Costruire una cattedrale
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Costruire una cattedrale

Perché l'Italia deve continuare a pensare in grande

  1. 132 pagine
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Costruire una cattedrale

Perché l'Italia deve continuare a pensare in grande

Informazioni su questo libro

«Due operai stanno ammucchiando mattoni lungo una strada. Passa un viandante che s'informa sulla natura del loro lavoro. Uno modestamente risponde: "Sto ammucchiando mattoni". L'altro esclama: "Innalzo una cattedrale!".» Forse non sembra, ma la differenza è enorme. Il primo degli operai descritti da Pietro Nenni in Parlamento, nel 1959, impila pietre: per sé e per guadagnarsi da vivere oggi. Il secondo fa esattamente lo stesso, ma sa di costruire qualcosa di grande per il futuro.
Proprio il futuro è, da sempre, l'orizzonte di riferimento di chi contribuisce alla costruzione di una cattedrale. Un lavoro che costa fatica, non produce vantaggi personali immediati, ma rimarrà nei secoli, per le generazioni che verranno dopo di noi. E la cattedrale si rivelerà tanto più solida e splendente quanto maggiore sarà la partecipazione della comunità alla sua realizzazione. Il nostro Paese ne è disseminato: opere dell'ingegno e dell'arte fatte in nome di un progetto alto e condiviso. Oggi è difficile anche solo immaginare qualcosa di simile. Che ne è stato di quell'ansia di futuro?
Enrico Letta non ha dubbi: anche la crisi economica e sociale che stiamo vivendo è figlia del «presentismo ». Della tendenza, cioè, a sacrificare all'utilità del momento ogni investimento nel futuro che richieda tempo, capacità, pazienza. L'Italia è ammalata di «presentismo» come e forse più degli altri Paesi avanzati. Siamo ripiegati sulle nostre paure, facciamo pochi figli e lasciamo pochissimo spazio ai più giovani, soprattutto a quelli di talento. La politica riflette e amplifica questa malattia. Ossessionata dallo spettro dell'impopolarità, rinuncia a quella che dovrebbe essere la sua missione più nobile: costruire il futuro del Paese.
Eppure, per la politica è questo il momento di ritrovare l'ambizione di realizzare progetti solidi e duraturi. La cattedrale può essere una risposta alla crisi. L'occasione per fare riforme troppo a lungo rinviate. La spinta a riscoprire il valore e la gioia di dar vita a imprese capaci di durare nel tempo, ben oltre noi e i nostri problemi di oggi.
Costruire una cattedrale è un manifesto per un Paese che voglia uscire dalla crisi con scelte coraggiose e innovative, senza paura di cambiare se stesso e un modello di organizzazione sociale che non funziona più. Ma è soprattutto un invito a lavorare sodo e insieme. A imitare - secondo la bella immagine che Nino Andreatta evocava - la fatica ingrata degli scalpellini medioevali che, per costruire la loro cattedrale, mettevano la stessa dedizione in tutte le decorazioni, si trattasse della facciata o dell'interstizio più nascosto, quello nell'angolo là dietro, che «solo i piccioni erano in grado di apprezzare.»

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II

La crisi

Autostrada libera, velocità oltre i limiti consentiti. All’improvviso un rallentamento. Dall’altra parte della carreggiata c’è un incidente. Ambulanze, pompieri, polizia. Si decelera per un po’ turbati da quello cui si è assistito: la rappresentazione visiva delle conseguenze di un errore. Poi, nel giro di appena una decina di chilometri, il piede torna a premere sull’acceleratore. Esattamente come prima.
Ecco, dopo l’esplosione della crisi economica e finanziaria, noi siamo su quella strada, stiamo percorrendo quei dieci chilometri. Ancora scossi da quanto visto, più o meno al corrente delle cause che l’hanno generato, incerti sul da farsi. Da un lato, la consapevolezza degli effetti della crisi. Dall’altro, la tentazione naturale di sminuire il rischio, di riprendere la corsa dal punto in cui la si è interrotta.
