Mi hanno tenuto in stato di fermo dal preside finché non sono arrivati i miei, per “discutere” tutti insieme del mio futuro. Nessuno ha creduto a una parola di quello che ho detto. Hanno abboccato alla versione di Wikes con l’amo, il filo, il piombo, la canna, il pescatore e tutto.
Lui ha mentito. Se n’è rimasto lì e non ha fatto altro che mentire. Ha evitato di guardarmi per tutto il tempo, ma alla fine sono riuscito a intercettare il suo sguardo, e quel vecchio rospo ipocrita non ha neanche abbassato gli occhi. Non ha battuto ciglio. Come se fossi io quello pieno di velenose stronzate, come se fossi io quello che aveva insultato sua madre e l’aveva passata liscia.
— E anche se ti credessimo — ha detto mio padre dopo — starei ancora dalla parte di Wikes.
Mi avevano sospeso per due settimane e mandato alla PRU, la Pupil Referral Unit. Se fosse successo ancora, aveva detto il preside, mi avrebbero espulso definitivamente.
— Vedi in che direzione stiamo andando? — ha detto mio padre a mia madre mentre tornavamo a casa in macchina. — Si comincia con il rifiuto di fare i compiti, e si finisce con lui che spintona gli insegnanti nel corridoio.
— Mi meraviglio di te, Chris — ha detto mamma. — Non è proprio da te. Che ti è preso?
— Te l’ho detto. Stava mentendo. Ti ha chiamato puttana — ho risposto. — Ti ho difeso. Non te ne importa niente?
— Non… Ora basta, Chris. Non sopporto più questo sotterfugio. — Ha scosso la testa e mi ha lanciato un’occhiataccia dallo specchietto.
— Non sopporteranno nessuno dei tuoi giochetti alla Brant, te lo dico subito — ha dichiarato mio padre in tono di trionfo.
Vedi con che ti ritrovi a lottare? È come uno stato di polizia. Se pensi con la tua testa, ce li hai tutti contro. Avevo raccontato esattamente come stavano le cose, chiaro e tondo, ma tanto valeva che mi fossi messo a fare le bolle di sapone, per l’attenzione di cui mi stavano degnando.
Non puoi fidarti di nessuno. Insegnanti, genitori… muoiono tutti dalla voglia di consegnarti alle autorità solo per il gusto di farlo.
Perfino il tuo migliore amico.
Questo sarà un brutto colpo per quelli che credono in concetti come “amicizia” e “lealtà” e via dicendo. Stavo pensando di ciondolare per qualche oretta in giro per casa, per poi sgattaiolare fuori e tornare al mio campeggio. Ma il mio presunto migliore amico, Alex Higgs, ha spifferato la posizione della mia tenda a sua madre, quella sera. A quanto pare lei lo ha convinto che era per il mio bene. È stato un brutto momento quando me l’hanno detto.
Il risultato? Ero intrappolato a casa per l’intero fine settimana, e i miei genitori potevano fare tutto quello che gli pareva. È stato un sollievo, a essere onesti, quando è arrivato il lunedì mattina e sono dovuto andare alla Brant. O, per usare le parole di mio padre, alla “discarica dell’istruzione”.
Mi hanno accompagnato tutti e due in macchina. Doppia supervisione. Si stavano ancora dando il tormento a vicenda. Credo che mamma avesse finalmente cominciato a capire che non avrei mai ceduto sul fronte dei compiti, mentre papà era ancora furente di rabbia al pensiero di avere un perdente accademico in famiglia.
— Si può sapere perché hai questa fissa per la scuola? — gli ho chiesto. — Tu andavi bene a scuola e a che ti è servito?
— Che c’entra? Ho un buon lavoro, no? — ha detto.
— Sì, ma lo odi — gli ho fatto notare.
— Non è questo il punto — ha farfugliato. — Ho avuto la possibilità di scegliere.
— La possibilità di scegliere di essere infelice? No, grazie.
È così convinto di avere ragione che è sinceramente incapace di immaginare che io creda davvero a quello che dico. Io. Non. Voglio. Andare bene. A scuola. Quale parte di questa frase è così difficile da comprendere? È così che ti riduce l’istruzione? Ti rincretinisce? Grazie, ma se per voi è lo stesso, preferisco tenermi le mie doti innate.
