Tra due mari
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Tra due mari

  1. 196 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Tra due mari

Informazioni su questo libro

Un incontro nella Calabria remota del secondo dopoguerra: Giorgio Bellusci e Hans Heumann. Il primo ha un sogno nella vita: ricostruire il Fondaco del Fico, una locanda nei pressi di Roccalba. Il secondo è un giovane fotografo tedesco che è arrivato a Sud in cerca di luce, paesaggi e nutrimento per la sua arte. I due stringeranno una forte amicizia e infine i loro figli si sposeranno. Dal matrimonio nasce Florian, ragazzo diviso tra due mondi e due culture, tra Amburgo e la Calabria infuocata. Ed è proprio lui a narrare in prima persona la storia di Giorgio Bellusci, imparando ad amare il nonno e a capire i suoi sogni in un racconto epico e nostalgico. Un romanzo originale, ricco di materia, odori e suoni che incrociano destini e culture diverse.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804537540
eBook ISBN
9788852038679

Secondo viaggio

Anche mia madre era bellissima quando partì per Amburgo, la prima volta: aveva i capelli lunghi e ondulati, nerissimi; era minuta ma ben proporzionata, con un seno rigoglioso e le gambe sottili, per non parlare delle labbra a cuore, carnose e rossobrune anche senza rossetto, che se fossi stato mio padre non mi sarei stancato di baciare.
Per tutto il viaggio pensò a Giorgio Bellusci, alla madre, alla sorella e al Fondaco del Fico. Era partita da Roccalba dopo l’Epifania, la valigia piena di libri, il certificato di laurea nella borsetta. Si era laureata a Roma, in Lingue, tedesco quadriennale, con una tesi su “Friedrich Leopold von Stolberg-Stolberg e il Grand Tour”. Questo Stolberg aveva fatto un viaggio in Italia alla fine del Settecento e poi ne aveva pubblicato il resoconto in forma epistolare, prima di Goethe, di cui era grande amico. Certo, lei avrebbe potuto scrivere la tesi di laurea su Goethe, come le aveva consigliato il suo professore, piuttosto che su questo conte, illustre letterato, grande erudito, diplomatico, amico anche di Klopstock, Claudius, Herder, Voss, ma che nessuno conosceva. La scelta era caduta su Stolberg per un motivo sentimentale: partito da Amburgo il 2 luglio 1791, Stolberg si era fermato al Fondaco del Fico il 22 maggio 1792, a mezzogiorno, come Dumas. Goethe non aveva questo merito, Goethe, per lei, non era grande come il “suo” Stolberg.
A casa aveva lasciato il padre a schizzare progetti sulla carta grigia con cui avvolgeva la carne ai clienti. Aveva tante idee, diceva, ma non poteva risicare, la figlia piccola aveva ancora bisogno del suo aiuto, i risparmi alla Posta forse erano appena sufficienti a costruire lo scheletro in cemento armato del nuovo Fondaco del Fico, e lui non avrebbe contratto debiti nemmeno per realizzare il suo sogno più grande. Comunque non vi aveva rinunciato, anzi era deciso più di prima: dentro di lui il Fondaco del Fico c’era già e cresceva come una pianta ciòta, quelle che sopravvivono anche tra le pietre dei muri, con una goccia d’acqua e due granelli di terra, ma che diventano le piante più belle. L’importante era di non estirparne le radici, diceva il padre, tutto il resto si fa, col tempo, cresce, resiste pure ai terremoti della vita, se le radici sono vive e sanguigne come la robbia.
Era partita con il cuore leggero. Ora avrebbe guadagnato il pane da sola e con qualche sacrificio avrebbe mandato i suoi risparmi al padre. Ma poi, quando Praia a Mare e l’Isola di Dino sfilarono davanti al finestrino del treno, sentì un magone lacerarle il petto. Un giorno d’agosto era stata in gita su quel tratto di mare insieme ai suoi amici di Roccalba. Con la barca avevano fatto il giro della minuscola Isola di Dino, sostando nella Grotta Azzurra e nella Grotta del Leone, dove avevano urlato come pazzi i loro nomi. Poi attraverso l’Arco Magno erano entrati in paradiso. Era una spiaggetta solitaria, con sabbia nera finissima e acqua turchese. Sopra l’arco di roccia s’intravedeva la strada ciottolosa costruita dai Romani e in alto, nella cupola del cielo, brillava un sole sconfinato. Nell’acqua fredda che li ripagava della lunga sudata del viaggio si fecero una promessa romantica, un conto senza l’oste: «Noi questa terra non la dobbiamo abbandonare mai, è la più bella del mondo».
