
- 644 pagine
- Italian
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eBook - ePub
I figli della mezzanotte
Informazioni su questo libro
I "figli della mezzanotte" sono i bambini nati il 15 agosto 1947, allo scoccare della mezzanotte: il momento, cioè, in cui l'India proclamò la propria indipendenza. Possiedono tutti doti straordinarie: forza erculea, capacità di diventare invisibili e di viaggiare nel tempo, bellezza soprannaturale. Ma nessuno è capace di penetrare nel cuore e nella mente degli uomini come Saleem Sinai, il protagonista di questo romanzo che, ormai in punto di morte, racconta la propria tragicomica storia; una vicenda surreale attorno a cui si dipana una grandiosa saga familiare, un magnifico canto corale sullo sfondo della storia dell'India del Ventesimo secolo.
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Informazioni
Argomento
LetteraturaCategoria
Letteratura generaleLIBRO SECONDO
Il dito puntato del pescatore
È possibile essere gelosi di parole scritte? Detestare annotazioni notturne come se fossero carne e sangue di una rivale in amore? Non so trovare altra ragione per il curioso comportamento di Padma; e questa spiegazione ha se non altro il merito di essere bizzarra quanto la collera che la prese quando, stanotte, commisi l’errore di scrivere (e di leggere ad alta voce) una parola che non avrei mai dovuto pronunciare... Sin dall’episodio della visita del medicone, ho sentito in Padma una strana scontentezza che esalava enigmatici odori dalle sue ghiandole eccrine (o apocrine). Angustiata, forse, dalla futilità dei suoi tentativi di mezzanotte di risuscitare “l’altra mia matita”, l’inutile cetriolo nascosto nei miei calzoni, è diventata una musona. (E c’è stata anche, ieri sera, l’incontrollata reazione alla rivelazione del segreto della mia nascita e l’irritazione per la mia bassa opinione della somma di cento rupie.) È colpa mia: immerso nella mia impresa autobiografica, non ho saputo tener conto dei suoi sentimenti, e ho cominciato stasera toccando la più sciagurata delle note false.
«Condannato da un lenzuolo perforato a una vita di frammenti,» scrissi e lessi ad alta voce «me la sono tuttavia cavata meglio di mio nonno; perché Aadam Aziz rimase vittima del lenzuolo, io ne sono diventato il padrone – ed è Padma che ora è soggetta al suo incantesimo. A lei, seduta nella mia magica ombra, mi degno di offrire quotidianamente immagini fugaci di me stesso – mentre la mia accovacciata osservatrice resta lì affascinata, indifesa come una mangusta costretta all’immobilità dagli occhi fissi, imperiosi di un serpente, paralizzata – ma sì! – dall’amore.»
Era questa la parola: amore. Scritta e pronunciata, fece salire la sua voce a un livello insolitamente acuto, fece sgorgare dalle sue labbra una violenza che mi avrebbe certamente ferito se fossi ancora vulnerabile alle parole. «Amare te?» strillò sdegnata la nostra Padma. «E per quale motivo, Dio mio? A che cosa servi principino,» – e ora il tentativo di infliggermi il colpo di grazia – «come amante?» Braccio teso, capelli scintillanti alla luce della lampada, puntò un indice sprezzante verso i miei lombi effettivamente non funzionanti, un dito lungo e spesso, irrigidito dalla gelosia, che purtroppo servì solo a ricordarmi un altro dito da tempo perduto... dopo di che, vedendo che la sua freccia non aveva colpito il bersaglio, strillò: «Tu sei un pazzo furioso! Aveva ragione il dottore!» e si precipitò sconvolta fuori della stanza. Udii passi che ticchettavano giù per la scala metallica verso il pianterreno della fabbrica; piedi che correvano tra i mastelli di pickle avvolti nei loro scuri sudari; e una porta, prima aperta, poi sbattuta.
Così abbandonato, sono tornato, non avendo scelta, al mio lavoro.