Un’abitudine, questa, che troppo spesso ha marcato la nostra storia: glissare sui problemi, rimandarne sine die la risoluzione, pensare al presente, rinunciare a costruire cattedrali. Stavolta, però, è diverso. Perché stavolta qualcosa è cambiato davvero. In primo luogo per la portata di ciò che avviene. La crisi è stata ed è dura. Certamente la più dura che le nostre generazioni abbiano mai conosciuto, la più violenta e invasiva nelle sue conseguenze sulla società e sull’economia reale.
Affermarlo non è indice di disfattismo. Né richiamarne la gravità significa lasciarsi trascinare giù dal pessimismo. È, piuttosto, l’atteggiamento contrario quello che affonda il Paese: minimizzare, ridimensionare, parlare d’altro. L’ottimismo a tutti i costi e la sdrammatizzazione a priori possono funzionare in altre circostanze. Non in questa. Non ora. Magari sono efficaci in occasione di fenomeni per i quali circoscrivere i problemi serve a evitare che si alimentino effetti depressivi sull’economia e sui consumi. Ma oggi chi può immaginare ragionevolmente di delimitare il perimetro della crisi? È concepibile sdrammatizzare le conseguenze dei licenziamenti? Oppure sorvolare di fronte alla più pesante recessione nazionale e globale del dopoguerra?
Oltreché fuori luogo, questo atteggiamento è pericoloso. La crisi – sostiene chi minimizza – è partita dal fallimento dei mutui subprime e delle banche d’affari americane. Quindi, non resterebbe che attendere che la soluzione arrivi, presto o tardi, da oltreoceano, laddove la falla si è originata. Come se tanto l’analisi quanto la diagnosi non riguardassero direttamente noi e il nostro modello di sviluppo.
In realtà, è proprio questo il tranello dal quale tenersi alla larga. Perché dalla crisi si può uscire solo con lo spirito di una comunità che vuole costruire la sua cattedrale. Cioè apportando ciascuno il proprio contributo a un cambiamento che comunque è indispensabile. L’economista e il bancario allo sportello, il ministro e il sindaco del comune di montagna, l’imprenditore e il dipendente. Tutti insieme: perché non è sufficiente che le banche centrali azzecchino l’alchimia giusta sui tassi d’interesse o sul corso euro-dollaro. O che i governi si rincorrano per annunciare un piano anticrisi dietro l’altro.
Occorre molto di più. Possiamo uscire dalla crisi solo se ciascuno di noi sarà in grado di modificare, e radicalmente, i propri comportamenti. Tutti sono coinvolti. Con intensità diversa e con funzioni distinte, certo. Ma dalla risposta che ogni singolo individuo saprà fornire dipenderà l’uscita collettiva dal tunnel. La comunità, in altri termini, scriverà la risposta che il proprio Paese darà alla crisi mondiale. Chi più forte, chi più debole.
Quanto a noi, un primo interrogativo è d’obbligo: era davvero necessario un terremoto del genere affinché si cercassero la forza e le motivazioni per rendere più giusta e competitiva l’Italia? Probabilmente sì. Perché il nostro Paese è vecchio e fermo. E solo uno scossone, un forte sussulto, possono sbloccarlo e aprire le porte all’innovazione. In fondo la crisi ci ha detto, urlato forse, che «il re è nudo». Ha messo sotto gli occhi di tutti, o almeno di chi ha voluto vedere, quanto le rendite e le raccomandazioni soffochino la crescita della società italiana. Ha svelato impietosamente la stucchevolezza di certe pratiche e segnalato i costi di un professionismo politico dilatatosi fino al più periferico crocevia della nostra articolazione istituzionale.
La crisi fa sembrare meschino chiunque tenti di lucrare, politicamente e faziosamente, sui suoi effetti. La crisi racconta di un sistema di welfare ingiusto e squilibrato – tutto a vantaggio del maschio italiano adulto e a discapito delle donne e dei giovani – che alla non autosufficienza e alla povertà estrema destina gli zero virgola dei suoi bilanci. La crisi fa capire fino in fondo come in Italia sia saltato il rapporto tra lavoro e rendita e quanto sia urgente e giusto, invece, dare sostegno al lavoro e alla creazione di valore, penalizzando la rendita.
