Il paradiso dei lettori innamorati
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Il paradiso dei lettori innamorati

Conversazioni con grandi scrittori sui film che amiamo e detestiamo

  1. 168 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il paradiso dei lettori innamorati

Conversazioni con grandi scrittori sui film che amiamo e detestiamo

Informazioni su questo libro

Quali sono i film della nostra vita, quelli che ci hanno emozionato di più e ai quali torniamo volentieri con il cuore e la mente? A tanti sarà capitato, in una serata tra amici, di elencare i film preferiti. È una scelta nella quale, oltre al valore della pellicola, hanno un ruolo il luogo, l'occasione e la compagnia ma che, certo, nasconde anche una parte intima e profonda di tutti noi. Ma cosa succede quando a guardare un film è uno scrittore? È possibile che il suo linguaggio, i temi che tratta e il suo mondo poetico ne siano in qualche modo influenzati? Perché preferisce un film anziché un altro? E, se è uno scrittore il cui mondo interiore avvertiamo affine, amerà pellicole a noi care?
Antonio Monda, che dedica la sua vita alla letteratura e al cinema, ed è da sempre interessato al rapporto tra la parola scritta e l'immagine, offre in queste pagine una risposta originale. Intervistando venti scrittori di lingua inglese, di età e stili diversi, da Philip Roth a Martin Amis e Don DeLillo, da Chuck Palahniuk a Zadie Smith, e ponendo loro una semplice domanda - "Quali sono i cinque film della tua vita?" -, ha ricevuto la rivelazione di cosa rappresenti nell'intimo l'immagine per chi è capace di trasformarla in parole. Infatti, afferma l'autore, "di cosa parliamo quando parliamo di cinema? Alla fine mi sono reso conto che queste liste di film così diversi rappresentano uno specchio che cattura un momento fuggente, e riflette un'immagine parziale, ma illuminante, della vita di chi li ama. Con tutte le domande che ognuno prima o poi si pone - che cosa è davvero bello? che cosa ha realmente valore? cosa rimane quando si spegne il proiettore e ritorna il buio? - e, con esse, le angosce, le speranze, i rimpianti, gli aneliti e le malinconie". Sono testimonianze che ci aiutano a riflettere sul cinema e la letteratura, a scoprire aspetti inediti e affinità con grandi scrittori, e a ricordare i film che ci hanno catturato e dai quali non siamo più riusciti a staccarci. Un paradiso per i lettori, innamorati dei libri e dei film.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804626954
eBook ISBN
9788852036552
Argomento
Arte
Categoria
Arte generale

Introduzione

ovvero, di cosa parliamo quando parliamo di cinema

Gli attori, come dissi, erano spiriti,
e scomparvero nell’aria leggera.
Come l’opera effimera del mio
miraggio, dilegueranno le torri
che salgono su alle nubi, gli splendidi
palazzi, i templi solenni, la terra
immensa e quello che contiene; e come
la labile finzione, lentamente
ora svanita, non lasceranno orma.
Noi siamo di natura uguale ai sogni,
la breve vita è nel giro d’un sonno
conchiusa.
WILLIAM SHAKESPEARE
La tempesta, IV, 1
Se un giorno qualcuno mi ponesse la domanda che ho fatto ai venti scrittori incontrati per realizzare questo libro, entrerei subito in crisi: non mi è possibile limitare solo a cinque titoli i film della mia vita.
Nel momento in cui si chiede di svelare quali siano le pellicole che hanno segnato un’esistenza, risulta evidente che la domanda non è necessariamente relativa alle opere più belle di tutti i tempi, ma a quelle che hanno rivestito un ruolo determinante, e a volte anche imprescindibile, nella vita dell’intervistato.
