La mia prima reazione davanti alla conferma definitiva che sì, al di là di ogni dubbio, avevo la malattia di Parkinson, fu di una sbruffoneria assoluta.
L’illustre professore mi aveva appena chiesto attraverso la tendina dello spogliatoio se facessi fatica a vestirmi, quando – mentre gli rispondevo con un educato: “No, nessuna fatica” – sorpresi me stessa a pensare: “Questo è matto. Ma per chi mi ha preso? Fatica a vestirmi... IO?!?”.
E benché nel mio modo di reagire alla diagnosi si siano alternati i più diversi tipi di risposta emozionale, compresi il puro terrore e la più nera disperazione, sono convinta che l’atteggiamento mentale che ha contribuito più di ogni altro a non farmi sopraffare dalla malattia sia stata proprio la sbruffoneria. Quella sbruffoneria che mi ha fatto sempre prendere “con beneficio d’inventario” il verbo della scienza medica e le sue previsioni poco allegre.
Insomma, ero anche disposta ad accettare l’idea di avere il Parkinson, ma proprio non mi era possibile credere che il Cielo mi avesse abbandonato. E se il Cielo non mi aveva abbandonato, in un modo o nell’altro me la sarei cavata.
La mia fede nella Realtà Invisibile risaliva ai miei primi anni di vita. Credo, infatti, che mia madre – devotissima e osservantissima cattolica – abbia incominciato a portarmi con lei a messa appena fui in grado di camminare. Dovevo essere veramente piccola, perché ricordo di avere creduto per diverso tempo che “pregare” volesse dire emettere con le labbra uno strano suono che alle mie orecchie ignare suonava un po’ come una “p” (la sola consonante senza la “i”) ripetuta più volte. Ed ero molto impressionata dal grado di concentrazione con cui i partecipanti alla funzione emettevano il loro “p-p-p... p-p-p...”, a cominciare dalla mia mamma. Dal che dedussi che pregare dovesse essere qualche cosa di veramente importante ed è stato, io credo, osservando l’intensità con cui lei pregava che è nata in me la fede in una dimensione invisibile e soccorrevole dalla quale possono venire agli umani protezione, consolazione e, talvolta, persino la grazia di una preghiera esaudita.
Ma la cosa che mi piaceva di più era il nostro piccolo rito della candela a san Giovanni Bosco. Quando, finita la funzione, ci avviavamo verso l’uscita, io sapevo con certezza che mia madre si sarebbe fermata davanti al ritratto del santo dandomi qualche moneta da introdurre nella fessura delle offerte per le candele. Ma il momento davvero emozionante arrivava quando lei mi prendeva in braccio e io potevo accostare la mia candela ancora intatta a una delle tante accese e vedere una nuova fiamma sprigionarsi dallo stoppino ricoperto di candida cera. Dopodiché, rimessami a terra, la mia mamma mi faceva recitare la preghiera all’angelo custode e, per finire, un’invocazione di sua invenzione che concludeva anche le preghiere serali: “Gesù, fammi crescere brava, sana e forte”. Il segno della Croce concludeva quel breve momento di raccoglimento e ci avviavamo all’uscita senza ulteriori soste.
Sì, non ho dubbi: questa fede caparbia che mi ha sorretto negli anni più disperati della mia vita, questa fiducia che lassù qualcuno mi amasse e ascoltasse le mie preghiere senza curarsi dei miei peccati, ha, per buona parte, la sua origine in quella tremula fiammella che con gioia infantile io ero felice di riuscire a trasmettere da una candela all’altra.
Credo anche che abbia influito moltissimo sul mio modo di rapportarmi al Divino la personalità di mia madre che, pur essendo religiosissima, non aveva nulla, ma proprio nulla, di quell’aria dimessa e sbiadita con la quale certe pie donne mortificano fino ad annientarla la propria femminilità. Mia madre riusciva, senza nessuna difficoltà, a coniugare una fede tenace e una devozione profonda con una femminilità trionfante.