Le regole della vita privata delle persone valgono – molti sembrano paradossalmente scoprirlo solo ora – anche per la sfera pubblica e per gli affari. Un passivo è un debito che va rimborsato. Che costa. Sempre. E la finanza creativa, nemmeno con uno strabiliante esercizio di fantasia, potrebbe trasformarlo di punto in bianco in un attivo. È proprio quello che si è preteso, ostinatamente, di fare in questi anni di cartolarizzazioni e di trasformazioni finanziarie.
C’è poi il valore del fattore tempo: ci rendiamo conto troppo tardi di quanto sia strategico assumere una decisione nel momento giusto. Come mettere insieme Alitalia con Air France con mesi e mesi di ritardo. L’operazione andava fatta prima e meglio e quanto accaduto dopo si è aggiunto alla lista dei costi insopportabili a carico della collettività. Il tempo perso ci è costato. Chi dice due miliardi, chi di più.
La crisi, in definitiva, denuncia un’evidenza: il futuro conta più del presente. E, se poniamo ossessivamente il presente al centro di tutto, non solo sciupiamo il futuro, ma sabotiamo il presente stesso. Forse è questo che deve rimanerci bene impresso nella mente: l’effetto corrosivo del presentismo su tutti gli orizzonti della nostra vita. Pensiamo alle radici della crisi. Essa – è noto – nasce attorno ai mutui, ai debiti e al cosiddetto «effetto leva». A carico delle famiglie mutui portati al 120%, comprendenti, dunque, tutto il valore della casa, i mobili e anche la macchina. Per le imprese la leva del debito spinta fino a un rapporto di 1 a 20. Per di più con l’effetto moltiplicatore che ha portato tante volte quei 20 a essere usati per ottenere, da un altro soggetto creditizio, 200 e così via. Fino a giungere, dopo quattro o cinque passaggi, da un 1 iniziale di soldi veri a un 1000 finale di soldi finti. Un sistema, questo, che ricorda i metodi contorti con cui gli alchimisti del medioevo fantasticavano di creare l’oro.
Il debito, quindi. Il cuore di tutto. E con un debito soggetto a queste impennate schizofreniche, il presente si mangia il futuro. Nella vita privata e nella sfera pubblica. Chi mai, infatti, può permettersi a cuor leggero di vivere al di sopra delle proprie possibilità, fregandosene degli effetti di lungo periodo? Solo qualche scriteriato che accetta di compromettere la sua vita, presente e futura. Ecco, prima della crisi una buona parte degli operatori del mercato si è comportata in questo modo. Solo che il danno è stato dell’intera società.
Ma oggi abbiamo l’occasione per prenderne atto e cambiare. Non coglierla sarebbe un gravissimo peccato di omissione. Cosa impedisce, per esempio, di adottare regole stringenti per evitare che la leva del debito superi il rapporto di 1 a 8 in ogni caso? Sarebbe puro buon senso applicarla subito, in Europa e in America, per intervenire su quella che tutti giudicano una delle cause del dissesto in cui siamo precipitati. Ciononostante, troppo spesso si ha l’impressione che la violenza della crisi non sia stata sufficiente a far scattare l’allerta generale. Risposte o troppo blande o troppo concitate si sono alternate nella prima fase dell’emergenza, inaugurata in grande stile da un’overdose di vertici internazionali, foto in posa di capi di Stato e di governo, comunicati carichi di auspici: in media due al mese nel periodo a cavallo tra il 2008 e il 2009.
In seguito, appurato che ogni vertice rischiava di acuire l’allarme per la crisi, anziché contribuire a tamponarla, si è provato a cambiare registro. I diversi Paesi hanno risposto ciascuno a suo modo, ma sempre con massicce iniezioni di liquidità: piani nazionali molto articolati – e molto costosi – e inevitabile esplosione del deficit in quasi tutti gli Stati europei. Poi occhi puntati sulle scelte della Bce che, grazie a una politica di tassi bassi, ha dato sollievo alle famiglie e sostegno a un sistema di finanziamento alle imprese segnato dal principio della restrizione del credito, adottato nel momento più violento della crisi, tra l’autunno 2008 e la primavera del 2009.
