Dopo un anno di schiavitù nelle miniere di Endovier, Celaena Sardothien si era abituata a essere condotta ovunque in catene, con una spada puntata addosso. Migliaia di schiavi ricevevano lo stesso trattamento, ma quando andava e tornava dalle miniere Celaena era sempre accompagnata da sei guardie in più rispetto agli altri. Questo l’assassina più famigerata di Adarlan lo aveva messo in conto. Ciò che invece non aveva previsto era l’uomo incappucciato e vestito di nero, sempre al suo fianco, proprio come in quel momento.
L’uomo l’afferrò per un braccio e la portò nel palazzo scintillante, dove alloggiavano quasi tutti gli ufficiali e i sorveglianti di Endovier. Vagarono per corridoi e rampe di scale in modo che Celaena perdesse l’orientamento e, dunque, ogni possibilità di ritrovare la via d’uscita.
Questa, almeno, era l’intenzione della sua scorta, perché lei sapeva benissimo di essere appena salita e scesa dalla stessa scala nel giro di pochi minuti. Né le era sfuggito il contorto percorso da un piano all’altro, in un edificio che era un ordinato reticolo di scale e corridoi.
Come se bastasse così poco a disorientarla! Se non avesse visto tutto l’impegno che ci aveva messo quell’uomo, Celaena avrebbe persino potuto offendersi.
Imboccarono un corridoio particolarmente lungo. Il silenzio era interrotto soltanto dal rumore dei loro passi. L’uomo che la teneva per il braccio era alto e slanciato, ma aveva il volto celato dal cappuccio. Un’altra tattica per confonderla e incuterle soggezione, insieme agli abiti neri. L’uomo fece un cenno con la testa e Celaena rispose con un ghigno. Lui la guardò di nuovo, ma stavolta strinse la presa come una morsa.
Forse doveva sentirsi lusingata di tante attenzioni, anche se non sapeva esattamente cosa stesse succedendo, né perché lui fosse rimasto lì ad aspettarla all’uscita della miniera. Dopo che aveva picconato tutto il giorno per estrarre il sale dalle viscere della montagna, non era stato certo piacevole ritrovarselo davanti con sei guardie al seguito.
A ogni modo, quando lui si era presentato al sorvegliante come Chaol Westfall, capitano della guardia reale, lei aveva rizzato le orecchie e all’improvviso si era sentita schiacciata fra il cielo incombente su di lei, le montagne che la incalzavano alle spalle e la terra gonfia sotto i piedi. Da un po’ non assaporava la paura o, meglio, si era imposta di non assaporarla. Ogni mattina, al risveglio, si ripeteva le stesse parole: “Non avrò paura”. Per un anno quelle parole le avevano permesso di piegarsi senza spezzarsi, di non crollare nel buio della miniera. Ma questo il capitano non doveva saperlo.
Celaena osservò le dita guantate che la tenevano per il braccio. Il nero della stoffa quasi si confondeva con il colore della sua pelle sudicia.
Con la mano libera si aggiustò la tunica logora e sporca, e trattenne un sospiro. Visto che scendeva in miniera prima dell’alba e ne usciva dopo il tramonto, il sole per lei era poco più che un miraggio. Sotto la patina di sudiciume, Celaena aveva un pallore terreo. Un tempo era stata una ragazza attraente, per non dire bella, ma ormai che importanza aveva?
Presero un altro corridoio e Celaena osservò l’elegante fattura della spada di quell’uomo. Il pomolo luccicante aveva la forma di un’aquila in volo. Non appena si accorse del suo interesse, il capitano portò subito la mano sull’impugnatura dorata, e a lei scappò un altro sorriso.
— Siete molto lontano da Rifthold, capitano — gli disse schiarendosi la gola. — Siete arrivato con l’esercito che ho sentito avanzare poco fa? — Nel buio cercò di sbirciare sotto il cappuccio, ma non vide nulla. Eppure si sentiva addosso quegli occhi che la giudicavano, la soppesavano, la studiavano. Lei lo guardò allo stesso modo. Il capitano della guardia reale sarebbe stato un avversario interessante, forse valeva la pena fare uno sforzo.
Poi l’uomo alzò la mano con cui teneva la spada e, fra le pieghe del mantello, si intravide una lama. Il movimento della stoffa rivelò a Celaena il drago alato a due zampe ricamato in oro sulla casacca. Il sigillo reale.
— Che t’importa delle armate di Adarlan? — le domandò il capitano.
Com’era bello sentire una voce così, chiara e spigliata proprio come la sua, anche se in questo caso usciva dalla bocca di un brutto ceffo!
— Niente — rispose lei con un’alzata di spalle. Il capitano si lasciò scappare un grugnito d’irritazione.