Era così furioso con me. Avrei voluto avere una telecamera: sarebbe stato un reality fantastico per la TV, solo che nessuno ci avrebbe creduto. Quando siamo arrivati alla Brant, si è messo a battere istrionicamente – ma delicatamente – la testa sul volante.
— Mio figlio. A scuola con i perdenti — ha mormorato con voce cupa.
— Questi ragazzi non sono dei perdenti — gli si è rivoltata contro mia madre. — Hanno soltanto dei problemi, come tutti.
— Problemi? — Papà l’ha fulminata con lo sguardo. — E lui che problemi ha? — ha detto, indicando con la testa il perdente sul sedile posteriore. — Genitori divorziati? Povertà? Non è svantaggiato, è soltanto pigro.
— Questo non significa che sia un perdente — ha replicato mamma astiosa.
Scorgevo solo la sua nuca, perciò non ho visto i segnali di pericolo, ma li ho percepiti lo stesso. Ho avvicinato piano la mano per aprire lo sportello. — Sarà meglio che… — ho cominciato, ma lei è partita per la tangente prima che io finissi la frase.
— Come osi parlare così di fronte a tuo figlio? — ha urlato all’improvviso a papà. — Un perdente… non riesco a credere alle mie orecchie.
— Non vedo perché no — ha ringhiato lui. — Mi pare sia lampante da un pezzo, ormai. E guarda noi, adesso. Gli stai permettendo di minare perfino il nostro matrimonio. — Ha fatto una risata amara. — Guardiamo le cose in prospettiva. Sono io quello che ha fallito a scuola?
— Non chiamarlo fallito!
— Come vuoi che lo chiami, allora? Uomo di successo?
— Ha quindici anni! Come potrebbe essere un fallito, razza di idiota? — ha ruggito mamma. Ma io avevo sentito abbastanza. Ho aperto lo sportello.
— Ciao — ho detto a bassa voce.
— Fermo lì — mi ha fulminato mamma, ma erano talmente presi che non si sono neanche accorti che scendevo. Ho chiuso lo sportello piano, meglio non attirare l’attenzione della belva feroce quando è nel bel mezzo del suo, come dire, rito di anti-accoppiamento. C’era un gruppetto di ragazzi dall’aria dura che fumava a pochi metri di distanza. Mi guardavano come se fossi fatto di purissima sfiga di prima scelta appena uscita da una scuola privata. Avevano ragione. E come se questo non bastasse, loro erano vestiti normalmente, mentre io indossavo l’uniforme. Non è che forse… no! Possibile che lì ognuno portasse i propri vestiti…?
Sarei stato l’unico con l’uniforme in tutta la scuola. Le cose non si mettevano bene.
“Be’” ho pensato “se vogliono fare a botte, si accomodino.” Gli avrei fatto assaggiare un paio di pugni della scuola privata.
Mi sono avviato spedito verso la porta, e stavo per premere il campanello quando mamma si è accorta che non c’ero più. Ho sentito lo sportello della macchina che si apriva e i suoi passi sul marciapiede. Ho cercato di filarmela, ma era come se avesse il teletrasporto o che so io. Prima ancora che riuscissi a voltarle le spalle, mi aveva già stretto al petto. Con la coda dell’occhio ho visto il gruppetto di fumatori che si gustava la scena.
— Tesoro! — ha urlato al mondo.
“NO” ho supplicato in silenzio… “tesoro no, ti prego!” Mi ha spiaccicato sul suo petto ansante, stritolandomi in un grande abbraccio. Proprio lì. Sul marciapiede. Di fronte alla Brant.
— Non mi importa di quello che dice tuo padre. Tu sei una stella. Sarai sempre una stella per me — ha detto con un filo di voce. — Questa è solo una battuta d’arresto temporanea, tutto qui. Un fallito a quindici anni. Ma figurati! — ha concluso, offrendomi un sorriso incoraggiante.
Io ho lanciato un’occhiata ai ragazzi che tra un tiro e l’altro avevano cominciato a sogghignare. Mamma mi ha dato un ultimo bacio portafortuna, poi è corsa via. Sono rimasto a guardare la macchina che traballava mentre lei saliva. Li ho sentiti gridare prima che lui rimettesse in moto e si avviasse, grattando le marce, su per la salita, per poi sparire dalla visuale.
