Lesley Lokko
UN PERFETTO
SCONOSCIUTO
Traduzione di Roberta Scarabelli
Questo è per Eva, diva in miniatura.
Ha funzionato!
Benché alcuni fatti narrati nel romanzo si basino su eventi storici, fra cui la guerra in Sierra Leone, si avvisano i lettori che a volte l’autrice ne ha modificato leggermente la cronologia. Con tali cambiamenti non si intende arrecare alcuna offesa. L’autrice spera sinceramente che i lettori le perdoneranno questi occasionali scostamenti dall’accuratezza storica, che hanno lo scopo di mantenere il ritmo e la scansione temporale del racconto.
Celle, Germania, 2009
Nevicava. I fiocchi cadevano volteggiando lentamente in soffici spirali. Aveva dimenticato di mettersi i guanti e alzò le mani nude per cercare di proteggersi il viso, ma non servì a niente perché l’uomo gliele scostò con un gesto di stizza. L’afferrò per i capelli, obbligandola a girare la testa e a guardarlo. I suoi occhi chiari la scrutarono inespressivi. Lei si udì pronunciare qualche parola: forse, senza rendersene conto, lo stava supplicando nella propria lingua... ma non servì a niente. All’inizio la schiaffeggiò piano, quasi volesse prendersi gioco di lei, poi allontanò la mano per aggiustare la mira. Ebbe un attimo di esitazione prima di colpirla con un pugno violentissimo. Lei sentì la mascella incrinarsi; subito dopo una fitta di dolore lancinante le provocò un’ondata di nausea e la bocca le si riempì di sangue. Di nuovo un terribile istante di attesa, poi un altro pugno, un altro e un altro ancora. D’un tratto avvertì qualcosa di gelido sui denti, ma le ci volle qualche attimo per capire che quel grumo freddo era ghiaia mista a ghiaccio. La violenza dei colpi l’aveva scagliata a terra, a faccia in giù. Lui era alto e robusto, quasi il doppio di lei, e quando la tirò su in piedi le sembrò di essere leggera come la neve.
«Cagna» sibilò l’uomo a denti stretti. «Cagna bastarda.» Continuò a prenderla a calci e pugni, insultandola. Lei cadde un’altra volta. Riusciva a vedere i suoi stivali... Scorse per un attimo il proprio viso riflesso sulla pelle nera e lucida. Sentì la punta di metallo che la pungolava prima che partisse un altro calcio, violento e rapido. Avvertì una nuova fitta che la percorse fino alla radice dei capelli. L’uomo si chinò e avvicinò il viso al suo mentre le sfilava il cappotto dalle spalle e lo gettava via. Lei aveva freddo, un freddo mai provato prima, ma non era il vento a provocarle quella sensazione di gelo sulla pelle. Lui le afferrò la gonna e gliela strappò via.
«No... per favore, no.»
«Cagna.»
«No, no.»
«Chiudi quella dannata bocca.»
Meno di un secondo dopo, le diede un altro schiaffo e fu subito sopra di lei, soffocandola con il suo peso. Le strinse il collo con una mano grossa e tozza e le divaricò le gambe. Non aveva mai provato un dolore simile: era insopportabile, sembrava che la stesse sventrando. Si sentiva mancare mentre lui le serrava la gola, togliendole il respiro. Il grugnito che gli uscì alla fine sembrava provenire da qualche strana creatura... un animale, forse. “Non è un suono umano” pensò lei fuori di sé, lottando disperatamente sotto di lui. Chi poteva fare una cosa del genere? Nessuno. Nemmeno un essere come quello.
