Le bianche dune della Cornovaglia
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Le bianche dune della Cornovaglia

  1. 210 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Le bianche dune della Cornovaglia

Informazioni su questo libro

Prue, una ragazza sensibile e intelligente che non ha ancora trovato una persona in cui credere davvero; Daniel, un pittore di grande talento ma irrequieto; Charlotte, una ragazzina cresciuta senza amore. I loro destini si incrociano in un cottage vicino al mare in Cornovaglia, dove vive Phoebe, la straordinaria ed eccentrica zia di Prue. Forse da questo incontro può nascere un amore, e forse questo amore può dare a tutti una nuova speranza di felicità...

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804392996
eBook ISBN
9788852040030

1

Ferma in piedi al centro del grazioso tinello illuminato dal sole di settembre, mia madre aveva tutta l’aria di voler scoppiare in pianto dalla delusione. «Non sarai impazzita per caso, Prue?» sbottò alla fine.
Ma non c’era pericolo che si mettesse a piangere, non era proprio il tipo (anche se in questo caso gliel’avevo fatta grossa): perché rovinarsi il trucco e farsi venire gli occhi gonfi, per non parlare di quelle inestetiche rughe che le sarebbero poi comparse sul viso? Il suo aspetto era una delle cose a cui teneva di più al mondo. E adesso mi stava di fronte al lato opposto del camino, inappuntabile nel suo completo di lana color fragola con la camicetta bianca di seta, gli orecchini d’oro e il braccialetto con i ciondoli. Naturalmente i suoi bei capelli d’argento erano ondulati e freschi di piega. Si vedeva però che cercava a fatica di dominare un conflitto di devastanti emozioni: collera, materna sollecitudine, ma soprattutto delusione. Mi faceva pena.
«Su, mami, non è poi la fine del mondo.» Ma, nel momento stesso in cui proferivo quelle parole, mi rendevo perfettamente conto di quanto poco convincenti esse suonassero alle orecchie di mia madre, e sotto sotto anche alle mie.
«Per la prima volta in vita tua trovi uno che sembra davvero l’uomo che fa per te…»
«Mami, “l’uomo che fa per te” è un’espressione così superata…»
«È affascinante, serio, ha un buon lavoro, e viene dalla famiglia giusta. E tu hai ventitré anni ed è ora che ti sposi, abbia dei figli e una casa tua, che ti sistemi, insomma.»
«Non mi ha nemmeno chiesto di sposarlo, mami.»
«Certo che no. Vuole farlo come si deve: prima deve portarti a casa sua e presentarti a sua madre. È così che si fa. E le sue intenzioni sono inequivocabili. Basta solo vedervi insieme per capire che è follemente innamorato di te.»
«Follemente è l’ultima espressione che userei parlando di Nigel: ce lo vedi a fare follie di qualsiasi genere?»
«Sul serio, Prue, non capisco che cosa tu vada cercando.»
«È questo il punto, mami, non sto cercando proprio niente.»
Discutevamo su questo argomento così spesso che conoscevo la mia parte parola per parola, come se l’avessi studiata a memoria. «Ho tutto quello che voglio: un lavoro che mi piace, un appartamentino di mia proprietà…»
«Non vorrai certo chiamare appartamento quella camera nel seminterrato…»
«E non ho la minima voglia di sistemarmi.»
«Hai ventitré anni. Io mi sono sposata a diciannove.»
Stavo per aggiungere: “E sei anni dopo avevi già divorziato”, ma mi controllai. Non si possono dire certe cose a mia madre, anche se certe volte te le tira proprio fuori di bocca dall’esasperazione. In verità, nonostante la forte personalità e la volontà ferrea che le permettevano di averla vinta in parecchie occasioni, c’era qualcosa di vulnerabile in mia madre – la figuretta esile, gli enormi occhi azzurri, l’inequivocabile femminilità – che ti impediva di essere troppo dura con lei.