Eccolo lì, quello che meno di cinque minuti prima era venuto a dirmi che non venivo da una famiglia svantaggiata.
Ho premuto il citofono e, mentre aspettavo che rispondessero, è comparsa una ragazza. Era un po’ più bassa di me, con i jeans e un giubbotto di pelle, i capelli corti e neri, molto carina, ben fatta, ma sembrava reduce da una piccola guerra: aveva lividi sulla faccia, le labbra gonfie e un occhio nero come una prugna marcia. Ho pensato: “Oh, mio Dio. È così che conciano le ragazze in questo posto.”
— Scusa — ha borbottato lei. Ha premuto di nuovo il campanello, appoggiandocisi sopra, e mi ha squadrato dalla testa ai piedi.
Ho sorriso. Lei non ha ricambiato. Mi ha guardato con la faccia scura. La più scura che avessi mai visto.
C’è stato un ronzio alla porta. La ragazza l’ha aperta e io l’ho seguita su per le scale fino in segreteria. Non appena ha visto la tizia col giubbotto di pelle, la segretaria è corsa ad abbracciarla.
— Eccoti qua, cara — ha detto. — Almeno ti vedremo più spesso ora — ha continuato, lanciandomi un’occhiata. — So che Hannah vuole vederti di sopra. Sali pure mentre io mi occupo di questo giovanotto.
La ragazza se n’è andata e la donna si è voltata verso di me: — Benvenuto alla Brant — ha detto. — Io sono Melanie — e mi ha teso la mano.
Non era un modo di fare molto da segretaria. Mi ha fatto firmare il foglio di consenso sul comportamento e poi ha chiamato il preside, che a quanto pare era un tipo di nome Jim. Ho pensato: “Jim? Lo chiamano per nome? Ma che storia è?”
— Ti dirò tutto più tardi, una chiacchierata come si deve — mi ha detto Jim. — Ora ti basti sapere che questo è un posto sicuro. Le persone vengono qui per le più svariate ragioni; hanno ogni sorta di guai. Ma i guai si lasciano fuori di qui. — Ha indicato col pollice alle sue spalle. — Qui dentro, ci rispettiamo tutti. Se hai un problema, vieni da me. E soprattutto, niente risse. Un posto sicuro. Okay?
— Okay — ho detto.
— Bene. Ora andiamo a conoscere gli altri.
Jim ha infilato il corridoio con quella sua aria tosta e io l’ho seguito. Era proprio un tipo tosto da manuale, il buon vecchio Jim. Io non ero della stessa categoria.
— Hai fatto colazione, Chris? — mi ha chiesto, facendomi strada in corridoio. — Abbiamo il pane tostato e abbiamo i cereali, di solito, a meno che non siano finiti. Ce ne possiamo permettere solo un tot alla settimana.
— Sì, ho mangiato qualcosa, ma, cioè, mangerei ancora — ho borbottato.
Siamo sbucati in una specie di mensa: l’area comune, l’ha chiamata lui. C’erano un po’ di ragazzi seduti, tutti con i loro vestiti normali. Come pensavo. Ero l’unico con l’uniforme. Uno sfigato dal primissimo istante.
Jim mi ha versato un bicchiere di succo di mela.
— Benvenuto alla Brant — ha detto. Se n’è versato un bicchiere per sé e l’ha fatto cozzare contro il mio. — Lui è Chris, la nostra nuova recluta. Fategli una buona accoglienza, per favore.
Una delle ragazze l’ha guardato male. — Perché a me non lo versa, il succo? — ha chiesto.
— Cercavo di essere gentile con lui — ha risposto Jim. — Essere gentili con le persone… hai presente, Ruth?
Ruth non è sembrata colpita. — Perché non può essere gentile con me?
— Lo sono di continuo. Adesso sei tu che devi essere gentile con me, è il tuo turno — ha detto Jim. Le ha sorriso, un bel sorrisone, poi ci ha lasciati soli.
Ho sorseggiato il mio succo e mi sono guardato attorno con prudenza.
— Perché sei vestito così? — mi ha chiesto un ragazzo, un asiatico.
— Non mi avevano avvertito. D...