Il codice Rebecca
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Il codice Rebecca

  1. 364 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il codice Rebecca

Informazioni su questo libro

Estate 1942, Nord Africa. Il generale Rommel, da tutti ritenuto imbattibile, è riuscito ad accerchiare le truppe britanniche e sembra a un passo dalla vittoria finale. La "volpe del deserto" ha un'arma segreta: una spia assolutamente fuori dal comune. Alex Wolff.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804620006
eBook ISBN
9788852026836
Parte prima

TOBRUK

I

L’ultimo cammello crollò a mezzogiorno.
Era il maschio chiaro di cinque anni che aveva acquistato a Gialo. Dei tre, il più giovane e robusto, e il meno bizzoso. Lo amava quanto un uomo può amare un cammello: in altre parole, lo odiava con moderazione.
Uomo e cammello risalirono il lato sottovento di una duna sprofondando nella sabbia e quando furono in cima si fermarono. Guardarono avanti e quello che videro fu un’altra duna, e oltre quella altre mille. Fu come se nel cammello si spegnesse ogni speranza. Le zampe anteriori si piegarono, poi anche quelle posteriori crollarono. Si accovacciò in cima alla duna come un monumento, fissando il deserto con l’indifferenza di chi muore.
L’uomo tirò le briglie. L’animale sollevò la testa e tese il collo, ma non si alzò. L’uomo si mise dietro di lui e lo prese a calci sui fianchi più forte che poteva, tre o quattro volte. Infine prese un coltello ricurvo da beduino, affilato come un rasoio, e glielo conficcò nella groppa. Il sangue cominciò a sgorgare dalla ferita, ma il cammello non alzò nemmeno le palpebre semichiuse.
L’uomo capì cosa stava accadendo. Il corpo dell’animale, i suoi tessuti privi di nutrimento avevano cessato di funzionare, come un’automobile priva di carburante. Aveva visto altri cammelli crollare in quel modo al limitare di un’oasi, circondati da foglie dispensatrici di vita cui non avevano badato, troppo spossati per mangiare.
Avrebbe potuto tentare altri due espedienti. Uno era versargli dell’acqua nelle narici, fino a quando non si fosse sentito soffocare. L’altro sistema consisteva nell’accendergli un fuoco sotto la pancia. Ma non aveva né acqua né legna da sprecare e per di più nessuno dei due metodi aveva grandi probabilità di successo.
In ogni caso, era ora di fermarsi. Il sole era alto e cocente. Stava iniziando la lunga estate del Sahara e la temperatura, a mezzogiorno, raggiungeva i quarantaquattro gradi all’ombra.
Senza scaricare il cammello, l’uomo aprì una sacca e tirò fuori la tenda. Si guardò intorno un’altra volta, meccanicamente: non vide alcun riparo. Un posto valeva l’altro. Piantò la tenda accanto al cammello morente, lì sulla cima della duna.
Si sedette a gambe incrociate vicino all’apertura della tenda per prepararsi il tè. Spianò la sabbia davanti a sé, fece una piramide con pochi preziosi rami secchi e accese il fuoco. Quando l’acqua raggiunse il bollore, preparò il tè alla maniera dei nomadi: lo versò dal pentolino nella tazza, vi aggiunse lo zucchero, poi lo versò di nuovo nella pentola lasciandolo in infusione e ripeté più volte l’operazione. Ottenne una bevanda molto forte e piuttosto stucchevole, la più stimolante del mondo.