È altrettanto evidente che le pellicole possono coincidere con quelle universalmente ammirate (un film della mia vita è, per esempio, Luci della città, che è anche un indiscusso capolavoro), tuttavia le opere di cui stiamo parlando sono quelle alle quali si ritorna nei momenti di commozione e debolezza, di gioia e condivisione: insomma quei film che ci ricordano un momento e un’emozione forte, che forse non c’è più, e che inevitabilmente rimpiangiamo. Che parlano direttamente al cuore e rivediamo sempre con felicità, senza alcuna sovrastruttura intellettuale o atteggiamenti da cinéphile.
Ed è quindi ovvio che la risposta a questa domanda sveli qualcosa sulla personalità dell’intervistato, che va ben oltre il semplice gusto o la preparazione cinematografica.
Oltre a Luci della città, farebbero certamente parte della mia scelta definitiva Il padrino (amo anche la seconda parte, ma il primo episodio rimane a mio avviso un capolavoro perfetto e insuperato. Del terzo preferisco non parlare); Il mucchio selvaggio, Il cacciatore e un film di Fellini.
Sì, certamente Fellini, ma quale dei suoi film? Per molto tempo ho pensato Le notti di Cabiria, ma poi ricordo le emozioni che mi hanno dato 8½ («Asa Nisi Masa»: solo a pensarci rabbrividisco; per non parlare di quella battuta nel finale: «È una festa la vita, viviamola insieme…») e La dolce vita (la statua di Cristo che vola sui tetti di Roma, Anita Ekberg nella fontana di Trevi, il finale sulla spiaggia…). O Amarcord, I vitelloni, Roma, Toby Dammit… insomma, per Fellini, che ritengo il più grande regista di tutti i tempi, chiederei un’eccezione che contemplasse l’intera cinematografia, anche se ci sono un paio di film che non ho mai digerito. Ma solo un paio, vi assicuro.
E a questo punto cominciano i problemi: come faccio a sopravvivere senza inserire nella lista almeno un film di Billy Wilder? E quale? Mi viene da pensare subito a L’appartamento, ma poi mi dico che solo un pazzo potrebbe escludere Viale del tramonto. Per non parlare di A qualcuno piace caldo, La fiamma del peccato, Sabrina, Prima pagina, Testimone d’accusa. Insomma, ecco subito una seconda eccezione. Alla quale fa seguito una terza: John Ford, e poi una quarta, Alfred Hitchcock. E una quinta, Ingmar Bergman. E una sesta: Akira Kurosawa…
Fermiamoci qui. Perché mentre scrivo mi sono venuti immediatamente in mente almeno altri cento titoli che mi vergogno di non aver già inserito nella prima lista: Il Gattopardo, Chinatown, Il posto, Incontri ravvicinati del terzo tipo, Magnolia, Umberto D., almeno tre film di Stanley Kubrick (Arancia meccanica, Orizzonti di gloria, Barry Lyndon) altrettanti di John Huston (I morti, Il mistero del falco, L’uomo che volle farsi re), Il piccolo grande uomo, con quel finale meraviglioso, L’albero della vita, per il coraggio di essere nel mondo ma non del mondo. E poi i film di Frank Capra, che scoprii da piccolo vedendo in televisione una serie intitolata Un ottimista a Hollywood. Non saprei quale film scegliere, forse La vita è meravigliosa e Angeli con la pistola, ma pensando a Mr. Smith va a Washington capisco subito di aver bisogno per Capra di una nuova eccezione, la settima.
Nessuno, come questo regista nato a Bisacquino, in Sicilia, e trasferito in America a sei anni, mi ha fatto capire che si può essere fedeli alle proprie radici e insieme immersi nella cultura che ci adotta (un tema a me molto caro, dal momento che sono un emigrante di lusso); che non bisogna aver paura dei sentimenti, e che non è impossibile essere un autentico artista lavorando all’interno di un’industria che non a caso in America è definita la «fabbrica dei sogni». Questa constatazione nacque di fronte al televisore in bianco e nero della mia infanzia, con un critico che spiegava che Capra produceva i suoi film e lavorava per lo studio system, e lo diceva con un tono implicitamente negativo, il cui sottotesto era: Capra è un artista nonostante lavori al servizio di un sistema capitalista. Ma la bellezza di quei film, concepiti per essere apprezzati da chiunque, spazzò via la tesi di quel critico, che peraltro capovolgeva l’essenza più intima della realtà esistenziale e professionale di Capra. In quei giorni imparai ad apprezzare un grandissimo regista e, paradossalmente, la lettura ideologica di quel critico avviò in me una riflessione sul rapporto tra arte e industria che da allora continuo a svolgere, al punto che uno dei corsi che tengo tuttora alla New York University è dedicato proprio a come sia possibile essere un «autore» a Hollywood, e conciliare la necessità di esprimere il proprio mondo creativo con le esigenze di un’industria governata dalla logica del profitto.