Il cambiamento che avrebbe stravolto la mia vita si era annunciato quasi tre anni prima con un dettaglio irrisorio: una sera di marzo del 1986, nel compiere il gesto consueto di avvolgere una forchettata di spaghetti, mi accorsi che il movimento della mano, invece di essere fluido come sempre, era come inceppato e procedeva a scatti. Tutto il resto del mio corpo era perfettamente integro e non diedi peso alla cosa. Tuttavia dopo qualche mese la sensazione d’impaccio alla mano era aumentata e fui spinta ad approfondire la questione. Passarono ancora altri mesi – non avevo alcuna fretta di sapere – e, com’è nella mia natura, continuai a non preoccuparmi troppo pur dando inizio a un pellegrinaggio, invano ripetuto, dapprima presso ortopedici specializzati nei disturbi della mano poi, aggiustando il tiro, presso specialisti neurologi. Fino al giorno in cui mi rivolsi al professore G.S., un luminare nel suo campo, al quale bastarono pochi minuti per esporre la sua diagnosi: Parkinson idiopatico giovanile.
Non dissi niente, non chiesi niente. Rimasi immobile cercando di fare mia quella comunicazione... niente da fare. Era come se tra me e la realtà di una grave malattia ci fosse una lastra di cristallo che dava un senso di estraneità a tutta la situazione.
Sebbene l’eventualità che i disturbi che avvertivo oramai da quasi tre anni fossero Parkinson fosse già stata ventilata dall’ultimo dei neurologi che mi avevano visto in precedenza, avevo continuato a sperare in una spiegazione alternativa. E ora, invece, non riuscivo a capacitarmi che fosse successo a me. No, non poteva essere vero. Non perché ritenessi di avere un qualche lasciapassare per i posti di blocco del destino: non poteva essere toccato a me statisticamente. Era come una vincita alla lotteria... al contrario, ovviamente.
Lo choc giunse a scoppio ritardato e fu terribile. Quali che fossero le mie risorse personali, accettare una diagnosi di Parkinson a trentanove anni non è stato facile: il Parkinson veniva a rubarmi tutta intera la seconda metà della mia vita e molti anni ancora di relativa giovinezza, come potevo accettare una realtà tanto crudele? Io volevo disperatamente vivere e vivere bene! La malattia, invece, trasformava il mio futuro in un buco nero, in un tunnel di esperienze che non volevo neanche immaginare. Era una realtà totalmente inaccettabile.
Ho reagito in modo istintivo e irrazionale come un animale selvatico preso in trappola e, in seguito agli effetti collaterali di un primo tentativo di cura che mi fece stare malissimo, per due anni rifiutai qualunque terapia. (Una delle poche cose che sapevo era che le cure erano esclusivamente sintomatiche, quindi, che senso aveva prendere una medicina che mi avrebbe fatto stare peggio della malattia?)
Era estate, la stagione che amavo di più, ma quando la consapevolezza delle mie condizioni faceva irruzione nella mia mente e nel mio corpo steso sulla battigia, allora venivo attanagliata da una morsa di gelo che non si sarebbe potuta sciogliere neanche col calore rovente del sole di luglio. Per un periodo che poteva variare da pochi secondi a qualche lunghissimo minuto venivo invasa da una sensazione di orrore puro che mi raggelava. La parola giusta, per definire il tipo di realtà che percepivo è “agghiacciante”. All’apparenza c’era, infatti, nelle persone affette da Parkinson che mi era capitato di incontrare, una sorta di “perdita dell’anima”, una specie di vacuità che rimandava a chissà quale atroce catastrofe interiore perché un essere umano avesse potuto ridursi così. E questa trasformazione aveva a che vedere col gelo, come se le emozioni, i sentimenti, gli slanci, gli aneliti, le pulsioni, la capacità di ridere e di sorridere e di guardare negli occhi un altro essere umano fosse stata catturata da una morsa di ghiaccio senza scampo e a interagire col mondo rimanesse solo un guscio vuoto di tutto quello che rende una persona calda e viva.1
Oggi mi è molto difficile rievocare con precisione, a più di vent’anni di distanza, tutte le emozioni, gli umori, gli stati d’animo che si sono succeduti dopo la diagnosi, spesso in contraddizione tra loro. Ricordo, però, che a un certo punto incominciai a rendermi conto che la portata di quello che mi stava succedendo era tale che avrebbe sconvolto la mia vita fin dalle fondamenta. A un dato momento mi fu chiaro che, se non volevo che questa malattia fermasse la mia vita, quello che mi veniva richiesto dalle circostanze era un approccio completamente nuovo: una pagina doveva essere voltata sapendo che, quale che fosse il contenuto di quella successiva, era con quello che avrei dovuto confrontarmi.