Era già stata con quell’uomo una volta – non così, non lì fuori in mezzo alla neve, con i vestiti strappati e una mano che cercava di strangolarla –, ma le era bastato per capire che era capace di tutto. Ecco perché si era rifiutata di stare ancora con lui. “Fallo andare con una delle altre ragazze” aveva sussurrato a Birgit. “Io non voglio. Mi fa paura.” Birgit aveva annuito: lei era brava, guadagnava bene... non faceva quasi mai storie. Se davvero non se la sentiva, non sarebbe stata obbligata a farlo. Era una delle regole tacite da Judy, il locale in cui lavorava, e per questo aveva finito per rimanere lì: era il posto più sicuro. Quando Birgit aveva proposto a quell’uomo un’altra ragazza, lui si era voltato e se n’era andato, e vedendolo uscire tutte avevano tirato un sospiro di sollievo. Quei soldati inglesi erano tipi strani, anche se il locale con loro faceva affari. Niente grane, per la maggior parte, ma ogni tanto se ne presentava uno un po’ pazzo che covava dentro di sé una rabbia selvaggia e disperata: non riuscivano a sfogarla nemmeno con il sesso a pagamento. Era da tipi come quelli che bisognava guardarsi. Potevano succedere cose terribili; le ragazze lo intuivano in qualche modo, e se erano intelligenti stavano alla larga, rifiutando il lavoro. Birgit, la proprietaria del locale, lo sapeva, e faceva in modo che lo capissero anche i clienti. Se una ragazza sentiva la paura – che emanava da loro come una specie di odore – cercava di scoraggiarli. Ma lui era tornato a cercarla. Ecco un’altra cosa che lei aveva capito la prima volta: non era il tipo da accettare un “no” come risposta. Avrebbe dovuto immaginarlo.
SAM
Notting Hill, Londra, 2009
7.01 di mattina. Sam Maitland aprì gli occhi e si guardò attorno cercando di mettere a fuoco la stanza. Nel buio la sveglia digitale brillava di una luce azzurra. 7.02. Esattamente da lì a tre minuti avrebbe gettato via il piumone caldo e si sarebbe alzata. Richiuse gli occhi, cercando di rituffarsi nel suo sogno, ma ormai era svanito. Il tempo scorreva silenziosamente... 7.04. Un ultimo minuto di pace, poi la sveglia suonò e lei con un sospiro buttò le gambe giù dal letto. Si diresse in bagno barcollando, accese la luce e, prima di entrare nella doccia, colse di sfuggita il proprio riflesso nello specchio: capelli arruffati, mascara sbavato, il segno del cuscino sulla guancia sinistra... Grazie a Dio era venerdì. La sera prima era uscita a cena con Peter Linman, il suo capo, e un cliente. Per fortuna non aveva esagerato: solo un paio di calici di vino rosso (e un unico bicchierino di whisky, più un sorso di tequila) per concludere una settimana insolitamente lunga e difficile.
Spalancò la porta di vetro e aprì la doccia. Nel giro di qualche secondo la stanza si riempì di vapore. Si abbandonò con riconoscenza al potente getto d’acqua calda. Dieci minuti dopo, con i folti capelli biondi lavati e pettinati, era finalmente sveglia. Si avvolse nell’accappatoio bianco, andò in soggiorno, accese la tivù e ascoltò distrattamente le notizie mentre si preparava una tazza di cereali. Con la mente era già alla riunione che Peter aveva fissato per quella mattina con un gruppo di nuovi clienti: americani, di solito il doppio più esigenti di chiunque altro e con un occhio sempre attento a quello che loro chiamavano “bottom line”, il succo della questione. Quella espressione la faceva sorridere ogni volta. Si sedette sul divano con la tazza di cereali e si allungò verso la segreteria telefonica.
“Ciao, Sam, sono Peter. Ti chiamo solo per ricordarti che l’incontro con Mark Silverman e la sua squadra sarà alle dieci meno un quarto, non alle dieci. Prima di cominciare prenderemo un caffè veloce nella sala del consiglio di amministrazione all’undicesimo piano. Spero che il panorama li ammorbidisca un po’. A domani.”
“Ehi, Sam... sono io. Richiamami appena puoi. Questa settimana, se riesci. Ah, venerdì prossimo è il mio compleanno, se per caso te ne fossi dimenticata.”
“Buon pomeriggio, signorina Maitland. È la portineria. Ci sono due pacchi per lei...”
“Ciao, Sam... sono ancora io. Chiamami stasera appena rientri, va bene? Devo dirti una cosa. Non importa se torni tardi.”
Sorrise mentre cancellava i messaggi. Due erano di Paula, la sua migliore amica: la persona più scombinata, disorganizzata ma anche brillante che avesse mai conosciuto, straordinaria creatrice di gioielli. “No, non mi sono dimenticata del tuo compleanno” disse fra sé rivolta al telefono. Come avrebbe potuto? Tutti gli anni Paula la chiamava per ricordarglielo e, ora che ne compiva trentotto, ce n’erano stati di promemoria. Finì di mangiare i cereali e spense il televisore. Le 7.45. Era ora di darsi una mossa.
