre anni, il tipo di cosa che faceva infuriare Albert.
«No» aveva detto. «Grazie, ma no.»
«Non deve decidere così su due piedi» aveva detto il medico.
«In ogni caso ho deciso, e la risposta è no» aveva ribadito lei. Per la prima e unica volta il medico le era parso un po’ spiazzato. Ed era stata anche l’ultima volta che l’aveva visto.
Il verdetto del medico era stato uno shock. Ma in un certo senso non l’aveva sorpresa. A febbraio le cose erano improvvisamente peggiorate, di molto. Al cuore di tutto c’era la sensazione che quella malattia fosse diversa da qualunque altra avesse mai avuto. In passato, ogni volta che era stata malata, riusciva sempre a distinguere fra quel che era lei e quel che non andava; lei era lì, la malattia era lì e, anche quando era stata malata più gravemente, quando per esempio aveva avuto la febbre altissima, sapeva sempre che la malattia non era lei. Lei e la malattia erano due cose distinte. Adesso era diverso. I sintomi non erano vistosi, ma lei provava un malessere molto più intimo, intrecciato ai pensieri, alle percezioni, al suo sé più profondo. Il difetto della vista si era aggravato, i capogiri e il senso di debolezza erano tali che a volte non riusciva neanche a camminare, o addirittura ad alzarsi dal letto. L’avevano portata in ospedale. A tratti non ci vedeva quasi. A un certo punto le era venuto il singhiozzo e non riusciva più a farselo passare, tanto che gli altri pazienti del suo reparto se n’erano lamentati.
Dopo due settimane le cose si erano un poco stabilizzate, e Petunia era stata mandata a morire a casa. La figlia Mary si era trasferita lì da Maldon per badare a lei. L’alternativa sarebbe stata che fosse lei a trasferirsi nell’Essex per trascorrere i suoi ultimi giorni con Mary e famiglia, ma la casa di Mary aveva qualcosa di sinistro (anche se ovviamente Petunia non aveva ammesso che il motivo era quello), qualcosa di freddo e sterile, di inospitale e sbagliato. Mary passava quasi tutto il tempo a pulire e mettere in ordine – l’aveva sempre fatto – e quell’abitudine sarebbe stata più difficile da sopportare in un territorio a lei estraneo. In Pepys Road, Mary trafficava in continuazione in altre parti della casa, ma veniva quando Petunia la chiamava. E cioè vergognosamente spesso. A volte la notte riusciva ad andare al gabinetto da sola, ma a volte no, e in quel caso doveva chiamare la figlia, che dormiva nel letto a una piazza in una camera adiacente che era stata lo studio di Albert e adesso non era niente, se non l’ex studio di Albert. Ma Mary aveva il sonno pesante e, anche se madre e figlia lasciavano entrambe le porte aperte, spesso non la sentiva chiamare finché Petunia non restava quasi afona a forza di urlare. E poi c’era da affrontare il tragitto fino al bagno. Una cosa che Petunia odiava, e pure Mary.
Ci sarebbero state delle cure palliative, quando fosse stata davvero in fin di vita. Ma non era ancora a quel punto. Pareva che il ritmo a cui stava morendo fosse rallentato di molto, da quando la figlia era lì da lei.
Petunia sentiva il trambusto che proveniva dalla cucina al piano di sotto. Mary aveva una soglia di tolleranza molto bassa per il disordine, ma molto alta per il rumore, perlomeno quello prodotto da lei. Picchiava e sbatteva, lasciava la radio ad alto volume ovunque andasse; anche l’aspirapolvere sembrava più rumoroso quando lo usava lei. Adesso, Petunia lo sapeva perché erano le undici, stava chiudendo vigorosamente gli sportelli della credenza, facendo tintinnare i piattini, sbattendo un vassoio sul tavolo e posando con violenza il bollitore sul piano di lavoro, il tutto per preparare a entrambe una tazza di tè. Entro cinque minuti sarebbe salita. Petunia ne era lieta. Lei e Mary non avevano molto da dirsi, ma le visite della figlia erano comunque un diversivo nella monotonia della giornata.