E questo contenuto comportava, tra le altre cose, un penosissimo cambiamento di status che, in modo ben più drammatico di quanto fosse successo alla morte di mio padre, avrebbe alterato radicalmente il mio posto nel mondo. Un posto che da quel momento in avanti, giorno dopo giorno, e con impercettibile gradualità, avrebbe cessato di essere quello accogliente e invidiabile che mi era familiare. La sorte che, secondo logica e buon senso, mi aspettava veniva ad accomunarmi a quell’umanità dolente, a quell’ideale Corte dei miracoli nella quale confluiscono i destini di tutti coloro il cui aspetto è segnato da un disabilità palese – “colpa” che in una società attenta solo all’apparire viene raramente perdonata.
A differenza della maggior parte dei malati che si aggrappano al passato cercando di salvaguardare la loro vita così com’era prima della diagnosi, io ero profondamente consapevole che la vita “di prima” non sarebbe più tornata e che l’esperienza Parkinson non era cosa che potesse essere tamponata un po’ qui e un po’ là con piccoli accorgimenti e saggi adattamenti. Il mio modo di relazionarmi alla malattia non avrebbe potuto essere più diverso. Se questo tentativo di “salvare il passato” era possibile per buona parte dei pazienti, nel mio caso il gap tra il prima e il dopo, tra la creatura piena di vita che ero stata e l’invalida che sembravo condannata a diventare, era troppo ampio e profondo. È stato a questo punto che, incalzata dall’aggravarsi dei sintomi, ho riscoperto, su un altro livello, la “Realtà Invisibile” della mia infanzia, il mio mondo interiore. E nella mia interiorità ho fatto esperienza dell’anima e ho trovato la forza di andare incontro alla malattia e di prenderne atto: il mio futuro, i miei sogni, i progetti più a lungo accarezzati erano stati rasi al suolo, ma io non potevo fare altro che assecondare l’onda sismica responsabile del disastro, e danzare con lei la sua tragica danza. In fatto di accettazione della malattia, non mi si poteva chiedere di più.
Avevo avuto una vita fuori dal comune, piena di emozioni e di bellezza: questa vita era irrimediabilmente finita. In un momento di confusione come mai mi era capitato, potevo ben dire di trovarmi ai margini di una “selva oscura” senz’altra alternativa che addentrarmi in essa pur sapendo che al suo interno – là dove le ombre erano più dense – draghi, grifoni, chimere e ogni genere di mostri erano in agguato. E invece, vagando nella selva oscura della mia disperazione, quando tutto sembrava perduto, un giorno mi è salita spontanea alle labbra una preghiera: “Signore, aiutami”. Da quel giorno ho incominciato a pregare. Ho pregato e pregato. Ho pregato la più antica ed essenziale di tutte le preghiere: quella con cui la creatura, riconosciuta la propria inadeguatezza, si rivolge per aiuto al suo Creatore rimettendo tutto nelle Sue mani. Nei primi tempi dopo la diagnosi, fino a quando non veniva l’ora di andare a prendere Federico all’uscita dalla scuola, me ne stavo per ore raggomitolata sotto un plaid, ripetendo come un mantra: “Signore, aiutami, Signore, aiutami, Signore, aiutami...”. Più la malattia si aggravava e più io pregavo. Erano preghiere selvagge e disperate alle quali è mia radicata convinzione – benché, forse, poco ortodossa – che, in virtù del legame d’amore che vincola il Creatore alla Sua creatura, Egli non possa sottrarsi. E poi un giorno, senza che quasi mi fossi resa conto di com’era successo, ho incominciato a riprendere in mano la mia vita impegnandomi con tutte le mie forze per vivere “come se” fossi sana ovvero ignorando la malattia. Ma intanto qualcosa di irreversibile era successo: come se un vecchio bozzolo si fosse staccato da me liberando una nuova forma di me stessa. E mentre una parte di me moriva, qualcos’altro andava vedendo la luce.