Mentre aspettava che il sole si abbassasse, sbocconcellò qualche dattero e guardò il cammello che moriva. La sua calma gli derivava dalla pratica. Aveva percorso un lungo tratto in quel deserto, più di millecinquecento chilometri. Due mesi prima aveva lasciato El Agheila, sulla costa mediterranea della Libia, e si era diretto a sud. Passando per Gialo e Kufra, aveva percorso ottocento chilometri, fino al cuore del Sahara, poi aveva piegato verso est e varcato il confine egiziano senza che uomo o animale lo vedesse. Aveva attraversato la distesa rocciosa del Deserto Occidentale e aveva girato verso nord vicino a El Kharga. Ormai non era lontano dalla sua destinazione. Conosceva il deserto, ma lo temeva. Tutti gli uomini intelligenti lo temevano, perfino i nomadi che vi trascorrevano tutta la vita, tuttavia lui non si era mai lasciato prendere dalla paura, dal panico irrazionale. Errori di rotta che allontanavano di un paio di chilometri da una fonte; borracce che perdevano acqua o che scoppiavano; cammelli dall’aria vigorosa che si ammalavano dopo un paio di giorni. Le frequenti avversità non lo sorprendevano. Si poteva dire soltanto Inshallah: È il volere di Dio”.
Finalmente il sole cominciò a calare verso occidente. Guardò il carico del cammello e si chiese quanto sarebbe riuscito a trasportarne da solo. C’erano tre valigette di fattura europea – due leggere e una pesante, ma tutte importanti –, una borsa di indumenti, un sestante, le mappe, il cibo e la borraccia. Era già troppo: avrebbe dovuto lasciare la tenda, l’occorrente per il tè, la pentola, l’almanacco e la sella.
Strappò qualche indumento e usò le strisce di stoffa per legare insieme le tre valigie, poi vi sistemò sopra i vestiti, il cibo e il sestante. Si mise il carico in spalla, come uno zaino, e lasciò penzolare la borraccia sul petto.
Era un carico pesante.
Tre mesi prima, sarebbe stato in grado di trasportarlo per tutto il giorno e di giocare a tennis la sera: era un uomo forte. Il deserto, però, lo aveva indebolito. Il suo intestino era ridotto in poltiglia, la pelle era tutta una piaga e aveva perso dieci o quindici chili. Senza il cammello non sarebbe andato lontano.
Si mise in cammino tenendo in mano la bussola.
Non fece la minima deviazione, resistendo alla tentazione di girare intorno alle colline: secondo i suoi calcoli, stava percorrendo gli ultimi chilometri e il più piccolo errore avrebbe potuto portarlo fuori strada di qualche fatale centinaio di metri. Procedeva a passi lunghi, con un’andatura lenta e regolare. Dopo avere liberato la mente da speranze e timori, si concentrò sulla bussola e sulla sabbia. Dimentico del suo corpo martoriato, metteva un piede davanti all’altro in modo automatico, senza pensarci e quindi senza sforzo.
L’aria si rinfrescò con il sopraggiungere della sera. Il peso della borraccia diminuiva via via che lui ne consumava il contenuto. Cercò di non pensare a quanta acqua gli rimaneva: ne beveva in media tre litri al giorno e sapeva che non ce n’era a sufficienza per altre ventiquattr’ore. Uno stormo di uccelli passò sopra di lui fischiando forte. Guardò in su schermandosi gli occhi con la mano e li riconobbe: erano pterocli del Liechtenstein, uccelli del deserto simili a piccioni bruni che si dirigevano verso l’acqua tutte le mattine e tutte le sere. Volavano nella sua stessa direzione; questo significava che era sulla strada giusta. Ma avrebbero potuto volare anche per ottanta chilometri prima di raggiungere un’oasi: dalla loro presenza, quindi, trasse solo un piccolo incoraggiamento.
Le nubi si addensavano all’orizzonte mentre il deserto diventava più freddo. Alle sue spalle, il sole si abbassò ancora di più, trasformandosi in un grande pallone giallo. Poco più tardi, la luna spuntò in un cielo rosso porpora.
Pensò di fare una sosta: nessuno poteva camminare un’intera notte. Ma non aveva una tenda, né una coperta, né riso, né tè ed era sicuro di essere vicino alla sorgente. Secondo i suoi calcoli, doveva proprio esserci.
