La danza del mondo
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La danza del mondo

  1. 204 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La danza del mondo

Informazioni su questo libro

Linda ha trent'anni e la sua vita è bloccata. È divisa tra un marito sposato senza grandi slanci e il fuoco di un amore clandestino che troppo in fretta ha perso calore. È stretta in una quotidianità borghese, in una vita sterile, nella finzione di un'esistenza che obbliga ad anestetizzare le domande, i tormenti, gli "astratti furori". E, improvvisamente, dopo un aborto spontaneo e una furiosa lite con il marito, decide di lasciare tutto. Per abbandonarsi al richiamo di un Sud oscuro, mitico, ancestrale.
Non lascia nessuna notizia di sé, getta via telefonino, carte di credito, documenti, e parte verso la Calabria e la Sicilia. Ancora non sa cosa c'è dietro a questa "discesa", dietro al suo bisogno di perdersi, all'impulso di degradarsi, di toccare con mano la sporca e vitale sostanza del mondo. Ma da questa fuga, che presto diventa un viaggio profondo, una sfida con se stessa, nascono incontri sorprendenti - storie di dolore, di solitudine, di violenza, d'inaspettata dolcezza. Linda affronterà il freddo, la fame, la paura e conoscerà la solitudine. Ma, al tempo stesso, troverà solidarietà e ascolto dove non avrebbe mai pensato. Fino all'approdo nella Palermo caotica e incantatrice che fa da sfondo a questa storia di amori senz'amore, di maternità e paternità che si sfiorano.
Lontana dal conforto narcotizzante della modernità quotidiana, Linda scoprirà la sua anima segreta nel cuore di una terra dove sopravvive intatto, sia pure in agonia, un selvaggio melodramma senza lacrime e senza retorica. Nel Sud ritroverà l'impulso vitale primigenio che feconda, scuote, ferisce, umilia, ma che lascia sfiniti di verità in un mare di luce abbagliante. Con piglio asciutto, nervoso, a tratti crudele, Maria Pia Ammirati ha scritto il romanzo di un'orgogliosa libertà, di una vertigine incontrollabile che trascina lì dove hanno origine tutti i grovigli. La fuga di Linda si trasforma in un'sperienza esemplare, che ci ricorda la più antica e indimenticabile delle lezioni: per ritrovarsi, prima, bisogna perdersi.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804624813
eBook ISBN
9788852038761

La bellezza

Una luce invernale filtra dalle persiane e dalle fessure, le stesse dalle quali vorrei poter uscire, così come sono, senza più forze, andarmene in forma gassosa o liquida, scappare davvero da questa prigione, che mi si stringe sempre di più addosso mentre rimango in attesa del mio aguzzino, del mio carnefice. Al quale chiederei volentieri di farla finita.
Quest’uomo per me sconosciuto, che si è sostituito al mondo, che diventa sempre più intimo nonostante il mio odio, ha in mano la mia vita, e ogni giorno è una scommessa. Non uscirò viva da questa stanza, ne sono certa, non potrà lasciarmi dopo avermi ridotta in schiavitù e forse ora, mentre siede tranquillo nel suo salotto di casa e la moglie gli porta il caffè, sta progettando di uccidermi. Di farmi fuori di nascondermi in maniera definitiva. E mentre sorseggia dalla tazzina, sta calcolando ogni mossa, come sua abitudine, passando ogni dettaglio in quel cervello bovino e affilato. Se e dove uccidermi, come e quando trasportare il mio corpo, dove e in che maniera far sparire ogni traccia di me.
Da ieri mattina ho la febbre e vomito e questo può aver accelerato l’idea della mia inutilità, un corpo che non corrisponde più alle sue pretese, che va verso una deriva di mollezza e sfascio, un corpo malato – se di malattia si tratta e non, solo e sempre, di una forma inevitabile di decadenza.
Sono passate due settimane, forse tre, da quando mi ha chiusa qui dentro... il tempo comincia a farmi difetto e non conto più i giorni, e credo che il suo metodo per annichilirmi, per togliermi le forze e addomesticarmi, una specie di bestia da domare per il suo piacere, stia avendo effetto, perché mi sto svuotando d’energia, mentre mi riempio di noia e di odio. Un odio che non risparmia per prima me stessa. Un sentimento totale e acuto, senza vie d’uscita, senza futuro. Si odia al presente per l’ora in cui si vive, sentendo che quell’ora ha la dannazione dell’eterno. L’odio si concentra nella testa, a differenza del senso di colpa e dell’amore, che un tempo so di aver sentito nello stomaco e nella pancia, l’odio orbita lì, nella parte alta e dura della persona, il luogo del pensiero. E la testa si scalda, sento il calore dal collo salire alla nuca, al ricordo di Gino, della sua brutalità. Mi basta ricordare la flessione della sua voce o il rumore della chiave che apre la porta, per sentire il caldo diffondersi sulla faccia. L’odio accecante, è questo il sentimento che provo, che accalora la mia testa e l’avvolge nell’oscurità.