Insomma, la lista dei film che hanno segnato la mia vita sarebbe infinita, e continua a ingrandirsi mentre scrivo: come non includere, per esempio, anche i grandi film americani degli anni Settanta, quelli della cosiddetta «Nuova Hollywood», che più di ogni altro mi hanno fatto innamorare del cinema quando ero adolescente: Quel pomeriggio di un giorno da cani, American Graffiti, Qualcuno volò sul nido del cuculo, Pat Garrett & Billy the Kid, Apocalypse Now, Lo squalo, Sugarland Express. O i film di Woody Allen, tra i quali mi viene subito in mente Manhattan, ma poi aggiungo subito La Rosa purpurea del Cairo, Zelig, Io e Annie, Crimini e misfatti e Broadway Danny Rose. In quegli stessi anni di timidezze adolescenziali vidi un film considerato assurdamente minore come L’uomo dai sette capestri, anche questo di John Huston. Ricordo la commozione per l’amore non corrisposto e pieno di devozione che il giudice Roy Bean (Paul Newman, grande come poche volte) provava per Lilie Langtry (Ava Gardner). E la canzone Red Rose of Texas, che mi faceva sognare e pensare a qualcosa di indefinito della mia infanzia, sebbene io con il Texas e la giustizia a ovest del Rio Pecos avessi poco a che fare.
E quanto è stato importante per me Guerre stellari? Ricordo esattamente il cinema nel quale lo vidi la prima volta, l’emozione di fronte a Luke Skywalker che si incanta di fronte a due lune arrossate al tramonto, e poi quel bar dello spazio, dove scoppia all’improvviso una rissa, e una creatura si volta appena a guardare cosa succede, infastidita, perché cose del genere in quel posto accadono ogni giorno.
E ricordo il ritorno a casa in motorino con un amico, all’insaputa di mia madre, che non lo avrebbe mai permesso, e la colonna sonora di John Williams cantata a squarciagola nei sottopassaggi del Muro Torto, a Roma, come se dovessimo conquistare il pianeta Tatooine, e difendere fino all’ultima goccia di sangue la galassia dalle mire di Darth Vader e del perfido Imperatore. Pioveva, quel pomeriggio (all’epoca andavo al cinema prima di cena, cosa che ho ripreso a fare con grande piacere da adulto), e nei riflessi bagnati del Muro Torto cercavo qualcosa che evocasse una galassia lontana di tanti tanti anni fa, i soldati con l’uniforme bianca, e i pretoriani di Darth Vader, che appaiono solo per pochi secondi, ma con quel rosso solleticano la fantasia su nuove galassie, nuovi guerrieri, nuove creature, nuovi amori.
O, poi qualche anno più tardi, E.T., che vidi con una fidanzata dell’epoca in un’arena estiva. Tirava un forte vento e vedemmo tutto il film sotto un plaid: fu un momento di felicità pura che raggiunse il punto più alto quando i bambini cominciano a volare in bicicletta e le loro silhouette si stagliano sullo sfondo di una luna gigante. Credo che l’emozione di quella scena mi spinse a fare a quella dolcissima ragazza qualche promessa più grande delle mie possibilità e, soprattutto, dei miei sentimenti. Ma questo è il bello dei grandi film: ti danno, per qualche secondo, l’illusione dell’eternità.