Così aprii la bocca per risponderle, ma subito la richiusi di nuovo, e rimasi impotente a guardarla. Mentre lei mi fissava con un’espressione di rimprovero, capii per l’ennesima volta come mio padre non avesse avuto scampo il momento stesso in cui aveva posato gli occhi su mia madre. Si erano sposati perché, se da un lato era assolutamente impossibile resistere a lei, dall’altro lui rappresentava esattamente quello che mia madre stava cercando fin da quando aveva scoperto l’esistenza del cosiddetto sesso opposto.
Mio padre si chiama Hugh Shackleton. In quel periodo lavorava a Londra, in una banca d’affari nella City, aveva un ottimo tenore di vita e un luminoso futuro davanti a sé. Ma sostanzialmente era un pesce fuor d’acqua. Gli Shackleton erano originari del Northumberland e mio padre era cresciuto lassù, in una fattoria chiamata Windyedge, dove i pascoli scendevano a lambire il freddo Mare del Nord e d’inverno i venti soffiavano dritto dagli Urali. Mio padre non aveva mai cessato di amare quel paese, né mai aveva smesso di rimpiangerlo. Quando aveva sposato mia madre, la gestione della fattoria era in mano a suo fratello maggiore, ma quest’ultimo era poi morto tragicamente in un incidente di caccia. Mio padre era andato nel Northumberland per il funerale. Ci era rimasto cinque giorni e, ancor prima di fare ritorno a Londra, aveva preso una decisione: avrebbe lasciato il suo lavoro, venduto la casa di Londra, e sarebbe ritornato a Windyedge.
Voleva diventare un agricoltore.
A quel tempo io avevo cinque anni e le liti, le discussioni, le lacrime e le recriminazioni che c’erano state dopo che mio padre aveva comunicato questo proposito a mia madre sono tra i primissimi ricordi davvero tragici della mia vita. Lei aveva fatto tutto il possibile per fargli cambiare idea, ma mio padre era stato irremovibile. Alla fine mia madre aveva scoccato l’ultima freccia che aveva al suo arco: se lui fosse ritornato nel Northumberland, l’avrebbe fatto da solo. E con sua grande sorpresa, mio padre era tornato lassù. Forse si era illuso che lei lo avrebbe seguito, ma mia madre sapeva essere altrettanto ostinata, se ci si metteva. Così, a meno di un anno di distanza, avevano divorziato. La casa di Paulton Square era stata venduta e mia madre si era trasferita in un’altra casa più piccola, vicino a Parson’s Green. Naturalmente io ero rimasta con lei, ma avevo sempre trascorso un paio di settimane all’anno nel Northumberland, tanto per non perdere i contatti con mio padre. Dopo un po’ lui si era risposato con una ragazza timida e appassionata di cavalli, un tipo che portava delle gonne di tweed sempre un po’ sformate e la cui faccia lentigginosa non aveva mai conosciuto ombra di cipria. Furono molto felici. Lo sono ancora, se è per questo, e la cosa mi fa piacere.
Ma per mia madre le cose non erano state così facili. Apparentemente mio padre corrispondeva a un ideale di uomo che lei capiva e ammirava. Era appunto per questo che l’aveva sposato. Non aveva mai tentato di andare oltre quella sua patina superficiale da uomo d’affari della City – cappello a bombetta, completo gessato e valigetta diplomatica. In verità non aveva la minima voglia di scoprire in lui degli aspetti diversi. Ma gli Shackleton erano dei tipi che ti riservavano molte sorprese e, con suo grande disappunto, mia madre scoprì che ne avevo ereditate parecchie, di quelle loro sconcertanti caratteristiche. Il famoso zio dell’incidente di caccia non si era limitato a fare l’agricoltore, ma era stato anche un musicista di una certa levatura. Mio padre, a sua volta, quando aveva un po’ di tempo libero, sapeva eseguire arazzi fantastici. Ma l’autentica ribelle dei tre era la loro sorella Phoebe. Artista e provetta pittrice, aveva una personalità così eccentrica, così incurante delle convenzioni della vita di tutti i giorni, che mia madre aveva fatto parecchia fatica a trovare un modus vivendi con quella cognata.