Uno dopo l’altro erano partiti, i suoi amici della gita, e anche gli altri coetanei erano partiti, chi al Nord Italia, chi in Germania. Per lavoro. Ora toccava a lei. Un mese e venticinque giorni di supplenza in un corso d’italiano ad Amburgo, la stessa città da cui erano partiti Stolberg e Hans Heumann: il suo primo lavoro, si comincia così.
Alla stazione Termini, nell’attesa della coincidenza, fece un giro di telefonate ai tanti amici che aveva conosciuto durante i quattro anni d’università. «Vado ad affogarmi nell’Elba,» diceva scherzando «ma poi riemergo, vedrete, ritorno.» Dentro, il magone cresceva, chilometro dopo chilometro.
Per tutta la notte restò sdraiata nella cuccetta, gli occhi fissi sul finestrino del treno. Buio e luce, luce e buio, il treno entrava e usciva da stazioni senza nome, divorava implacabile le distanze. Ogni tanto sullo schermo del finestrino compariva un ricordo in bianco e nero, un volto sorridente. Il giorno della Pasquetta, lei e la sorella bambine. L’altalena che toccava il cielo. Le corse attorno al Fondaco del Fico. I suoi genitori che arricciavano le labbra in un bacio da bambini innamorati. Il volto sorridente era del padre. Raccontava la storia di Focubellu e di Dumas, di sicuro; ma la sua voce era soffocata dai fischi e dalle frenate del treno, non si capiva niente, solo questi lamenti prolungati e insopportabili.
Il giorno dopo, distrutta dalla lunga notte d’insonnia, scese alla stazione di Amburgo e fu colpita da una palla di neve. A lanciarla era stata un’imbecille bionda di nome Monika.
Quando la mamma mi parlava del suo arrivo ad Amburgo, spesso corredava il racconto con foto di quel periodo, che non erano artistiche come quelle di Hans Heumann ma a me piacevano lo stesso. L’occhio del fotografo era quello innamorato di mio padre. Il soggetto era una Rosanna giovane e bella, anche quando lo sguardo imbronciato le corrugava la fronte, le inarcava le folte sopracciglia, le strizzava lievemente gli occhi luminosi.
La giovane Rosanna abitava in casa di Monika, l’amica tedesca che aveva conosciuto a Roma. Subito dopo l’arrivo fece un commento che doveva restare memorabile: «In questa città non riuscirò a starci nemmeno un mese». Non aveva mai visto tanta neve in vita sua, mezzo metro o forse più, tutto bianco fin dove arrivava lo sguardo, un bianco accecante e surreale. La mattina seguente, per strada si sentì soffocata da tutta quella neve, dal cielo bianco, e rincarò la dose: «Qui non ci vivrei neanche morta».
L’anno dopo viveva ad Amburgo, sposata e incinta. Era rimasta legata mani e piedi al suolo tedesco per colpa mia, mi diceva scherzando; in realtà non aveva troppi rimpianti, avrebbe rifatto quel viaggio, si sarebbe innamorata di nuovo, diceva seria, anche se mio padre era stato stronzo fin dal primo incontro. Ma “stronzo”, per lei, era un complimento ed equivaleva più o meno a “simpatica canaglia”, mentre se voleva essere offensiva diceva “stronzo patentato”. Insomma, doveva restare ad Amburgo solo due mesi scarsi, non di più, ma intanto era successo ciò che lei non avrebbe mai immaginato.
Pochi giorni dopo il suo arrivo, accompagnata da Monika, si recò da Hans Heumann, l’amico fotografo del padre. Quell’uomo, anzi quel nome l’aveva affascinata sin da piccola e forse proprio per lui a Roma si era iscritta a Lingue, aveva studiato tedesco, aveva cercato di fare amicizia con tutti i tedeschi che incontrava, compresa Monika che l’aveva portata fin lì. L’indirizzo era scritto su un pezzo di carta ingiallita: “Hans Heumann – Regentenweg, 24 – Hamburg-Dammtor (vileta blanca a 100 metri da Konsulato italiano)”. Il padre l’aveva preso dal portafogli e consegnato alla figlia con uno sguardo nostalgico: «Se vive ancora, salutalo da parte mia e digli che a Roccalba lo aspettiamo a braccia aperte!».