La lista dei film della vita è segnata per ognuno di noi da dove li abbiamo visti, in quale occasione e con chi. E, per quanto mi riguarda, ho sempre creduto che fosse assolutamente vero anche per il cinema quello che Isaac Bashevis Singer diceva riguardo alla letteratura: «Non c’è paradiso per un lettore annoiato».
Ci sono film che mi catturano irreversibilmente nel momento in cui mi imbatto, anche di sfuggita, in una sola immagine, e dai quali non riesco più a staccarmi finché non li rivedo sino alla fine. Forse è questa la caratteristica fondamentale della lista dei primi cinque film, e probabilmente nessuno come Il padrino ha questa peculiarità: ne aspetto le scene madri (la testa di cavallo nel letto del produttore, l’uccisione di Sollozzo, il ferimento di don Vito, Clemenza che spiega a Michael come preparare il sugo, l’intero matrimonio), i gesti inimitabili (il modo in cui Marlon Brando si gratta la guancia con il dito anulare mentre parla con Amerigo Bonasera; la maniera in cui cammina Al Pacino quando spiega a Diane Keaton che non c’è differenza tra il padre e un qualunque uomo d’affari di successo) e ne anticipo le battute: «Amo l’America», «È una offesa alla mia intelligenza», «Gli ho fatto una proposta che non poteva rifiutare», «Credevi di poter fregare un Corleone?», «Cosa ho fatto per essere trattato così senza rispetto?», «Luca Brasi dorme con i pesci», «Si va ai materassi», «Lascia la pistola, prendi i cannoli», «Niente di personale, solo affari» e «Siamo due facce della stessa ipocrisia», che in realtà è pronunciata nella seconda parte al senatore corrotto che ha osato ricattare Michael Corleone.
Ma forse nessun momento mi commuove come quello in cui Morgana King, nel ruolo della moglie di don Vito, canta al matrimonio della figlia C’è la luna mmiezz’ ’o mare e poi le manda quel bacio dicendo «Figlia mia benedetta». In quella scena, che si conclude con don Vito che danza insieme alla figlia Connie sulle note del valzer di Nino Rota, Coppola compie il miracolo di farci comprendere che quella famiglia di spietati e violenti criminali è composta da uomini e donne che hanno gli stessi nostri sentimenti.
In tutta la saga del Padrino Morgana King appare per pochi secondi, e in seguito ha interpretato pochissimi altri film. Ma in quel momento straordinario, in cui canta una canzone della sua terra abbandonata e manda un bacio di benedizione alla figlia, dimostra quanto avesse ragione Hitchcock sostenendo che non esistono grandi ruoli e piccolo ruoli, ma grandi interpreti e piccoli interpreti.
Il padrino è un capolavoro assoluto, e credo che lo siano tutti i cinque film della mia lista (come gran parte di quelli che, dolorosamente, non riesco a inserire). Tuttavia, è necessario ribadire che i film della vita non hanno necessariamente un alto valore artistico: ce ne sono alcuni che rivedrei sempre, con la consapevolezza di non trovarmi di fronte a un’opera d’arte. Come per esempio Il fantasma del palcoscenico di Brian De Palma, che vidi da ragazzino e mi colpì per mille motivi: la storia a tinte fosche che mi sembrava così originale (all’epoca ignoravo l’esistenza del Fantasma dell’opera), le canzoni molto orecchiabili, la strana fusione della struttura immaginata da Gaston Leroux con il mito di Faust e, non ultimo, la cotta che presi per Jessica Harper, che seguii in tutti i suoi film fin quando non decise di sposare un mogul e sparire dallo schermo, con mio grande sconforto. So bene che ci sono molti altri film di Brian De Palma più interessanti, a cominciare dal magnifico Carlito’s Way, ma probabilmente nessuno mi emoziona come quello strano horror rock.