Da giovane Phoebe era vissuta a Londra, ma verso i quarant’anni si era scrollata di dosso la polvere della città per trasferirsi in Cornovaglia, dove aveva allegramente convissuto con un uomo incantevole, uno scultore di nome Chips Armitage. Non si erano mai sposati, con tutta probabilità perché la moglie di lui si era rifiutata di concedergli il divorzio; quando era morto, Chips aveva lasciato a Phoebe la sua piccola casa gotico-vittoriana a Penmarron, dove lei viveva tuttora.
Nonostante questo piccolo inconveniente sociale, mia madre non poteva permettersi di tagliare completamente i ponti con Phoebe, perché era la mia madrina. Così di tanto in tanto mia madre e io venivamo invitate a stare da lei: le lettere mettevano sempre bene in chiaro che Phoebe sarebbe stata felice di avermi là da sola, ma mia madre temeva la sua influenza bohémienne, e fedele al principio che diceva: se non riesci a battere gli Shackleton, cerca almeno di non perderli di vista perché non combinino troppi guai, mi aveva sempre accompagnato in quelle visite, almeno finché ero bambina.
Alla nostra prima visita in Cornovaglia ero molto preoccupata: ero ancora piccola, ma sapevo bene che mia madre e Phoebe non avevano niente in comune ed ero terrorizzata dalla prospettiva di due settimane di discussioni e imbarazzanti silenzi. Ma avevo sottovalutato l’astuzia di Phoebe: la mia madrina aveva infatti risolto il problema presentando mia madre alla signora Tolliver. La signora Tolliver abitava in una casa chiamata White Lodge a Penmarron e aveva una sua piccola cerchia di amiche perfettamente convenzionali. Queste, a loro volta, erano state ben felici di inserire mia madre nei loro pomeriggi di bridge e di invitarla alle loro cene.
Così mia madre se ne stava tutta contenta a giocare a carte in quelle luminose giornate in cui Phoebe e io passeggiavamo sulla spiaggia o montavamo i nostri cavalletti accanto alla diga vecchia, oppure ancora ci portavamo all’interno a bordo della vecchissima Volkswagen scalcinata che Phoebe usava come studio mobile, per poi arrampicarci su per la brughiera e perderci in un paesaggio immerso in una luce bianca e vibrante che sembrava un riflesso del mare.
Nonostante l’antagonismo di mia madre, Phoebe esercitava un’enorme influenza su di me. Non solo mi aveva trasmesso il suo talento per il disegno, ma aveva anche influito sulla mia vita in maniera più pratica (forse in certi casi si era addirittura trattato di pressioni vere e proprie): dovevo ringraziare lei infatti per la forza e la determinazione che mi avevano sostenuto nella mia decisione di andare a studiare a Firenze e iscrivermi a una scuola di pittura, e che alla fine mi avevano portato al mio lavoro attuale nella galleria d’arte di Marcus Bernstein in Cork Street.
E adesso era a causa di Phoebe che stavamo litigando. Nigel Gordon era entrato nella mia vita mesi fa: non mi erano mai piaciute le persone totalmente convenzionali, e con lui era la prima volta che facevo vagamente eccezione a questa regola. Così, quando l’avevo portato a casa per presentarlo a mia madre, lei non era riuscita a celare la sua soddisfazione. Nigel a sua volta l’aveva incantata, flirtando con lei e portandole dei fiori. Quando poi avevo detto a mia madre che ero stata invitata nella sua casa in Scozia a conoscere la sua famiglia, il suo entusiasmo non aveva conosciuto limiti. Mi aveva già comprato un paio di pantaloni alla zuava di tweed da portare «per le passeggiate sulla brughiera», e inoltre immaginavo anche che avesse dato libero sfogo alla sua fantasia con una serie di sogni culminanti nell’annuncio del nostro fidanzamento sul «Times», gli inviti stampati e la cerimonia a Londra (io ero naturalmente in bianco, con un modello disegnato in modo da figurare bene visto di spalle).