Non fu difficile trovare la villetta bianca di Heumann, né farsi aprire il cancello. Con la sua voce melodiosa, Rosanna disse di essere una ragazza italiana che cercava disperatamente (disse proprio così, “verzweifelt”) il signor Heumann. Il cancello si aprì e alla fine di un vialetto alberato le ragazze videro un uomo alto e magro, che le attendeva sulla soglia di casa. «Herr Heumann?» chiese Monika. «Höchst persönlich» rispose l’uomo, e fece accomodare le ragazze in salotto. Si sedette anche lui, domandò gentilmente il motivo della visita e attese la risposta con un sorriso lungo, d’impazienza. Era calvo, così come Rosanna si aspettava, ma aveva un viso senza rughe e degli occhi celesti molto vispi; per il signor Heumann, pensava lei incantata, il tempo si era fermato a quel viaggio che più volte le aveva raccontato il padre; sembrava un uomo sui quarant’anni, di più non ne dimostrava. La giovane Rosanna era molto emozionata e riuscì a presentarsi a stento: «Mi chiamo Rosanna Bellusci e sono la figlia di Giorgio, Giorgio Bellusci, l’uomo con cui lei fece un viaggio in Calabria venticinque anni fa. Se lo ricorda, vero?».
Heumann proruppe in una fragorosa risata. Rise per qualche minuto da vero cafone, altro che gentiluomo tedesco! «Mi scusi, mi scusi,» disse infine, trattenendosi le guance per non continuare a ridere «ma lei mi ha scambiato per mio padre. Lei cerca Hans Heumann, non è vero? Io sono il figlio, Klaus Heumann. Mi dispiace deluderla, ma mio padre ha cinquant’anni, mentre io ne ho ventiquattro.» Poi si fece serio. «Mio padre» disse «non vive più in questa casa, da moltissimo tempo.»
Rosanna voleva sparire, era imbarazzata, rossa in viso, si sentiva stupida da sprofondare. Sapeva che Monika l’avrebbe presa in giro per il resto della sua permanenza ad Amburgo e avrebbe raccontato l’episodio ai suoi amici e tutti avrebbero riso di lei, come aveva riso quel cretino di Klaus, che le stava pure antipatico, un ventiquattrenne quasi calvo che dimostrava quarant’anni, figurarsi, un tedesco cafone che rideva sguaiato come un ubriaco di Roccalba. Rosanna si alzò di scatto: «Mi scusi per il disturbo, signor Heumann» disse piantandogli in faccia i suoi occhi marroni, leggermente strizzati e dunque feroci. «Buongiorno!» E si diresse a passettini svelti verso l’uscita, mentre Monika continuava a ridere stravaccata nella poltrona e Klaus le correva dietro, trattenendola per un braccio, «aspetti, aspetti, la prego», era la prima volta che la toccava, «mi scusi per la risata di prima», e sentì una scarica elettrica che gli fece ritrarre la mano, sgomento.
Per più di due mesi non si videro e poi all’improvviso, quando Rosanna era tornata a Roccalba, Klaus Heumann piombò a casa Bellusci e non la mollò più. Due settimane dopo ebbe la faccia tosta di chiederle di sposarlo, e quella stessa notte e tutte le notti di permanenza a Roccalba sgattaiolava di nascosto nella stanza di lei, anche questo mi raccontava mia madre, e vi rimaneva fino all’alba, senza mai scendere dal letto, neanche per andare a bere, bevevano le loro salive, baci, baci e baci, anche questi particolari mi raccontava mia madre, perché per lei, mi diceva, io ero un amico, più che un figlio, l’unico vero amico che avesse in tutta la Germania.
Quando si sposarono, a Roccalba, come aveva preteso Rosanna, Hans Heumann non si fece vedere. Inviò un telegramma di felicitazioni da Madrid. Klaus pianse durante la cerimonia religiosa e anche dopo, al banchetto nuziale in un ristorante sul mare, e tutti pensavano che fosse per la commozione del momento. Invece era il pianto per il dolore di scoprirsi solo al mondo in un’occasione importante della sua vita: senza la madre, morta quando lui era un ragazzo, senza il padre, in giro per il mondo, senza un parente, un amico.
Un po’ lo invidiavo, mio padre, per essere riuscito a conquistare la mamma, un po’ mi faceva pena, a ripensare al suo sposalizio senza genitori e senza amici. Avrei volentieri parlato con lui di tutto questo, sentito la sua versione dei fatti. Ma lui se ne stava rinchiuso nel suo “regno”, come la mamma chiamava lo studio pieno fino all’inverosimile di scartoffie e di libri; lo vedevo solo a cena, e lo lasciavo volentieri a Marco, che gli raccontava le sue giornate a scuola. La sera, prima di andare a letto, bussavo alla porta dello studio, due colpi titubanti. Subito me ne pentivo e, senza aprire per non disturbarlo, dicevo: «Gute Nacht, Papi». E lui, continuando a battere sulla tastiera, rispondeva: «Gute Nacht, Schatz».