Non negai mai la diagnosi. Semplicemente mi convinsi che anche questa volta, come già altre volte in passato, l’aiuto del Cielo non mi sarebbe venuto meno. E dell’aiuto del Cielo (e di un buon avvocato) avrei avuto bisogno di lì a pochissimo quando, esattamente undici giorni dopo la diagnosi, mio marito mi annunciò che era innamorato di un’altra donna e che voleva la separazione. Per la seconda volta nella mia vita il dolore dell’abbandono e lo sfascio di una famiglia veniva a straziarmi in ogni cellula.
Quello che si abbatté su di me in quelle due settimane fu una specie di tsunami emozionale dal quale chi aveva bisogno di essere protetto era soprattutto mio figlio Federico che, se da un lato doveva essere informato, seppure sommariamente, del mio stato di salute, dall’altro aveva solo sette anni e, tra Parkinson e separazione dei genitori, nel giro di due settimane aveva fatto “tombola”. Quindi, se fisicamente non ero sana, feci il possibile per esserlo psicologicamente e con tutta la serenità di cui ero capace dissi a Federico, senza dilungarmi in spiegazioni che lui sembrava richiedere, che la mamma aveva una malattia dalla quale non si guariva, ma per cui neanche si moriva. E questo fugò in un attimo tutte le sue apprensioni.
Cammino in corso Venezia dal lato dei numeri dispari. Mi tiene per mano qualcuno che non ricordo, forse mia madre, e in silenzio vado ripetendo a me stessa “mai più”, “mai più”, per cercare di assimilare quel concetto che mi era del tutto estraneo e applicarlo alla cara immagine di mio padre. Cammino in silenzio cercando di fare mia quell’idea nuova e devastante: non avrei rivisto più, mai più, il mio papà.
Stamattina mi sono decisa. Da settimane avevo messo in bella vista e a portata di mano delle vecchissime lettere di cui dovevo fare una cernita, sulla carta ingiallita e ancora leggibile, la data del timbro postale: 1948. Su ogni busta – vergato accuratamente nella personalissima grafia di mio padre così diversa da quella tutta svolazzi e ghirigori dei suoi contemporanei – il nome da nubile di mia madre. Senza darmi troppo pensiero ho incominciato a leggere e mentre mi chiedevo se il mio amore di figlia e la ricerca delle mie radici mi dessero il diritto di immischiarmi in cose loro tanto intime, ho scoperto che tra coloro che mi generarono ci fu un amore davvero incandescente. Una passione, da parte di mio padre, a un tempo trasgressiva e senile, ma che aveva in sé un trasporto e una progettualità che testimoniano della sua vitalità e della sua sconfinata fiducia in se stesso, in particolare per quanto riguardava la capacità di fare felice una donna. Capacità della quale fa fede il suo primo matrimonio, durato una ventina d’anni, con un’americana di qualche anno più anziana di lui, Drusilla – anch’essa molto bella e della cui memoria mia madre fu gelosissima – che lo lasciò vedovo e disperato fino a quando, dopo sette anni di cupa solitudine, nella sua vita entrò come un tornado la luminosa bellezza di mia madre. Di trentasei anni più giovane di lui.