Come le sarebbe piaciuto vedere un rivolo del suo sangue scorrere sul marmo! Celaena aveva già perso le staffe una volta, quando il suo primo sorvegliante aveva scelto il giorno sbagliato per spingerla con troppa forza. Si ricordava bene il sentore del piccone che trapassava le budella e il sangue appiccicaticcio rimasto sulle mani e sulla faccia. Lei era capace di disarmare due guardie in un battibaleno. Chissà se il capitano se la sarebbe cavata meglio di quel povero sorvegliante. Immaginando la scena, lo guardò di nuovo con aria di scherno.
— Non fissarmi così! — la mise in guardia lui, impugnando la spada.
Stavolta Celaena dissimulò il proprio ghigno. Superarono una serie di porte di legno che aveva già visto pochi minuti prima. Se avesse voluto scappare, sarebbe bastato girare a sinistra, prendere il corridoio successivo e scendere tre rampe di scale. Il percorso per disorientarla le aveva solo fatto prendere dimestichezza con il palazzo. Che idioti!
— Dove stiamo andando adesso? — chiese lei piano, liberandosi il viso da un ciuffo di capelli arruffati. Di fronte al silenzio dell’uomo, Celaena strinse i denti.
I corridoi echeggiavano così forte che sarebbe stato impossibile attaccarlo senza mettere in allarme tutto il palazzo. Non era riuscita a vedere dove aveva nascosto la chiave dei ceppi che le stringevano le mani, e poi c’erano le sei guardie al seguito. Per non parlare delle catene…
Imboccarono un corridoio disseminato di lampadari in ferro battuto. Attraverso le finestre vide che era calata la notte. Le lanterne emanavano una luce viva che offriva poche ombre per nascondersi.
Dal cortile udiva gli altri schiavi trascinarsi verso la baracca di legno usata come dormitorio. I gemiti di sofferenza e lo sferragliare delle catene componevano un sottofondo familiare quanto i tristi canti di lavoro che intonavano a ogni ora del giorno. Uno sporadico assolo di frusta si andava ogni tanto ad aggiungere alla sinfonia di brutalità che Adarlan aveva orchestrato per i criminali peggiori, per i cittadini più poveri e per gli ultimi arrivati tra i prigionieri.
Tra loro c’era chi veniva accusato di praticare la magia (non che questo fosse possibile, da quando la magia era stata bandita), ma in quei giorni, a Endovier, arrivavano perlopiù ribelli, soprattutto da Eyllwe, uno degli ultimi baluardi di resistenza al regno di Adarlan. Quando lei li assillava per avere notizie, di solito rispondevano con sguardi assenti, sconfitti. Rabbrividiva al pensiero di cosa avessero dovuto sopportare per mano delle forze di Adarlan. Certi giorni si chiedeva se non sarebbe stato meglio morire come carne da macello la sera stessa in cui era stata tradita e catturata.
Ma aveva altro a cui pensare, ora, mentre camminavano. L’avrebbero impiccata? Avvertì una stretta allo stomaco. Il suo valore era tale da meritare di essere giustiziata dal capitano della guardia reale in persona. Ma allora perché portarla in quel palazzo?
Finalmente si fermarono davanti a una serie di porte color rosso e oro, con i vetri così spessi da non riuscire a vedere oltre. Il capitano Westfall fece un cenno con la testa alle due guardie di piantone e queste batterono le alabarde a terra in segno di saluto.
Il capitano strinse Celaena fino a farle male. Le indicò di avvicinarsi, ma i suoi piedi sembravano diventati piombo e oppose resistenza. — Preferisci la miniera? — chiese lui in tono ironico.
— Se mi diceste cosa ci faccio qui, forse non sarei così restia…
— Lo scoprirai presto. — Cominciarono a sudarle le mani. Sì, stava per morire. Alla fine, era arrivato il suo momento.
Le porte si spalancarono sulla sala del trono. Un lampadario di vetro occupava buona parte del soffitto, proiettando guizzi iridescenti sulle finestre all’altro capo della sala. Con la desolazione che regnava all’esterno, tanta opulenza la colpì come uno schiaffo in pieno viso. Le ricordò quanto venisse sfruttato il suo duro lavoro.
— Dentro! — mugugnò il capitano spingendola a forza con la mano libera e lasciando finalmente la presa. Celaena incespicò, i piedi ormai insensibili scivolavano sul pavimento liscio mentre tentava di rialzarsi. Si voltò e vide materializzarsi altre sei guardie.
Ne contò quattordici, più il capitano, lo stemma ricamato sulle uniformi nere all’altezza del petto. Guardie della famiglia reale, soldati spietati, dai riflessi fulminei, addestrati sin dalla nascita a proteggere e uccidere. Deglutì a fatica.
Stordita e spossata allo stesso tempo, Celaena abbracciò la sala con lo sguardo. Sul trono di legno rosso decorato sedeva un giovane. Le si fermò il cuore mentre tutti s’inchinavano.
Davanti a lei c’era il principe ereditario di Adarlan in persona.