Un quarto d’ora più tardi era pronta. Si controllò velocemente allo specchio. Aveva raccolto i capelli in un morbido chignon fermandoli con un pettine di tartaruga. Indossava il suo tailleur nero preferito, un Armani con la gonna al ginocchio leggermente svasata e la giacca attillata, e una camicetta bianca inamidata con una piccola ruche sul collo. Completavano la mise una catenina e due grandi orecchini d’oro a cerchio, tacchi altissimi (Manolo Blahnik, naturalmente) e il pesante anello d’oro antico che portava sempre al dito medio della mano sinistra (a mo’ di sfida, le dicevano le sue amiche per prenderla in giro).
Chiuse a chiave la porta d’ingresso e corse giù per le scale. La sua piccola auto sportiva grigio metallizzato era parcheggiata davanti all’entrata del palazzo. Disinserì l’allarme e scivolò al posto di guida. L’odore di pelle dei sedili le dava ancora un brivido di piacere: amava il suo piccolo bolide. Se l’era regalato quando aveva compiuto trentacinque anni. Un po’ caro, certo, ma ne era valsa decisamente la pena. Niente le piaceva quanto guidare fino a casa dopo una giornata di lavoro lunga e pesante. Gettò la ventiquattrore sul sedile posteriore, accese il motore e si immise nel flusso di automobili dirette a Bayswater Road. Il suo ufficio era in North Row, una traversa di Park Lane: senza traffico, meno di cinque minuti. Avrebbe potuto fare una passeggiata o prendere l’autobus, ma aveva sgobbato così tanto per arrivare dov’era che le sembrava di essersi meritata il lusso di percorrere in auto quella breve distanza.
«Buongiorno, signorina Maitland.» Jim, il parcheggiatore giovane e belloccio, sfoderò un sorriso radioso quando Sam aprì la portiera. Non era un segreto per nessuno che i suoi sorrisi più luminosi erano riservati a lei.
«Grazie.» Gli porse le chiavi e si avviò a passo veloce verso gli ascensori. Non aveva voglia di fermarsi a flirtare con Jim, né con chiunque altro, a dire la verità. Flirtare la metteva a disagio, e oltretutto non era mai stata capace di farlo. Molti pensavano che fosse fin troppo seria.
Quando la sentì entrare in ufficio, Claire, la sua segretaria, alzò lo sguardo. «’Giorno, Sam. Peter è già andato su» disse porgendole una grossa tazza di caffè nero e una pila di documenti. «Ha detto di anticiparti che Ruth Keneally vi raggiungerà fra poco.»
Sam si sentì male. Ruth Keneally era il capo della sede di New York. Il fatto che partecipasse alla riunione poteva significare solo una cosa: la causa non sarebbe stata semplice e breve come avevano sperato tutti. Be’, tutti tranne Peter Linman, in effetti. Lui ne sarebbe stato contento, perché se fosse andata per le lunghe lo studio avrebbe fatturato molto di più. Avendo già passato gran parte dell’anno precedente su un caso simile, Sam pregava che quello si concludesse velocemente. Di lì a due settimane sarebbe andata in vacanza, la prima vera vacanza da anni. Sei giorni in un hotel di lusso a Marrakech: non vi avrebbe rinunciato per niente al mondo, nemmeno per Ruth Keneally.
Si diresse verso l’ascensore, già concentrata sulla riunione che la aspettava. Non aveva avuto il tempo di studiare la causa in modo approfondito come avrebbe voluto, ma da quello che aveva capito era un caso lampante di errata assegnazione dei diritti... niente di strano. Il cliente – uno scrittore inglese che viveva a Los Angeles – aveva ceduto l’opzione su una sceneggiatura a un prezzo assurdamente basso, e ora che la casa cinematografica intendeva trarne un film, avevano cercato di escluderlo dal progetto. Succedeva in continuazione. Lo studio per cui lavorava Sam – Bellitte, Hazelby, Forman, Lazards –, specializzato in diritto dello spettacolo, era uno dei più importanti al mondo. Se c’era qualcuno in grado di sistemare quel genere di questioni, erano loro. Per un attimo Sam si domandò come avrebbe fatto uno sceneggiatore sul lastrico a permettersi le loro parcelle, ma quello era un problema di Peter, non certo suo. Mandò giù un altro sorso di caffè bollente e chiamò l’ascensore.