Il modo specifico in cui il tumore aveva colpito il suo cervello faceva sì che Petunia non riuscisse più a leggere. Non voleva guardare la televisione e solo ogni tanto le andava di parlare; e quando le andava, di solito Mary non era lì. Così trascorreva la giornata in una condizione di pura esistenza, una condizione più vicina alla prima infanzia di qualunque altra in cui si fosse mai trovata. C’erano momenti in cui aveva paura, altri in cui provava vero e proprio panico, terrore, al pensiero di morire. Altre volte quando pensava alla morte provava un senso di perdita generalizzato, stranamente non specifico: non pensava alle cose di cui non avrebbe potuto più godere, perché moltissime le aveva già perse. Il senso del gusto e dell’odorato erano come svaniti, perciò il caffè e il tè e il bacon e i fiori non erano più la stessa cosa di prima, o comunque il suo cervello non ne registrava più le impressioni sensoriali; si erano perse nelle trasmissioni sinaptiche. Quel che sentiva di perdere non era specifico: non era quel giorno, quella luce, quella brezza, quella primavera. Era un senso di perdita generale, legato a tutto e a niente. Stava semplicemente perdendo, perdendo tutto. Era su una barca che andava alla deriva, che si allontanava dal porto. In certi momenti non era nemmeno una sensazione spiacevole, si sentiva al sicuro con se stessa. In altri momenti era oppressa da una tristezza che le mozzava il fiato, e che finiva per sembrare un ulteriore sintomo della sua malattia terminale.

32

La merda scende a valle. Questo principio base della vita istituzionale aveva fatto sì che un grosso fascicolo con l’etichetta “Indagine: Vogliamo Quello Che Avete Voi” approdasse sulla scrivania dell’ispettore investigativo Mill della polizia metropolitana. Era andata così: cinque o sei abitanti di Pepys Road avevano dapprima presentato un reclamo al consiglio di circoscrizione senza cavare, com’era prevedibile, un ragno dal buco, quindi avevano scritto al loro rappresentante parlamentare; il parlamentare aveva scritto al commissario della polizia metropolitana; il commissario aveva spedito un messaggio al comandante della divisione; il comandante della divisione l’aveva inoltrato al comandante della centrale di polizia più vicina, quella di Clapham South; e il comandante della centrale aveva scaricato la faccenda su Mill. Ecco perché adesso lui era lì a guardare il fascicolo. Una tazza di pessimo caffè preparato con la moka si stava raffreddando accanto al dossier sulla scrivania, mentre dall’altro lato c’erano una pila di moduli per i rapporti, il cellulare in carica e una copia di “Metro” del giorno prima.
Chi non ci fosse abituato avrebbe trovato impossibile lavorare in quella stanza. Delle altre persone che la occupavano non ce n’era una ferma o in silenzio. C’erano una ventina e più di agenti in movimento, e quasi tutti parlavano, scherzavano o facevano battute volgari, spesso inserendo nel frattempo dati nel computer, o scartabellando dossier, o componendo numeri di telefono, o mangiando focaccine, o scagliando nel cestino pallottole di carta, o trasportando da un capo all’altro dell’ufficio pile di moduli. Era una baraonda infernale. E a Mill piaceva.