Il dito puntato del pescatore: indimenticabile punto focale del quadro appeso a una parete azzurro-cielo di Villa Buckingham, esattamente sopra la culla azzurro-cielo dove io, come piccolo Saleem, bambino della mezzanotte, trascorsi i miei primissimi giorni. Il giovane Raleigh – e chi altro? – sedeva in una cornice di tek, ai piedi di un vecchio e ruvido pescatore che stava rattoppando reti – aveva anche baffi da tricheco? – il cui braccio destro, teso in tutta la sua lunghezza, indicava un acquatico orizzonte, mentre i suoi liquidi racconti gorgogliavano intorno alle orecchie affascinate di Raleigh – e di chi altro? Perché nel quadro c’era chiaramente anche un altro ragazzo, che sedeva a gambe incrociate col suo colletto a gale e una casacca abbottonata... e ora riaffiora in me un ricordo, una festa di compleanno in cui una madre orgogliosa e un’ayah altrettanto fiera fecero indossare a un bimbo dal naso gargantuesco un colletto proprio come quello e una casacca proprio come quella. Un sarto, seduto in una stanza azzurro-cielo, sotto il dito puntato, copiava l’abbigliamento dei milord inglesi... «Ma come è carino!» esclamò Lila Sabarmati, con mia eterna mortificazione. «Sembra appena uscito dal quadro!»
In un quadro appeso alla parete di una camera da letto, io sedevo accanto a Walter Raleigh e seguivo con gli occhi il dito puntato di un pescatore; e gli occhi si sforzavano di raggiungere l’orizzonte, oltre il quale c’era – che cosa? – il mio futuro, forse; il mio speciale destino, di cui fui consapevole sin dall’inizio, come di una grigia baluginante presenza, in quella camera azzurro-cielo, all’inizio confusa ma impossibile da ignorare... perché il dito puntava ancora oltre quel baluginante orizzonte, oltre la cornice di tek, trascinando i miei occhi, di là da una breve distesa di parete azzurro-cielo, verso un’altra cornice, nella quale era appeso il mio inevitabile destino, fissato per sempre sotto vetro; c’erano infatti un’istantanea infantile di dimensioni gigantesche con la sua profetica didascalia, e, accanto, una lettera su pergamena d’alta qualità, con il sigillo dello Stato impresso in rilievo – i leoni di Sarnath sopra il dharma-chakra – sul messaggio del Primo ministro, che arrivò, tramite il postino Vishwanath, una settimana dopo la pubblicazione della mia fotografia nella prima pagina del «Times of India».
Giornali mi celebrarono; politici ratificarono la mia posizione. Jawaharlal Nehru scrisse: “Caro piccolo Saleem, le mie tardive congratulazioni per il caso felice del momento della tua nascita! Sei il più nuovo portatore di quell’antica faccia dell’India che è anche eternamente giovane. Noi tutti seguiremo la tua vita con la massima attenzione; sarà in un certo senso uno specchio della nostra”.
E Mary Pereira, impressionata: «Il governo, signora? Terrà d’occhio il ragazzo? Ma perché, signora? Cos’ha fatto di male?». E Amina? senza accorgersi della nota di panico nella voce dell’ayah: «È solo un modo di dire, Mary; non parla sul serio». Ma Mary non si calma; e sempre, ogni volta che entra nella camera del bimbo, i suoi occhi guizzano spaventati verso la lettera incorniciata; si guardano attorno cercando di scoprire se il governo sta sorvegliando; sono occhi che si domandano: che cosa possono sapere? Che qualcuno abbia visto?... In quanto a me, cresciuto, non ero del tutto convinto della spiegazione di mia madre; che comunque cullò in me un senso di falsa sicurezza; al punto che, benché i sospetti di Mary fossero in parte filtrati dentro di me, rimasi egualmente sbalordito quando...
Ma forse il dito del pescatore non indicava la lettera incorniciata; perché se continuavi a seguirlo, ti conduceva oltre la finestra, giù per la collinetta a due piani, di là da Warden Road, dopo Breach Candy Pools, a un altro mare, che non era quello del quadro; un mare sul quale le vele dei sambuchi koli splendevano scarlatte nel sole al tramonto... un dito accusatore, dunque, che ti obbligava a guardare i diseredati della città.
O forse – e l’idea, nonostante il caldo, mi fa un po’ rabbrividire – era un dito ammonitore, e il suo scopo era attirare l’attenzione su se stesso; ma sì, poteva essere, perché no, la profezia di un altro dito, un dito non dissimile da sé, il cui intervento nella mia storia avrebbe scatenato la terribile logica di Alfa e Omega... Dio mio, che idea! Quanta parte del mio futuro era appesa sopra la mia culla, solo aspettando che io la capissi? Quanti avvertimenti mi furono dati – quanti ne ignorai?... Ma no, non diventerò un “pazzo furioso”, per usare l’eloquente espressione di Padma. Non soccomberò alle digressioni folli; almeno finché avrò la forza di resistere alla follia.