«Poi una sera di giugno decisi di cercarla.» Così disse mio padre durante una festa di Capodanno, a casa nostra. Era ubriaco e aveva una platea di amici allegri attorno a lui. E in un angolo c’ero anch’io, che raccolsi la sua versione dei fatti, a tradimento.
Quella sera di giugno mio padre stava vedendo Il Padrino in un cinema del centro assieme a una studentessa bionda di nome Betty. Più o meno a metà del film Al Pacino vola in Sicilia e, preso com’è dal dovere della vendetta, forse neanche si accorge del cielo grande sopra il mare scintillante e dei fichi d’India ai bordi delle strade polverose, né del canto disperato delle cicale nascoste tra le foglie degli ulivi. Invece lui, il giovane Klaus, di fronte a quel paesaggio luminoso si sentì tutt’a un tratto ubriaco, più di adesso, come se avesse scolato una bottiglia di whisky. Era la stessa luce accecante che aveva visto nelle foto del padre. Più tardi, quando Al Pacino incontra la ragazza bruna e non solo si accorge della sua bellezza ma di lei s’innamora e la sposa nel giro di poche scene, mio padre sentì il desiderio di partire. E mentre la ragazza bruna finalmente si spoglia con un sottofondo musicale da far accapponare la pelle, e gli occhi furbi di Al Pacino puntano di profilo i seni vergini e sodi che fremono in attesa di essere baciati, il giovane Klaus ebbe un’erezione prepotente. Appoggiò la mano di Betty sulla patta dei pantaloni e mentre lei, dopo avergli sussurrato all’orecchio «Klaus, sei un porco», la ritraeva, accovacciandosi comoda e affettuosa tra le sue braccia, lui ammirava gli occhi caldi della ragazza bruna e sudava: oh Gott, come sapeva sorridere con quegli occhi, come sapeva essere timida e sensuale. Fu allora che si sorprese a pensare a Rosanna con uno struggimento da innamorato, come se non avesse avuto altro in testa che la sua immagine bruna, identica alla sposa di Al Pacino. Più che strano, era pazzesco. Da dove sbucava fuori, all’improvviso, quella ragazza che aveva visto per pochi minuti due mesi prima?
Nel momento in cui Al Pacino se ne torna in America da solo, Klaus uscì dal cinema con la scusa di un mal di testa, infischiandosene di come sarebbe andata a finire la storia del Padrino e la propria storia con Betty. L’unico rimorso lo sentiva nei confronti di Rosanna, che aveva fatto scappare come uno scemo.
La città pareva immersa in una brodaglia caldoumida. Lui camminava e respirava a fatica. Che schifo di città, si disse, ti ci vogliono aria pura, brezza marina, foglie che stormiscono. Parti, Klaus, parti. Sennò ti squagli il cuore, in questo forno puzzolente.
Alcuni passanti si girarono a guardarlo: stava parlando da solo e gesticolava come Al Pacino.
E così si mise in viaggio verso un paese di cui sapeva appena il nome, Roccalba, e la direzione per arrivarci: a sud di Roma, nella parte più stretta dello Stivale, su una collina tra due mari. Attraversò l’Europa a centocinquanta all’ora, pensando alla faccia che avrebbe fatto Rosanna nel vederlo.
E finalmente fu nella luce accecante, fu sotto il cielo grande, vide il mare scintillare alla sua sinistra e i fichi d’India ai bordi delle strade polverose, ascoltò il canto disperato delle cicale nascoste tra le foglie degli ulivi, e riconobbe le orme del padre che lui senza averne intenzione ora stava seguendo. Fermò le immagini con gli occhi, come fotografie, e quando fu nella campagna di Roccalba non gli sfuggì il muro bruciacchiato del Fondaco del Fico in mezzo ai rovi.
Giorgio Bellusci fu contento di conoscere il figlio di Hans Heumann, che oltretutto gli assomigliava molto. Rosanna invece gli piantò in faccia i suoi occhi marroni, leggermente strizzati e feroci, come aveva fatto ad Amburgo prima di scappare. Poi gli disse in tedesco una frase che in un primo momento gli spense la gioia sul volto: «Sono contenta di rivederti, stronzo». E lo baciò sulle guance, sfiorandogli le labbra.