Con la luce mattutina la stanza si illumina lentamente, partendo dalle lunghe lame di chiaro che tagliano il pavimento e si sparpagliano in giro per la stanza. Tutte le notti sogno che qualcuno arrivi a salvarmi con le sembianze di Carlo o di Alberto, a volte di mia sorella Laura. Quegli stessi che hanno seguito con discrezione le mie tracce, e che hanno cominciato a seguirmi per riportarmi a casa, saranno di certo arrivati. Arrivati agli alberghi, alla pensione di Palermo, al ristorante di Gino, e da lì a questa stanzaccia.
Il sogno, al risveglio, mi mette spesso in uno stato d’ebbrezza, sento distintamente le voci della mia famiglia, a volte quella profonda di Alberto che mi fa svegliare di soprassalto, e sento in maniera distinta pronunciare il mio nome – Linda – e improvviso il mio istinto è richiamarlo a mia volta, come per non perderlo, per non dimenticarmi chi sono davvero. E uscendo dal sonno, la bocca inceppata mentre il cuore accelera per l’emozione, penso di aver articolato un nome o anche solo un suono che richiami indietro Carlo, Alberto, Laura, gli unici per i quali forse vale la pena cercarmi. Per il resto, per tutto il resto del mondo, sono una sconosciuta, anzi una nullità, che sia o no prigioniera non ha importanza. Una delle tante donne dimenticate nel pianeta. O forse non per Angela, che stamattina in sogno appare bianca, eterea ma infelice o contrariata, non capisco bene. Ha un viso corrucciato eppure sembra più giovane, ha i tratti più distesi. È sotto la mia finestra, la chiamo più volte e non risponde, poi si volta e mostra il viso enigmatico, ma senza sorriso, senza indulgenza. Le chiedo: “Cosa ti ho fatto? Mi hai detto che potevo chiamarti da Palermo... vedi, sono qui. Dammi una mano a scendere”. Non risponde. Noto che ha un piccolo cane al guinzaglio a cui bisbiglia qualcosa. Il cane scodinzola, Angela si bea a condurlo, passa sotto la mia finestra di nuovo e manda su uno sguardo interrogativo e perplesso, con il suo viso pieno di smorfie. Provo ancora: “Angela, devo uscire da qui, mi sento soffocare e poi la stanza è piccola, aiutami!”. Si ferma, anche il cane si siede sulle due zampe e guarda in su. Con una mano fa un gesto ampio e perentorio, senza parole mi dice di buttarmi giù. Poi incalza: “Vieni giù, buttati. Non ti succede nulla”.
“È troppo alto” urlo.
Ripete il gesto accennando un sorriso benevolo, il cane è attentissimo. Decido di buttarmi, forse non è così difficile come penso, sento la voce roca di Alberto che si confonde con quella di Angela. Mi chiama, ma – lo distinguo chiaramente – con il mio nome nuovo: Sonia. Scivolo dalla finestra e sento la caduta morbida che mi porta verso Angela, in una specie di volo sconnesso, mentre la voce continua a chiamarmi.
«Sonia, sei lì dentro? Se ci sei rispondi, ti prego.»
Fatico prima di capire che sto uscendo dal sonno e che c’è davvero qualcuno che mi sta parlando, e quando sono sicura che non si tratta dell’abbaglio della mia mente confusa, mi alzo di scatto e corro alla porta. Il timbro di quella voce l’ho già sentito, lo conosco.
«Sono io, sì sono io, tu chi sei?»
«Marco, sono Marco», la voce gli si rompe dall’emozione.
«Marco, sei tu davvero?»
«Puoi aprire?»
«No, sono chiusa dentro.»
Dice cose sconnesse, o forse sono io che non riesco a capirle, comincia a lavorare alla porta per aprirla, lo sento pregare o bestemmiare, parla da solo e di tanto in tanto con un tono più alto mi rassicura: «Sonia, stai tranquilla, apro e ti porto via. Ci sono quasi».
Io aderisco alla porta, immobile con il corpo e il viso contro il legno che trema per i colpi di Marco. Ogni tanto anch’io gli dico qualcosa per non lasciarlo solo, per aiutarlo. Semplicemente per paura che sparisca.
«Spostati da lì dietro, Sonia, provo a sfondare.»