Quando Amina Sinai e il piccolo Saleem tornarono a casa sulla Studebaker ottenuta in prestito, Ahmed Sinai aveva con sé una busta di manila. All’interno: un vasetto di pickle, svuotato del suo kasaundy alla limetta, lavato, bollito, sterilizzato – e poi riempito di nuovo. Un vasetto perfettamente chiuso, con un diaframma di gomma steso sul coperchio di latta e tenuto fermo da un elastico attorcigliato. Ma che cosa era racchiuso sotto la gomma, conservato nel vetro, nascosto nella manila? Questo: nel viaggio di ritorno a casa con padre, madre e neonato c’era una certa quantità d’acqua salmastra nella quale, dondolando dolcemente, penzolava un cordone ombelicale. (Il mio o quello dell’Altro? È una domanda a cui non so rispondere.) Mentre la nuova ayah, Mary Pereira, raggiungeva la Proprietà Methwold in autobus, un cordone ombelicale viaggiava invece in grande stile nel cassetto portaoggetti della Studey di un magnate cinematografico. Mentre il piccolo Saleem continuava a crescere, il tessuto ombelicale rimaneva immutato nell’acqua salmastra imbottigliata, in fondo a un almirah di tek. E quando, anni dopo, la nostra famiglia andò in esilio nella Terra dei Puri, quando io mi sforzai di pervenire alla purezza, i cordoni ombelicali avrebbero avuto per un attimo la loro giornata.
Niente venne buttato via; si conservarono sia il bambino sia la placenta; arrivarono entrambi alla Proprietà Methwold; aspettavano entrambi il loro momento.
Non ero un bel bambino. Le istantanee infantili rivelano che la mia faccia di luna piena era troppo grande; troppo rotonda. Mancava qualcosa dalle parti del mento. Una pelle chiara s’arrotondava sui miei lineamenti – ma la deturpavano le voglie; macchie nere si propagavano dall’attaccatura occidentale dei capelli, una chiazza scura colorava il mio orecchio orientale. E le tempie: troppo prominenti: bulbose cupole bizantine. (Sonny Ibrahim e io eravamo nati per essere amici – quando cozzavano le nostre fronti, le tacche di Sonny, prodotte dal forcipe, permettevano alle mie tempie bulbose di rannicchiarvisi confortevolmente, come i giunti d’un falegname.) Amina Sinai, incommensurabilmente sollevata dalla mia unica testa, le guardava con raddoppiato affetto materno, vedendole attraverso una nebbiolina che le abbelliva, ignorando la gelida eccentricità dei miei occhi azzurro-cielo, le tempie simili a corna rachitiche e persino quel rigoglioso cetriolo del mio naso.
Il naso del piccolo Saleem era mostruoso; e gocciolava.
Aspetti interessanti degli inizi della mia vita: grosso e tutt’altro che bello, non ero soddisfatto. Sin dai primissimi giorni intrapresi un eroico programma di ingrossamento. (Quasi sapessi che, per reggere il peso della mia vita futura, avevo bisogno di diventare piuttosto voluminoso.) A metà settembre avevo già prosciugato di latte il seno, non certo trascurabile, di mia madre. Venne assunta una balia, che batté in ritirata, ormai arida come un deserto, dopo quindici giorni, accusando il piccolo Saleem di voler strapparle a morsi i capezzoli con le sue sdentate gengive. Passai al biberon e scolai quantità enormi di miscela; e anche le tettarelle soffrirono, avvalorando così le lamentele della balia. Venne tenuta una meticolosa documentazione dei progressi del bimbo; ne risulta che io m’allargavo quasi a vista d’occhio, giorno dopo giorno; ma purtroppo non furono prese le misure del naso e quindi non so se il mio apparato respiratorio crebbe proporzionalmente al resto, o più in fretta. Devo comunque dire che avevo un sano metabolismo. I rifiuti venivano abbondantemente evacuati dagli appositi orifizi; e dal mio naso fluiva una luccicante cascata di moccio. Armate di fazzoletti, reggimenti di pannolini andavano a finire nel cassone del bucato nel bagno di mia madre... cosparsi degli scarti provenienti dalle più diverse aperture. Gli occhi invece li tenevo piuttosto asciutti. «È tanto un bravo bambino, signora» diceva Mary Pereira. «Mai una lacrima.»
Il bravo piccolo Saleem era un bambino silenzioso; ridevo spesso, ma senza rumore. (Come mio figlio, valutavo anzitutto la situazione, ascoltando bene prima di passare ai farfugliamenti e, in un secondo tempo, alle parole.) Per un certo periodo Amina e Mary temettero che il ragazzo fosse muto; ma proprio quando stavano per informarne il padre (al quale non avevano ancora comunicato le proprie ansie – non c’è padre che voglia un figlio minorato), lui cominciò a emettere suoni e divenne, almeno sotto quell’aspetto, assolutamente normale. «Sembra quasi,» sussurrò Amina a Mary «che abbia voluto rassicurarci.»