«I dolori, come i panni sporchi, si lavano in famiglia.» E mia madre, dopo avermi insegnato con i fatti questa massima, per molto tempo evitò di parlarmi dei suoi dolori, dei panni sporchi di Giorgio Bellusci e persino del Fondaco del Fico e di Roccalba.
Poi una sera entrò nella mia stanza. Mi fissò con i suoi occhi di mediterranea rapinosa e, con una premeditata voce che le usciva dalle labbra a cuore zigzagando tra singhiozzi sul punto di franare, mi disse in tedesco: «Florian, mein Schatz, sag’ bitte nicht nein!».
Fece una pausa. Lei che mi pregava di non dirle di no! Non capivo. Stavo aiutando Marco a montare il mio vecchio trenino, e quasi senza accorgermene avevo cominciato a giocare con lui, facendo tu-tu con la bocca e annunciando l’arrivo e la partenza dei treni. Non potevo capire. Aspettavo che continuasse e intanto trafficavo con i cambi dei binari. Mia madre mi parlava in tedesco solo quando voleva incastrarmi coi suoi perfidi trabocchetti. Per il resto, con me comunicava in italiano, lingua che avevo imparato a parlare con la sua stessa inflessione calabrese e con i suoi modi di dire, coloriti e succosi. Continuò: «Mi devi accompagnare a Roccalba per Natale, ho bisogno di te, di un sostegno, non lasciarmi sola».
Sentivo la potenza dei suoi occhi concentrarsi sulle mie labbra come se le volesse schiudere e mi uscì in italiano la risposta più fragile che potessi trovare: «Io? A Roccalba per Natale? Perché non ci vai con Klaus? È lui tuo marito».
La mamma ci mise un secondo a frantumare la mia proposta: «Chi, quello? Ma se sta diventando un uomo di carta, con la testa quadrata da monitor di computer e due occhietti stralunati che non si sono accorti nemmeno che il Muro di Berlino è caduto da un pezzo. Figurati! Ho detto che voglio un sostegno, un aiuto, te lo devo dire con la chitarra? E non uno con la testa tra le nuvole di files!».
Come darle torto? Klaus era sempre più impegnato col suo lavoro in banca. Quando tornava a casa ci salutava con affetto e non vedeva l’ora di rinchiudersi nel suo regno a scrivere relazioni, opuscoli e articoli su come costruirsi una casa sfruttando al meglio i mutui bancari o come ottenere dei finanziamenti da una banca per la realizzazione di un progetto socialmente utile. Di rado, il fine settimana, veniva al cinema o in pizzeria o a fare una passeggiata con noi. Era una grande passione, quella per il lavoro, e le passioni, si sa, ti possono far dimenticare il mondo circostante. Però nei suoi confronti io non ero così critico come mia madre. Con me, più che assente, era discreto. Quando avevo bisogno di lui, usciva dall’ombra del suo regno e mi dava una mano. La discrezione, mia madre non sapeva nemmeno cosa fosse! Era così indiscreta che arrivava a chiedermi se con Hannelore, la ragazza con cui uscivo in quel periodo, facessi l’amore. Me lo chiedeva con naturalezza. E con naturalezza quel giorno concluse: «Tuo padre scordatelo, non è fatto per la vita attiva. Partiamo io, te e Marco, fra una settimana esatta, ho già i biglietti dell’aereo».
Questo era veramente troppo. Aveva deciso tutto. Marco zompava di gioia, ma io ero sul punto di esplodere e lei faceva finta di niente, sorrideva liberando a intermittenza il luccichio sfrontato dei suoi occhi, come se la cosa fosse già risolta. Non capivo l’urgenza di quel viaggio, né lei cercava di spiegarmela. Erano otto anni che non facevamo insieme una vacanza a Roccalba e, a ben pensarci, era stata lei a chiudere quel capitolo, dopo l’arresto del padre, forse perché si vergognava. Ogni tanto la nostalgia le dava un pugno allo stomaco, ma lei sapeva riprendersi e per l’estate organizzava le nostre vacanze in posti simili a Roccalba: piccoli paesi spagnoli o greci o turchi, con le viuzze che s’inerpicavano tra le case bianche, sotto l’afa onnipresente, e con l’odore d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Carmine Abate
  3. Tra due mari
  4. Partenza
  5. Primo viaggio
  6. Secondo viaggio
  7. Terzo viaggio
  8. Quarto viaggio
  9. Sosta al Fondaco del Fico
  10. Copyright