Le altre istituzioni comunitarie – Consiglio e Commissione – hanno reagito in modo diverso. Il Consiglio europeo si è giovato inizialmente della reattività della presidenza francese che, grazie all’attivismo di Nicolas Sarkozy, ha dato un impulso positivo alla definizione di una strategia congiunta. Il passaggio di testimone alla presidenza ceca ha, invece, segnato un passo indietro, ribadendo l’obsolescenza delle vecchie regole comunitarie, a partire da quella sulla rotazione semestrale per la guida del Consiglio europeo. E chissà se gli elettori francesi, olandesi e irlandesi – dai quali negli anni scorsi sono stati bocciati quei trattati che avrebbero potuto ricostruire l’intelaiatura istituzionale comunitaria, rendendola meno rigida – non si siano finalmente resi conto di quanto grave sia stato spuntare le armi all’Europa politica proprio alla vigilia della più pesante crisi economica e finanziaria dalla creazione della Cee.
Ancor più critico il giudizio sull’operato della Commissione europea. Indebolita dalle troppe sostituzioni tra i commissari nella fase finale del mandato e sprovvista dell’ambizione necessaria ad affrontare di petto le cause della crisi, la Commissione ha di fatto mancato l’occasione giusta per provare ad assumere un ruolo guida in Europa. E così gli Stati membri sono ritornati al centro della scena. Gli stessi Stati membri – si badi bene – responsabili, negli anni scorsi, dei veti posti sulla costituzione di un efficace sistema di prevenzione e sorveglianza finanziaria a livello europeo.
Troppo eterogenee sono state, dunque, le risposte che le agende nazionali hanno dettato ai singoli Paesi. E sostanziale si è rivelata, alla fine, l’assenza di un coordinamento efficace. Quasi che la crisi potesse sparire d’incanto, così com’era arrivata. La realtà è che la crisi ha cambiato l’Europa. Avevamo un’Unione sempre in bilico tra dimensione comunitaria (istituzioni sovranazionali, voto a maggioranza, centralità della Commissione) e dimensione intergovernativa (governi razionali, centralità del Consiglio europeo). Constatiamo oggi la definitiva affermazione di quest’ultima, dell’Europa intergovernativa. Sono i singoli Stati membri che guidano il processo, d’accordo tra loro (quando ci riescono). Bruxelles esegue. Avevamo sognato un’altra Europa. Ci sarebbe bisogno di un’altra Europa.
In Italia, per le contromisure si è scelto sostanzialmente di aspettare e di scommettere su due fattori esterni: il nuovo corso dell’amministrazione americana e le scelte della Germania. L’America caricata dell’onere di riaccendere la fiducia nei mercati finanziari. La Germania di tornare a crescere e a consumare al più presto, visto che noi, che siamo il suo principale venditore, avremmo comunque potuto accodarci.
Decisamente poco. Specie in considerazione di un’evidenza: niente, dopo la crisi, sarà più come prima. Per la finanza, ma anche per l’economia reale. Su questo terreno la crisi può consegnarci due modelli diversi di Italia: un Paese deindustrializzato oppure uno che rilancia su basi nuove la propria vocazione industriale. Dobbiamo evitare il primo scenario e lavorare per il secondo, consapevoli che il rischio della perdita di peso del nostro sistema produttivo è fortissimo. In un’economia per decenni trascinata soprattutto da uno spirito imprenditoriale diffuso, con punte d’eccellenza in quel Nord descritto così bene di recente da Giuseppe Berta,5 l’effetto deprimente, in termini di licenziamenti, cassa integrazione e ridimensionamento dei siti produttivi, è già visibile. I sindacati si mobilitano, i sindaci difendono il radicamento delle imprese sul territorio. Ma le difficoltà si allargano a macchia d’olio con una rapidità sorprendente, spesso senza che se ne possa cogliere fino in fondo la gravità se non quando gli effetti hanno ormai creato danni irrecuperabili.
I lavoratori entrano così nella spirale delle difficoltà e, in assenza di adeguati strumenti di protezione sociale, perdono fiducia in un possibile rilancio. Accanto a loro un popolo di imprenditori medi e piccoli che, dinanzi a previsioni nefaste, sono di fronte all’aut-aut più pesante: chiudere prima di perdere tutto e riciclarsi con le rendite disponibili; oppure tener duro e ridare slancio alla scommessa imprenditoriale. Un bivio per il quale una scelta individuale – quella di ogni singolo imprenditore – può avere ripercussioni decisive sul futuro collettivo del Paese.