Si trovò a domandarsi la prima cosa che si domandava sempre di fronte a un nuovo incarico: perché io? Non era una domanda oziosa. Mill non era, dal punto di vista demografico o psicologico, un tipico poliziotto. Si era laureato in lettere classiche a Oxford, città e università, era figlio di due insegnanti, e si era arruolato nella polizia a mo’ di esperimento con se stesso, per ragioni su cui si interrogava spesso – cercando di osservarsi con distacco – ma che ancora non comprendeva. Voleva togliersi un dubbio riguardo all’autorità, al suo bisogno di autorità, al suo desiderio di esercitarla, al suo apprezzamento per la gerarchia e l’ordine. Come dice il centurione a Gesù: “Pur essendo anch’io un subalterno, ho dei soldati sotto di me, e dico a uno: ‘Va’!’ ed egli va; e a un altro: ‘Vieni!’ ed egli viene; e al mio servo: ‘Fa’ questo!’ ed egli lo fa”. Sì. Lui era così. Uscito cinque anni prima dall’università, in carriera sulla corsia privilegiata riservata ai laureati, sapeva bene che i colleghi lo consideravano una mezzasega; non che lo fosse davvero ma, considerato il cocktail fra classe sociale e titolo di studio, si trovava nella condizione di dire o fare a ogni piè sospinto cose tipicamente da mezzasega. Come se per lui fare il poliziotto fosse un capriccio, uno stile di vita invece che la sua natura profonda. Gli dispiaceva che lo vedessero così, però nel profondo di sé doveva ammettere che non avevano del tutto torto. Quindi aveva imparato a stare attento.
Mill voleva fare la differenza, qualunque cosa significasse – era un’espressione cui pensava molto. Era cristiano – non aveva mai smesso di esserlo, e lo era fin da bambino – e voleva condurre una vita buona. Ma che cosa ciò significasse non era affatto scontato. Presumibilmente fare la differenza significava o fare cose che gli altri non potevano o volevano fare, oppure fare il proprio mestiere meglio di quanto facessero loro. Dunque era una questione di margine di differenza. La differenza fra il tipo di poliziotto che era lui e il tipo che qualcun altro sarebbe stato. Se lui era, per esempio, meglio del 15 per cento rispetto a un altro ispettore investigativo alla sua centrale, allora la differenza che lui faceva era quella, 15 per cento. Era quello il suo margine di utilità. Era sufficiente? C’erano giorni in cui riteneva di sì e giorni in cui riteneva di no. La sua fidanzata Janie pensava che fosse pazzo a essere entrato in polizia, e solo adesso, dopo quattro anni, cominciava ad accettare l’idea che in qualche strano modo gli si addicesse.
Il che non significava che non pensasse mai di mollare e fare altro. Ci pensava, quasi ogni giorno. Quel pensiero era una valvola di sicurezza: poter lasciare quando gli pareva era una delle cose che gli permettevano di andare avanti. La via di fuga era sempre lì in vista. L’idea lo aiutava a tenere duro e ad affrontare le parti sgradevoli del suo mestiere e della sua giornata.
Una di queste parti sgradevoli, sotto forma dell’agente Dawks, stava puntando verso la sua scrivania in quel preciso momento. Dawks aveva una decina d’anni più di lui e non sarebbe mai stato altro che un agente. Mill aveva fatto due anni di gavetta e poi era stato nominato ispettore nell’ambito del piano di promozioni accelerate inventato negli anni Ottanta per attirare più laureati nelle forze dell’ordine. Aveva funzionato, e aveva attirato anche un certo risentimento nei confronti della gioventù dorata che accedeva senza alcuno sforzo a posti cui i poliziotti normali non avrebbero mai potuto ambire. Inoltre, c’era il fatto che Mill – come a volte accade ai ventiseienni mingherlini di buona famiglia astemi e non fumatori – dimostrava la metà dei suoi anni. Come investigatore, ciò talvolta era un vantaggio. Non in centrale però. A causa della presenza, per esempio, di uomini come Dawks, un trentacinquenne di stazza notevole e scarsa intelligenza cui non interessava tanto la legge in sé quanto il farla rispettare. Dawks era un attaccabrighe nato, che nei nove mesi dacché si conoscevano aveva fatto numerosi tentativi di prendere di mira Mill, come uno squalo che gira intorno a una potenziale preda; Mill finora l’aveva tenuto a bada, ma era chiaro che Dawks aspettava soltanto un’altra occasione. L’idea era individuare un punto debole da poter sfruttare, qualcosa su cui Mill fosse vulnerabile, per metterlo in ridicolo. Se ci fosse riuscito, sarebbe stato difficile risollevarsi. Mill era apprezzato, ma era anche sufficientemente eccentrico da rappresentare un buon bersaglio, una volta che fosse stata gettata una testa di ponte.