Mi metto a sedere sul letto, incapace di agire con l’ansia che mi fa tremare e fremere al pensiero di uscire a rivedere il cielo, a respirare l’aria in movimento, al pensiero di vedere Marco, di vedere qualcuno che non sia Gino. La porta si spalanca di colpo con uno schianto del legno, Marco dondola verso di me con la sua andatura stramba, con la faccia tirata e sorpresa che cerca di afferrare un sorriso. Tralascio lui per spingere lo sguardo verso il chiarore splendido dell’uscita alle sue spalle, l’uscita spalancata e libera, e vengo invasa da un improvviso terrore di alzarmi e uscire. Marco si inginocchia abbracciandomi le gambe e gemendo ripete: «Perdonami, è colpa mia, ti ho portata da un assassino, perdonami».
Gli accarezzo la testa e gli soffio: «Sssh!».
Poi, senza dirci più nulla, afferrato lo zaino, d’impeto ci lanciamo fuori, corriamo giù per le scale così velocemente che scivolo e mi sbuccio il ginocchio. Fa male tutto, la testa pulsa per la temperatura, le gambe sono pesanti. Marco mi aiuta, mi prende la mano e corriamo e corriamo per uscire in fretta dal budello di questa strada che presto si trasforma in un vicolo, dove per la prima volta da giorni incontro gente, che mi guarda. La mescolanza di umori che mi assale, la paura e la repulsione di poter incontrare di nuovo e all’improvviso Gino mi stanno paralizzando. Tiro il fiato, entriamo in un bar dalla vetrina piena delle luci di Natale per riprendere il filo della ragione e la parola.
«Adesso mangiamo qualcosa e ti riposi un attimo.» Marco mi scruta e con dolcezza mi fa sedere e trattiene ancora la mano fra le sue scandandola, si china a baciarla.
Ordino la colazione cercando di calmarmi e di allentare i tremori che non so se generati dalla febbre o dalla paura, o forse dal freddo. Nella fretta infatti non mi sono vestita troppo, ho tenuto la camicia da notte e sopra, mi rendo conto solo ora, i pantaloni e una maglietta di quelle che mi aveva portato Gino, colorata e stretta. Dagli sguardi del cameriere capisco di essere in disordine, o almeno stravagante.
«Sono brutta e in disordine.»
«Non è vero, sei sempre bella.»
Mi sembra impossibile pensare alla bellezza, alla mia poi. Nei giorni trascorsi da reclusa, in quelle ore ancora così vicine, la bellezza era sparita da tutto. E in ogni cosa si era infilata la volgarità, il brutto. La casa senza colori, triste e squallida si preparava la sera per accogliere la sopraffazione. Tutto era brutto, le cose come i sogni, e io fra loro. In quella casa avevo perso la bellezza.
Mi infilo nel bagno del bar, lo specchio rimanda la faccia di una bambina coi segni di una maturità precoce, le guance gonfie, gli occhi con una piega triste e la pelle opaca. Rassetto al meglio i capelli che mi tormentano per il loro disordine, sfilo la camicia da notte e prendo due golfini dallo zaino, avrei bisogno di un profumo che non ho. Mi spoglio di nuovo e lavo le braccia e il collo con abbondante sapone cercando di trattenerne la fragranza sulla pelle, lavo anche la ferita al ginocchio pulendo il sangue dai pantaloni.
Aggrappata alla tazza di tè che mi riscalda, i nervi si distendono, la febbre allenta la presa, le gambe si alleggeriscono.
Prendo un giornale, mentre Marco mi guarda e continua a non trovare le parole, e facendo finta di leggere cerco ancora con sforzo di concentrarmi su cosa posso fare, su come scacciare l’odio che mi assedia la testa, come ricacciare lontano quella figura che fa ombra su tutto, su questo mio viaggio, su Marco e sulla sua trattenuta fanciullaggine, trasformata d’incanto nella sapienza del salvatore. Ritorna nei pensieri la gigantessa Anna, ma soprattutto Angela. L’unica a cui potrei fare una telefonata è lei. Dovrei però confessarle che mi sono davvero messa nei guai stavolta, e lei con la sua macchinetta potrebbe venire qui, a Palermo, dove era nata sua madre. E raccontarmi un’altra storia e raccogliere le mie lacrime, perché ho proprio voglia di piangere. Due lacrime grosse si staccano e affondano nelle pagine del giornale e s’allargano rapidamente sull’inchiostro, che diventa una piccola pozza grigia. Non ho mai pianto in pubblico e mai in questi giorni tetri con Gino, e so che dovrei avere il coraggio di chiamare mia madre, di parlare con lei, di scusarmi, chiederle perdono e aiuto. Ma non ci riesco, e forse così, oggi, le farei più male.
Marco non stacca gli occhi da me e continua a tacere, ma serra le mascelle per la rabbia e l’impotenza.
Nella mia testa continua il ballo di una folla di danzatori diversi, da cui fuggire o a cui chiedere aiuto. Sono tutti qui e io fra loro, immobile, congelata dall’impotenza.
«Come hai fatto a trovarmi?»