Anche in questo caso, se prevalesse la tentazione del pessimismo, le conseguenze generali sarebbero irreparabili. L’Italia cambierebbe pelle nell’arco di pochissimo tempo, abdicando in via definitiva a una vocazione industriale nutrita dall’impegno quotidiano di milioni di imprenditori e lavoratori. E tutto questo senza avere in tasca, e forse neanche in testa, un’exit strategy realistica.
Dunque, se buona parte di questi imprenditori decidesse di cambiare mestiere perché il pericolo di cadere è troppo alto, il volto dell’Italia non sarebbe più lo stesso. La deindustrializzazione è un rischio reale. Dobbiamo tutti caricarci della responsabilità di creare un clima di impegno diffuso per vincere lo scoraggiamento con atti concreti che testimonino una reale volontà di cambiamento. E qui non si tratta di spot o di generici inviti a consumare. La partita vera non si gioca in superficie, ma sotto la superficie. Quindi, non basta tenere alti i consumi. Certo, se quelli crollano, tutto il resto va male. Ma la questione centrale è restituire le giuste motivazioni a milioni di imprenditori affinché non si fermino proprio adesso, sedotti dal miraggio della rendita o paralizzati dalla paura.
Tutto dipende dalla direzione che il sistema Paese, a partire naturalmente dal governo nazionale, decide di prendere. L’atteggiamento da struzzi – nessuna risposta, solo occhi puntati su ciò che decidono gli altri, ancora Germania e Stati Uniti in testa, per far ripartire fiducia e produttività – è un messaggio negativo che non possiamo trasmettere a milioni di piccoli e medi imprenditori italiani.
Insisto sul punto: rinunciare all’industria sarebbe per noi un incubo. Incubo un po’ meno spaventoso se almeno si delineassero credibili scenari alternativi. Così finora non è stato. E alla possibilità della deindustrializzazione si è accompagnata l’oggettiva assenza di un percorso diverso da imboccare. Soprattutto per questo sono convinto che dobbiamo investire sul lavoro e sulle imprese prima che sul resto. Occorre, però, farlo in modo articolato. La difesa dell’occupazione che c’è, attraverso nuovi ammortizzatori sociali, è il primo obiettivo, come vedremo. In aggiunta servono interventi per sostenere il sistema dei distretti e le reti di impresa. Puntando, in particolare, sulla loro capacità di spingere su internazionalizzazione e innovazione, dinamiche che solo attraverso queste articolazioni organizzative un mondo di piccole e medie imprese può incrociare.
Altra questione centrale è il rapporto tra imprese e pubblica amministrazione. È questo un tema tutto italiano. Domestico, quasi. Comunque, non soggetto a influenze esterne o globali. Sono compresi tra i 50 e i 60 miliardi di euro i crediti che le imprese vantano nei confronti delle pubbliche amministrazioni. Molte di queste, strozzate dai tagli di bilancio imposti dallo Stato centrale per tenere sotto controllo la spesa pubblica, suppliscono così alle carenze di liquidità. E rimandano il pagamento dei debiti con le imprese. I tempi naturalmente si allungano. Tanto. In spregio a qualunque regolamentazione europea in materia e con esiti molto pesanti sulla capacità di resistenza delle imprese, che oggi trovano banche molto meno disponibili a far affidamento su questi crediti.
Intervenire subito è necessario. Specie per lanciare un aiuto concreto...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Costruire una cattedrale
  4. I. La cattedrale
  5. II. La crisi
  6. III. Più Stato, non meno mercato
  7. IV. Persona, famiglia, comunità
  8. V. I Mezzogiorni utili al Paese
  9. VI. L’ultimo G8
  10. VII. La politica impara dalla crisi
  11. VIII. L’elettorato tripolare
  12. IX. Zaino leggero, orecchio a terra, reti orizzontali
  13. X. Tornare a governare
  14. Ringraziamenti
  15. Note
  16. Copyright