C’era anche un altro problema, più grave. Amina e Mary ci misero qualche giorno per accorgersene. Affaccendate nei poderosi e complicati processi per trasformarsi in una madre a due teste, con la visione ottenebrata da una nebbia di pannolini puzzolenti non si resero conto dell’immobilità delle mie palpebre. Amina, ricordando che, durante la sua gravidanza, il peso del nascituro aveva immobilizzato il tempo come un verde stagno morto, cominciò a temere che ora stesse accadendo il contrario – come se il piccolo avesse qualche potere magico su tutto il tempo nelle sue vicinanze immediate, e lo stesse ora accelerando al punto che la madre-e-ayah non avevano mai tempo a sufficienza per fare tutto ciò che doveva esser fatto e che il piccolo cresceva a un ritmo apparentemente fantastico; smarrita in queste fantasie cronologiche, non si accorse del mio problema. Solo quando riuscì ad accantonare l’idea e si convinse che ero semplicemente un bambinone robusto con un grande appetito e uno sviluppo precoce, i veli dell’amor materno si scostarono quanto bastava per permettere a lei e a Mary di gridare all’unisono: «Guarda, haap-re-baap! Guardi, signora! Guarda Mary! Il bambino non batte mai le palpebre!».
Gli occhi erano troppo azzurri: azzurri-Kashmir, azzurri-scambiato-nella-culla, azzurri con il peso di lacrime non versate, troppo azzurri per battere. Quando mi nutrivano, i miei occhi restavano immobili; quando la verginale Mary mi prendeva in spalla strillando: «Oh, come sei pesante, Gesù caro!» ruttavo senza sbattere le palpebre. Quando Ahmed Sinai s’avvicinava, zoppicando col suo alluce steccato, alla mia culla, rispondevo alle labbra sporgenti con uno sguardo attento e senza batter ciglio... «Forse ci sbagliamo, signora» suggeriva Mary. «Forse il piccolo sahib ci copia – batte le palpebre quando le battiamo noi.» E Amina: «Le batteremo a turno e lo terremo d’occhio». E con le palpebre che s’aprivano e si chiudevano in alternanza, osservarono il mio gelido azzurro; ma non vi scorsero il minimo tremito; fin quando Amina non prese le redini della situazione e non allungò una mano nella culla per accarezzarmi le palpebre dall’alto in basso. Allora si chiusero: e il mio respiro immediatamente si modificò, adeguandosi ai ritmi soddisfatti del sonno. E per parecchi mesi, madre e ayah stabilirono turni per aprirmi e chiudermi le palpebre. «Imparerà, signora» diceva Mary per confortare Amina. «È un bravo bambino obbediente e scoprirà di certo come si fa.» Imparai: la prima lezione della mia vita: nessuno può affrontare il mondo tenendo continuamente gli occhi aperti.
Ora, guardandomi indietro con i miei occhi da bambino, riesco a vedere tutto alla perfezione – è incredibile quante cose si ricordino quando ci si prova. Ed ecco che cosa vedo: la città che si crogiola come una sanguisuga nel calore estivo. La nostra Bombay: assomiglia a una mano, ma è in realtà una bocca, sempre aperta, sempre affamata, che inghiotte cibo e talenti da ogni altro luogo dell’India. Un’affascinante mignatta, che non produce nulla se non film, sahariane, pesci... immediatamente dopo la Spartizione, vedo il postino Vishwanath procedere in bicicletta verso la nostra collinetta a due piani, con una busta di pergamena nella sacca, e la sua vecchia Arjuna Indiabike sta passando davanti a un autobus lasciato a marcire – e non perché sia la stagione dei monsoni, ma perché l’autista, avendo improvvisamente deciso di trasferirsi nel Pakistan, ha spento il motore e se n’è andato, piantando in asso un carico di passeggeri nei guai, affacciati ai finestrini, appesi alle maniglie, ammassati nei pressi della porta... Sento le loro imprecazioni, figlio d’un porco, fratello d’un ciuco; ma resteranno aggrappati ai loro posti, conquistati con tanta fatica, per altre due ore, prima di abbandonare l’autobus al suo destino. E poi, e poi: ecco il primo indiano che abbia mai attraversato a nuoto la Manica, il signor Pushpa Roy, arrivare all’ingresso delle Breach Candy Pools. Cuffia da bagno color zafferano in testa, calzoncini verdi avvolti in un asciugamano che ha il colore della bandiera, questo Pushpa muove guerra alla politica di segregazione