Il loro incontro nella primavera del 1948 rappresentò un vero sconquasso per entrambi: se per mio padre si trattava di rendere manifesto e pubblico un aspetto della sua vita tanto intimo e privato, e che senz’altro lo avrebbe esposto a più di un pettegolezzo, per quanto riguarda mia madre è facile immaginare il tenore ben più pesante delle insinuazioni. Ma, nonostante le fortissime pressioni della sua famiglia, lei fu irremovibile: invece del bravo ragazzo “della porta accanto” seppe scegliere l’eccezionale e seguì il suo destino. Rimase vedova a trentasette anni e vedova rimase per il resto della sua lunga vita. E io non credo che sia stato – come lei diceva – “per non imporre a Lucilla un patrigno” ma, molto semplicemente, perché ci sono esperienze da cui non c’è ritorno.
Dell’eredità lasciatami dai miei genitori, fanno parte senza dubbio i loro modi impeccabili. C’è, infatti, nei miei ricordi d’infanzia una sorta di qualità estetica, un piacere quasi fisico della bellezza, dell’eleganza, dell’armonia. Queste dee gentili mi hanno costantemente accompagnata in quei primi dieci anni della mia vita e ogni tanto, ancora oggi, riesco a intravederne l’ombra fugace che mi coglie di sorpresa dove meno me l’aspetto: nel ricamo di un lenzuolo di lino, in una vecchia foto, in un gioiello di mia madre. Uno di quei gioielli che lei amava tanto ma il cui possesso non mi dà nessuna gioia e che giacciono in una cassetta di sicurezza, custoditi ma raramente indossati, da un’erede dai gusti più frugali.
Nello sfacelo generale della forma – prezzo che ho pagato senza rimpianti per salvare altre parti di me – mi sento un po’ come una granduchessa russa trasformata dalla Rivoluzione in portinaia parigina che, abbandonata ogni velleità di ritorno e rassegnata alla sua portineria, ripensa alle amate stanze della sua infanzia con la tenerezza un po’ distratta di chi ha deciso, una volta per tutte, di avere pianto abbastanza i suoi morti. Allo stesso modo ogni tanto, mentre osservo la mia tavola apparecchiata alla buona, con tovagliette all’americana, bicchieri dell’Ikea e un numero di posate approssimativo e variabile, mi torna in mente la sala da pranzo prospiciente il giardino di palazzo Serbelloni nella quale i miei genitori e io consumavamo i nostri pasti sotto l’occhio vigile di un cameriere sull’attenti. Va da sé che, in un’età compresa tra zero e dieci anni, io non avessi la percezione di appartenere a un ceto privilegiato e se coglievo delle differenze tra la mia casa e quelle di altri bambini, non ne traevo alcuna implicazione.
Ricordo però distintamente la mia perplessità, della quale non osai fare parola con nessuno, venendo a sapere dal libro di testo della prima elementare che uno dei luoghi della casa dove le mamme passavano più tempo era la cucina. Se la frequentazione di due zie molto amate poteva avere suscitato qualche interrogativo, questi erano rimasti sotto la soglia della mia consapevolezza. Ma, perbacco, il libro di scuola non poteva essere ignorato! E se accostava mamme e fornelli qualche cosa di vero doveva pur esserci. Credo di aver risolto tutta la questione concludendo che, per motivi imperscrutabili, esistevano vari tipi di mamme: alcune che, come la mia, mettevano piede in cucina un paio di volte all’anno e altre che, invece, ci passavano la maggior parte del tempo.
Mio padre era un uomo “d’altri tempi” e veramente d’altri tempi erano molte delle convinzioni e dei pregiudizi in cui sono stata educata.
Tra gli aspetti positivi c’era il grande albero di Natale che per essere degno di questo nome doveva essere alto fino al soffitto e illuminato da candeline vere (e ...