Un altro film che ha significato molto per me è stato I guerrieri della notte di Walter Hill, e credo che sia in assoluto anche un bel film. Ma, ripeto, il punto non è questo. Lo mostro spesso ai miei studenti universitari, spiegando che è modellato sull’Anabasi di Senofonte. Tuttavia, ogni volta che comincio a dilungarmi su questo aspetto, mi chiedo se tale riferimento serva per aumentarne il valore ai miei occhi o sia invece un riconoscimento sincero di quello che può fare il grande cinema popolare americano rielaborando gli archetipi classici. Di Hill apprezzo anche altri film, come Driver l’imprendibile e Strade di fuoco, ma I guerrieri della notte, nonostante racconti una New York violenta, povera e quasi deserta, ha contribuito a farmi innamorare della città nella quale mi sono trasferito a vivere. E, anche in questo caso, ricordo a memoria le scene, le battute, i gesti, a cominciare dal discorso delirante di Cyrus («Can you count, suckers? I say, the future is ours... if you can count!... Can you dig it?») e dall’invito estenuato e inquietante del malvagio Luther «Warriors, come out to play-i-ay».
E non posso dimenticare La notte di San Lorenzo, di Paolo e Vittorio Taviani, non solo perché è un film bellissimo e pieno di poesia, che riesce a mescolare – cosa rara per il cinema italiano – la quotidianità con l’epica, ma anche perché è il primo del quale ho seguito le riprese, scoprendo finalmente come si crea il cinema. E di che materia sono fatti i sogni.
Non ho alcun merito nella riuscita artistica del film (il mio ruolo era quello di assistente alla regia prestato alla fotografia di scena a causa di un budget molto limitato), ma quell’opera profondamente italiana, di due maestri a cui devo molto anche sul piano personale, mi ha arricchito di uno sguardo diverso, che mi ha aiutato a non sbandare eccessivamente nella direzione del cinema americano.
Ci sono poi film che mi appartengono per il tema trattato (Luci d’inverno di Bergman), altri che trovo imprescindibili soprattutto per alcune sequenze, come I cancelli del cielo di Michael Cimino (quella meravigliosa scena di danza con i pattini, ambientata a Casper, nel Wyoming, un luogo dove non sono mai stato eppure mi ricorda la Sila della mia infanzia), o Salvate il soldato Ryan, con quella prodigiosa sequenza di guerra iniziale, forse la più potente mai realizzata sullo schermo, che si conclude con l’immagine folgorante dei cadaveri nelle acque arrossate dal sangue, dove galleggiano anche molti pesci uccisi. Chissà se Spielberg aveva in mente il verso di García Lorca: «también se muere el mar». È possibile che non ci abbia pensato, e forse che neanche lo conosca, ma anche queste intuizioni e queste affinità tra artisti rivelano la materia di cui sono fatti i sogni del cinema.
E ci sono film che accarezzano il mio animo più romantico, come Robin e Marian (Richard Lester: un altro grande regista assurdamente dimenticato), che citai goffamente in una pellicola che ho diretto quando pensavo che avrei raggiunto la felicità solo realizzando film.
Ho sempre amato le commedie, e ritengo che non ci sia un fallimento peggiore di un film comico che non faccia ridere. Tra i prediletti eleggo Hollywood Party e molti film di Totò. E anche in questo caso la scelta è dura: è meglio Totò, Peppino e la malafemmina o La banda degli onesti? Totò tru...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il paradiso dei lettori innamorati
  3. Dello stesso autore
  4. Introduzione
  5. Martin Amis
  6. Paul Auster
  7. Don DeLillo
  8. E.L. Doctorow
  9. Nathan Englander
  10. Jeffrey Eugenides
  11. Jonathan Franzen
  12. A.M. Homes
  13. Jhumpa Lahiri
  14. Jonathan Lethem
  15. Colum McCann
  16. Patrick McGrath
  17. Daniel Mendelsohn
  18. Chuck Palahniuk
  19. Annie Proulx
  20. Philip Roth
  21. Cathleen Schine
  22. Zadie Smith
  23. Gay Talese
  24. Donna Tartt
  25. Ringraziamenti
  26. Copyright