Ma all’ultimo minuto Phoebe aveva bruscamente posto fine a queste deliziose fantasticherie. Le era successo, poveretta, di rompersi un braccio. Così, appena uscita dall’ospedale con il suo braccio ingessato, mi aveva telefonato da Holly Cottage, la sua casetta, per pregarmi di venire a tenerle compagnia. Non che non fosse perfettamente in grado di badare a se stessa, ma le era impossibile guidare e trovava insopportabile anche soltanto l’idea di rimanere bloccata fin quando non le avessero tolto il gesso.
La straordinaria sensazione di sollievo che mi aveva preso mentre ascoltavo la sua voce al telefono mi aveva permesso di essere finalmente sincera con me stessa e ammettere che non avevo la minima voglia di andare su nel Nord ospite dei Gordon.
Non ero evidentemente ancora pronta a legarmi così seriamente a Nigel. A quanto pare a livello inconscio avevo sempre desiderato una scusa plausibile per tirarmi fuori da quell’impegno. Ed ecco che adesso il pretesto ideale mi veniva offerto su un piatto d’argento. Senza esitare avevo risposto a Phoebe che sarei venuta. Poi avevo detto a Nigel che non potevo andare in Scozia. E ora lo stavo comunicando a mia madre.
Com’era prevedibile, era rimasta sconvolta.
«In Cornovaglia! Con Phoebe!» Dal tono in cui parlava si sarebbe detto che intendevo partire per un viaggio senza ritorno.
«Devo andare, mami» e cercai di farla sorridere. «Lo sai benissimo che Phoebe è già un pericolo pubblico al volante di quella sua vecchia macchina anche quando ha tutte e due le braccia a posto.»
Ma mia madre era incapace di prenderla sul ridere. «È così scortese da parte tua tirarti indietro all’ultimissimo minuto! Non ti inviteranno più. E che cosa penserà la madre di Nigel?»
«Le scriverò. Sono sicura che capirà.»
«E laggiù con Phoebe… con lei non conoscerai altro che un mucchio di studenti sempre sporchi e quelle donne incredibili perennemente avvolte nelle loro mantelle tessute a mano.»
«Forse la signora Tolliver riuscirà a pescare qualche uomo “che fa per me”.»
«Non c’è niente da ridere.»
«In fondo è la mia vita» obiettai in tono pacato.
«Non sai fare altro che ripetermi sempre questa frase: me l’hai detta quando te ne sei andata ad abitare in quello squallido scantinato. E a Islington, poi, fra tutti i posti che potevi scegliere.»
«È molto di moda, adesso.»
«E poi quando ti sei iscritta a quell’orribile scuola d’arte…»
«Adesso almeno ho un lavoro perfettamente rispettabile, devi ammetterlo.»
«Dovresti sposarti, così non saresti costretta a lavorare.»
«Non rinuncerei al mio lavoro nemmeno se fossi sposata.»
«Ma così non hai un futuro, io voglio che tu abbia una vita decente.»
«Ce l’ho una vita decente.»
Ci guardammo negli occhi per un lungo momento. Poi mia madre mandò un profondo sospiro, ormai rassegnata, anche se aveva l’aria di essere stata offesa a morte. Era il segnale che, almeno per il momento, la discussione era finita.
«Non ti capirò mai» esclamò con aria patetica.
Mi precipitai ad abbracciarla. «Non provarci nemmeno» le risposi. «Mi basta semplicemente che torni di buon umore e che continui a volermi bene. Ti manderò una cartolina dalla Cornovaglia.»
Avevo deciso di non andare in macchina in Cornovaglia, ma di prendere il treno. La mattina dopo, dunque, presi un taxi e mi feci portare alla stazione di Paddington. Avevo prenotato un posto a sedere, ma non c’era molta gente: era metà settembre e il grande flusso di villeggianti era ormai cessato. Sistemato il bagaglio, mi ero appena seduta, quan...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Rosamunde Pilcher
  3. Le bianche dune della Cornovaglia
  4. 1
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  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. Copyright