razziale dei bagni. Ha in mano una saponetta Mysore all’olio di sandalo; s’avvicina; supera il cancello... ma a questo punto dei patani lo afferrano, sono come sempre gli indiani a salvare gli europei da un ammutinamento d’indiani, e lui esce, dibattendosi valorosamente, trascinato per gambe e braccia in Warden Road e scaraventato nella polvere. L’uomo che ha attraversato la Manica si tuffa nella strada, evitando a stento cammelli taxi biciclette (Vishwanath devia per non investire la sua saponetta)... ma non demorde; si risolleva; si spolvera; promette di tornare domani. Per tutta la mia fanciullezza, le giornate furono punteggiate dallo spettacolo di Pushpa il nuotatore, con la sua cuffia zafferano e il suo asciugamano dal colore della bandiera, che si tuffava suo malgrado in Warden Road. E alla fine la sua indomabile lotta risultò vittoriosa, perché oggi i Bagni permettono a certi indiani – “di una certa classe” – di immergersi nelle acque a forma di mappa. Pushpa però non appartiene a questa classe; e ora, vecchio e dimenticato, contempla i bagni da lontano... ed ecco che irrompe in me una moltitudine di altri personaggi – come Bano Devi, la più famosa lottatrice di quei tempi, che si batteva solo con uomini e minacciava di sposare chiunque l’avesse sconfitta, e grazie a questa promessa non perse mai un incontro; e (più vicino a casa) il sadhu sotto il rubinetto del nostro giardino, che si chiamava Purushottam ma che noi (Sonny, Fettadocchio, Brillantina, Cyrus e io) chiamavamo Puru-il-Guru – convinto che io fossi il Mubarak, il Benedetto, dedicava la vita a tenermi d’occhio, trascorrendo le giornate a insegnare a mio padre la chiromanzia e a far sparire con i suoi incantesimi le verruche di mia madre; e poi c’è la rivalità tra il vecchio servo Musa e la nuova ayah Mary, che crescerà sino all’esplosione; insomma, alla fine del 1947 la vita a Bombay era brulicante, molteplice e multiforme come sempre... con la differenza che ero arrivato io; cominciavo già a occupare il mio posto al centro dell’universo; e alla fine diedi un significato a tutto quanto. Non mi credete? Ascoltate: accanto alla mia culla, Mary Pereira sta cantando una canzoncina:
Quel che vuoi essere, tu puoi esserlo:Puoi proprio essere tutto ciò che vuoi.
Già all’epoca della mia circoncisione, eseguita da un barbiere col palato leporino della Royal Barber House di Gowalia Tank Road (avevo appena compiuto i due mesi), ero richiestissimo nella Proprietà Methwold. (Per inciso, a proposito della circoncisione: giuro di ricordare benissimo ancora oggi quel sogghignante barbiere, che mi teneva il prepuzio mentre il mio membro si dimenava frenetico come un viscido serpentello; e il rasoio che cala e il dolore; ma mi dicono che allora non battei ciglio.)
Sì, ero un bimbetto popolare; le mie due madri, Amina e Mary, non ne avevano mai abbastanza di me. In tutte le faccende pratiche erano le più intime delle alleate. Dopo la mia circoncisione, mi facevano il bagno insieme; e insieme ridacchiavano alla vista del mio organo mutilato che si dimenava rabbiosamente nell’acqua. «Ci converrà tenerlo d’occhio questo ragazzo, signora» disse maliziosamente Mary. «Il suo coso ha una tale vitalità!» E Amina: «Ssst, sst, Mary, sei terribile...». E poi, tra i singulti di un’irrefrenabile risata: «Ma guardi, signora, il suo povero piccolo coso!». Perché si stava di nuovo dimenando, si dibatteva come un pollo con la gola tagliata... E insieme si prendevano meravigliosamente cura di me; solo nei sentimenti, erano rivali acerrime. Una volta che mi portarono a spasso in carrozzina nei Giardini pensili di Malabar Hill, Amina udì Mary dire alle altre ayah: «Guardatelo il mio figliolone!» – e si sentì stranamente minacciata. Il piccolo Saleem divenne da allora il campo di battaglia dei loro amori; si sforzavano di superarsi a vicenda nel dimostrargli affetto; mentre lui, che ora batteva le palpebre, farfugliava a gran voce, si nutriva dei loro sentiment...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Introduzione all’edizione del 40° anniversario
- I figli della mezzanotte
- LIBRO PRIMO
- LIBRO SECONDO
- LIBRO TERZO
- Glossario
- Copyright