Per quel giorno la scampò. Proprio quando si trovava a due metri dalla sua scrivania e stava per aprire bocca, Dawks fu chiamato all’altro capo della stanza da uno dei sergenti di custodia. L’agente si fermò e tornò indietro, non senza aver prima rivolto un’ultima occhiata a Mill. Come dire che non era finita lì. Rimettendosi al lavoro, Mill prese il fascicolo e ricominciò a sfogliarlo, ponendosi di nuovo la domanda: perché io? Il capo di Mill, la soprintendente Wilson, era una quarantacinquenne azzimata dai capelli scuri e dai modi suadenti, un altro prodotto del piano di promozioni accelerate. Era una politica nata, la più talentuosa che lui avesse mai visto, soprattutto quando si trattava di annusare i guai per tempo, di evitare i trabocchetti e di capire quali cose avrebbero fatto una brutta impressione se andavano storte. Ciò la rendeva una poliziotta cauta ma non necessariamente malvagia. Se si era rivolta a lui, presumeva Mill, era perché lo considerava del suo stesso stampo. Spesso gli sbolognava problemi con un’implicazione politica, reale o potenziale. Per metà era un complimento, perché significava che si fidava di lui, e per metà un insulto, perché significava che lui le somigliava.
In ogni caso, le istruzioni erano state esplicite. «Scopri che cosa sta succedendo, e fa’ che non succeda più.»
Dunque la prima domanda era: che cosa stava succedendo? Il fascicolo sulla scrivania era stato messo insieme dalle parti lese, i proprietari delle case di una strada del circondario chiamata Pepys Road. Erano vittime di quella che definivano “una campagna di molestie prolungate”. Avevano scritto una classica lettera di reclamo borghese, studiata a bella posta per esercitare il massimo della pressione sui canali ufficiali. A quanto dicevano, la campagna era cominciata con una serie di cartoline che riportavano immagini delle loro porte d’ingresso, poi con video che mostravano la loro via, e anche con un blog anonimo con le fotografie delle case, scattate a ore diverse in un lungo arco di tempo. Tutto quel materiale, senza eccezione, recava lo slogan o motto o ingiunzione o minaccia “Vogliamo Quello Che Avete Voi”.
Mill riattivò il suo computer e andò a vedere la pagina web. Passò mezz’oretta a esplorarla e un’altra ventina di minuti a guardare il materiale recapitato nelle buche delle lettere. Le cartoline provenivano da ogni angolo di Londra, e la grafia dell’indirizzo era sempre la stessa: stampatello in inchiostro nero. Non c’erano altre scritte, a parte le solite cinque parole ripetute ogni volta. Nel frattempo Mill cominciò a trovare una risposta alla sua domanda e a capire perché quel compito era toccato a lui. C’era qualcosa di disturbante in quel materiale. Era difficile dire cosa ci fosse sotto, ed era difficile non percepire qualcosa di sinistro. Qualcuno si stava interessando troppo a quella via, a quelle case e alle persone che vi abitavano. Non andava bene. Però non era stato commesso un crimine vero e proprio. Forse chi stava facendo tutto ciò era stato attento... a non violare la legge. Sul suo taccuino, Mill si appuntò:
molestie
violazione di domicilio?
violazione della privacy?
comportamento antisociale
Poi infilò alcune cartoline e i dvd in una busta per le prove e compilò i moduli per richiedere il rilevamento delle impronte digitali. Non che si aspettasse un granché, ma andava fatto. Quanto al problema principale, e c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Pepys Road
  3. Prologo
  4. Parte prima - DICEMBRE 2007
  5. Parte seconda - APRILE 2008
  6. Parte terza - AGOSTO 2008
  7. Parte quarta - NOVEMBRE 2008
  8. Copyright