— Vostra Altezza — disse il capitano della guardia. Si rialzò dal lungo inchino e sfilò il cappuccio scoprendo i capelli castani, molto corti. Non c’erano dubbi: il cappuccio serviva solo a metterla in soggezione durante il tragitto. Come se quel genere di trucco potesse funzionare con lei! Nonostante l’irritazione, quando lo vide in faccia restò di stucco: era giovanissimo!
Il capitano Westfall non aveva una bellezza fuori dal comune, eppure il volto virile e gli occhi nocciola così luminosi la colpirono. Rialzò la testa, affranta dal proprio stato di disordine e sporcizia.
— È lei? — chiese il principe ereditario di Adarlan, e Celaena si girò di scatto mentre il capitano annuiva. La guardarono entrambi, aspettando che si inchinasse. Nel vederla ancora dritta in piedi, Chaol si mosse nervoso, il principe lanciò un’occhiata al suo capitano e poi alzò leggermente il mento.
Inchinarsi! Se era destinata al patibolo come pensava, di certo non avrebbe passato gli ultimi istanti della sua vita a prodigarsi in servili atti di sottomissione.
Sentì un rumore di passi alle sue spalle e una guardia la prese per il collo. Fece appena in tempo a scorgerne le guance rubizze e i baffi rossicci prima di essere scaraventata sul pavimento gelido. Provò dolore in tutto il viso, un lampo le accecò la vista. Sentiva le braccia indolenzite mentre le catene le impedivano di raddrizzarsi. Per quanto cercasse di dominarsi, non riuscì a trattenere le lacrime.
— Questo è il modo giusto di salutare il tuo futuro re! — esclamò l’uomo rosso di rabbia.
L’Assassina sibilò mostrando i denti mentre si girava per vedere in faccia quel bastardo, in ginocchio accanto a lei. L’uomo aveva la stessa mole del suo sorvegliante alla miniera ed era vestito di rosso e arancio. Gli occhi nero ossidiana brillavano, mentre le stringeva il collo. Se solo Celaena fosse riuscita a muovere il braccio destro di pochi centimetri, sarebbe riuscita ad atterrarlo e prendergli la spada. Le catene quasi le entravano nello stomaco ed era rossa in volto, per la rabbia che le ribolliva in corpo.
Dopo un silenzio troppo lungo, il principe ereditario prese la parola. — Proprio non capisco perché si debba costringere qualcuno a inchinarsi quando lo scopo del gesto è di dimostrare fedeltà e rispetto. — Le sue parole erano ammantate di palpabile noia.
Celaena cercava di guardare il principe, ma non vedeva altro che un paio di stivali neri sul pavimento bianco.
— È evidente che voi mi rispettate, duca Perrington, ma trovo alquanto inutile un tale dispendio di energia per costringere Celaena Sardothien a condividere la vostra stessa opinione. Sappiamo benissimo entrambi che lei non ama la mia famiglia. Quindi, forse il suo intento è quello di umiliarla… — Fece una pausa e a Celaena sembrò che la stesse guardando. — Tuttavia penso che così possa bastare. — Fece un’altra pausa e poi domandò al duca: — Non avevate un incontro con il tesoriere di Endovier? Non vorrei che faceste tardi, dopo aver fatto tanta strada per incontrarlo.
Afferrato il messaggio, il suo aguzzino grugnì e la lasciò. Celaena staccò la guancia dal marmo, ma restò a terra finché quello non si rialzò e se ne andò via. Forse, se mai fosse riuscita a scappare, avrebbe ritrovato il duca Perrington e gli avrebbe restituito il caloroso benvenuto.
Nel rialzarsi si accigliò, notando che aveva lasciato un’impronta di sporco sul pavimento immacolato e che il rumore delle sue catene echeggiava nel silenzio della sala. Ma era stata addestrata a uccidere da quando aveva otto anni, dal giorno in cui il Re degli Assassini l’aveva trovata moribonda sulle rive di un fiume ghiacciato e l’aveva portata alla Fortezza. Quindi non c’era niente che potesse davvero umiliarla, men che meno la consapevolezza di essere tanto sporca. Attingendo a tutto il suo amor proprio, si portò la lunga treccia dietro le spalle e alzò la testa. I suoi occhi incrociarono quelli del principe.
Dorian Havilliard le sorrise. Era un sorriso elegante, trasudava di fascino cortigiano. Sprofondato nel suo trono, si reggeva il mento con una mano e la corona d’oro riluceva nella luce soffusa. Sul farsetto nero campeggiava l’immagine dorata del drago alato. Il mantello rosso ricadeva con grazia intorno a lui.
Eppure qualcosa in quegli occhi di un azzurro incredibile, lo stesso dell’acqua nei paesi del Sud, e nel contrasto con i capelli corvini, la colse alla sprovvista. Era di una bellezza travolgente e non poteva avere più di vent’anni.
I principi non dovrebbero essere belli. Sono una razza l...