«Appena finito con gli incontri, sono passato al ristorante, avevo voglia di vederti... e poi te l’avevo promesso. Ho chiesto dov’eri, ma Gino mi ha detto che eri sparita da un giorno all’altro, portandoti via i soldi della cassa. Non ci ho creduto e sono tornato il giorno dopo. Uno dei ragazzi mi ha raccontato che eri andata via una sera perché Gino non ti aveva pagata e ti aveva trattata male. Allora ho cominciato a seguirlo e mi sono accorto che la sera, prima di tornare a casa, passava da un’altra casa. E che in quell’appartamento la notte rimaneva accesa una luce.
Per giorni mi sono disperato al pensiero che tu ti potessi essere innamorata di lui e che lui ti stesse proteggendo, e usando. Non volevo pensare ad altro, non potevo pensare ad altro. E così mi sono messo ad aspettare sotto casa che tu uscissi, per parlarti e chiederti se davvero ti eri innamorata di lui. Quando non ti ho vista uscire, ho pensato che ti fossi ammalata... sono stato uno stupido, avrei dovuto sospettare, affrontarlo e riempirlo di pugni. Anche ora, invece di stare qui, dovrei andare a regolare i conti, e invece non sono che un bastardo senza coraggio, un vigliacco che ha paura di suo zio.»
Gli occhi lucidi di Marco, le vene del collo gonfie nello sforzo estremo di non piangere e quelle ultime parole che lo fanno schiumare mi quietano, invece di alimentare il mio odio, mi sembra quasi che il mio dovere sia quello di calmarlo, di fermarlo.
«Vorrei non pensarci ora, e non mi consola immaginarti mentre gli spacchi la faccia. Questo mi farebbe altro male. E lui me ne ha fatto già tanto.»
«Ascolta, Sonia, andiamo a casa mia, via da Palermo. La mia è una città bella sul mare. Mia madre sarà felice di conoscerti, sono giorni che le parlo solo di te. Stai lì, ti riprendi un po’ e poi decidi che fare. Che ne dici?»
«Non sono in grado di decidere ora, mi spaventa solo l’idea di dover uscire da quella porta, il pensiero che Gino mi stia cercando.»
«Non credo proprio.»
«In che senso? Cosa te lo fa supporre?»
«Stamattina al telefono gli ho urlato di sparire, di far sparire la sua famiglia, di non farsi trovare mai più. Prima di venire da te gli ho teso una trappola, gli ho detto che ti avevo trovata e liberata. L’ho terrorizzato.»
«Così non si può fare Marco, ci sono altri metodi.»
«Ti accompagno io alla polizia.»
«No, faccio da sola! Scusami. Capisco la tua intenzione ma non devi sentirti in colpa, tuo zio è un bastardo, è vero, ma ben mascherato e nessuno, forse nemmeno sua moglie, conosce tutta la violenza che ha in corpo. E tu che sei così ingenuo rischi di farti del male per una reazione istintiva. Lo odio anch’io, e ho sperato che morisse tutte le notti perché non potesse più tornare da me, aprire la porta, buttarmisi addosso. L’ho visto mentre si spappolava in un incidente, mentre cadeva in un fosso, mentre il suo cuore scoppiava. Non avevo pietà di sua moglie e dei suoi figli; anzi, pensavo, se morisse, se potessi ucciderlo, libererei tutti dal male che diffonde. Ora però io mi devo salvare da lui e da questo pensiero mortale, e anche tu. Dobbiamo salvarci, e se stamattina lo hai spaventato è sufficiente, al resto penseremo domani.»
«Andiamo a casa mia? O vuoi che ti porti in albergo?»
«Perdonami Marco, voglio restare a Palermo qualche giorno e decidere cosa fare. Andrò in albergo.»
«Allora prendi un po’ di soldi, ti serviranno.»
«Grazie, li accetto volentieri, sperando di restituirteli presto.»
«Però ti accompagno, non ti lascio sola.»
«No, devo andare alla stazione. Devo vedere una persona.»
«Ti accompagno e ti aspetto.»
...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La danza del mondo
  3. Il bacio
  4. L’incontro
  5. Il mese della furia
  6. Il tempo
  7. La prima sera
  8. La strada
  9. Vuoto d’amore
  10. Autunno
  11. Il pensiero dominante
  12. Verso Scilla
  13. La prima volta
  14. Le arance
  15. La cura
  16. Sul mare
  17. La casa
  18. Verso Palermo
  19. La famiglia
  20. Marco
  21. Lo schiaffo
  22. Il mercato
  23. L’addio
  24. Anna
  25. I figli
  26. Pugni
  27. Il sangue
  28. Gino
  29. L’amore in corpo
  30. Il Capitano
  31. Il foglio bianco
  32. L’amore non è giusto
  33. La bellezza
  34. Tommaso
  35. Copyright