«Ci vediamo dopo!» gridò Claire mentre si aprivano le porte. «Non dimenticarti che stasera devi cenare con Soltermann e Jim Burns. Ho prenotato l’American Grill al Savoy.» Rise vedendo l’espressione di Sam. «Ah, te ne eri scordata.» Sam annuì con un’espressione disperata. «Non ti preoccupare, faccio un salto fuori all’ora di pranzo e ti compro una camicetta. Rosa va bene?» azzardò osservando le sue scarpe.
Sam annuì di nuovo. «Grazie, Claire, sei un angelo.» Non riuscì ad afferrare la risposta della segretaria perché le porte si chiusero e l’ascensore cominciò a salire lentamente. Finì il caffè, si assicurò di avere i capelli in ordine e tornò a concentrarsi sulla riunione. Se c’era una cosa su cui Peter poteva davvero contare, era la sua abilità nello studiare a fondo le questioni. Altri avvocati dello studio erano molto più acuti o dotati di intuito, ma pochi erano scrupolosi quanto lei. Capitava di rado che fosse Sam a suggerire una linea di difesa a cui nessun altro aveva pensato o una strategia che gli altri ritenevano rischiosa... No, la sua abilità stava nel concentrarsi con ostinazione sui dettagli, scovando elementi che altri, nella fretta, potevano avere dimenticato. Era così fin dai tempi della scuola: Sam non era mai stata la più brillante, né quella su cui tutti puntavano. Quell’onore era sempre toccato alla sua gemella. Kate era sveglia, aveva la parlantina facile e un carattere volubile. Sam no. Tutti dicevano che la sua personalità emergeva con il tempo, anche se era lei la prima a dubitarne: non emergeva e basta... Era quello il problema. Ma era attenta e responsabile, due qualità molto apprezzate in uno studio legale: per questo aveva scelto di diventare avvocato. Era giunta da tempo alla conclusione che si vivesse meglio puntando sulle proprie qualità e cercando di metterle in risalto. Era l’unico motivo per cui era stata promossa junior partner prima dei colleghi con la stessa esperienza. Durante l’adolescenza aveva cercato disperatamente di sembrare diversa da quella che era in realtà. Anche se erano passati vent’anni, il ricordo del dolore che quella forzatura le aveva causato era ancora vivo. Non avrebbe di certo ripetuto un errore simile.
«Ah, Sam... Bene, sei riuscita ad arrivare un po’ in anticipo. Ruth, ti ricordi di Sam Maitland? Ha lavorato con noi alla causa D&B contro Apster.»
«Certo. Piacere di rivederti, Sam. Allora, ci siamo tutti? Lasciate che vi aggiorni brevemente...»
Sam si affrettò a prendere posto al tavolo, tirò fuori il suo portatile e scacciò dalla mente il ricordo degli anni infelici dell’adolescenza e il pensiero dell’imminente vacanza.
Due settimane dopo, accantonò la pila di appunti che aveva preso sulla causa in corso senza avere ancora un’idea chiara della strategia difensiva da adottare, ma per una volta non le importava. Erano quasi le quattro del pomeriggio. Di lì a un quarto d’ora sarebbe arrivato il taxi che l’avrebbe portata a Heathrow. Quindici minuti. Erano anni che non guardava l’orologio mentre lavorava, ma quella era un’occasione speciale. Non avrebbe potuto scegliere giornata migliore per andarsene da Londra. Stava piovendo, ovviamente, una pioggerella sottile che durava da quasi una settimana e non accennava a smettere: proprio il clima che faceva venire voglia di piangere per solidarietà. Non era ora che arrivasse la primavera? Cominciò a sistemare la scrivania, riordinando le sue cose. C’erano un paio di fogli vicino alla tastiera... Li guardò titubante.
«Dài.» La voce di Claire irruppe nei suoi pensieri. «Mettili via. Passali a qualcuno. Tutti quanti.»
Sam alzò lo sguardo sentendosi in colpa. Claire era in piedi sulla soglia e le sorrideva con aria di intesa. «Ma... e se...» cominciò a dire Sam.
«No. Niente “se”. Stai andando in vacanza, Sam. Dài... anche quello.»
«Ma...»
«Niente “ma”. Se c’è qualcosa di terribilmente importante, ti chiameremo.»
«Promesso?»
«Promesso.» Claire lanciò un’occhiat...