Proseguì. La sua calma si stava incrinando. Aveva opposto al deserto spietato la sua forza e la sua esperienza, ma ormai cominciava a credere che sarebbe stato il deserto ad averla vinta. Ripensò al cammello che aveva lasciato: si era accovacciato in cima alla duna, con la tranquillità di chi ha esaurito le forze, in attesa della morte. Lui non avrebbe atteso la morte: quando fosse divenuto inevitabile, le sarebbe corso incontro. Non avrebbe subito ore di agonia, di folle delirio. Non avrebbe perso la propria dignità: aveva il coltello.
Quel pensiero lo gettò nella disperazione e lo rese incapace di controllare la paura. La luna tramontò, ma rimase il chiarore delle stelle. Vide sua madre in lontananza, che gli diceva: “Non dire che non ti ho avvisato”. Udì un treno sbuffare lentamente, al ritmo del battito del suo cuore. A ogni passo, le pietre rotolavano via come topi in fuga. Sentì un profumo di agnello arrosto. Raggiunse la cima di una duna e, a breve distanza, vide il rosso balenio del fuoco su cui era stata arrostita la carne; lì accanto, un bambino rosicchiava gli ossi. Intorno al fuoco c’erano le tende, i cammelli impastoiati che brucavano i cespugli sparsi e, dietro, la fonte. Camminò verso l’allucinazione. Gli uomini del sogno lo guardarono stupiti. Uno di loro – un giovane alto – si alzò in piedi e parlò. Il viaggiatore tirò giù il suo howli e si scoprì il viso.
L’uomo alto avanzò, stupefatto, e disse: «Cugino mio!».
Il viaggiatore comprese che, dopotutto, quella non era un’illusione. Abbozzò un sorriso e crollò a terra.
Quando si svegliò, per un istante ebbe l’impressione di essere tornato bambino e di avere sognato la sua vita da adulto.
Qualcuno gli stava toccando una spalla e gli stava dicendo: «Svegliati, Achmed» nel linguaggio del deserto. Erano anni che nessuno lo chiamava così. Si rese conto di essere avvolto in una coperta grezza, disteso sulla sabbia fredda, con la testa riparata da un howli. Aprì gli occhi e assistette allo spettacolo del sole che sorgeva in un arcobaleno di colori sopra la linea piatta e scura dell’orizzonte. Il vento gelido del mattino soffiò sul suo viso. In quel momento, provò tutta la confusione e l’ansia che aveva già provato quando aveva quindici anni.
La prima volta che si era svegliato nel deserto si era sentito completamente perso. Aveva pensato: “Mio padre è morto”. E poi: “Ho un nuovo padre”. Gli erano venuti in mente brani delle sura del Corano frammisti a passi del Credo, che sua madre gli insegnava ancora in segreto, in tedesco. Ricordò l’acuto dolore della circoncisione, seguito dagli “urrà” e dai colpi di fucile degli uomini che si congratulavano con lui perché era diventato uno di loro, un vero uomo. Poi c’era stato il lungo viaggio in treno, durante il quale si era domandato come sarebbero stati i suoi cugini del deserto, e se avrebbero considerato con disprezzo la sua pelle chiara e i suoi modi da cittadino. Era uscito in fretta dalla stazione e aveva visto i due arabi, seduti per terra accanto ai loro cammelli. Erano avvolti nelle vesti tradizionali dalla testa ai piedi, attraverso la fessura nell’howli si scorgevano soltanto i loro occhi scuri e indecifrabili. Lo avevano portato alla sorgente. Era stata un’esperienza spaventosa: nessuno gli aveva parlato, avevano comunicato a gesti. Quella sera si era reso conto che lì non esistevano servizi igienici e aveva provato un terribile imbarazzo. Alla fine era stato costretto a chiedere. Dopo un momento di silenzio, tutti erano scoppiati a ridere. Chiaramente avevano pensato che non sapesse la loro lingua e per quella ragione avevano cercato di comunicare con lui a gesti. Quando aveva usato un termine infantile per chiedere dove fosse la toilette, avevano trovato la cosa molto buffa. Qualcuno gli aveva spiegato che la soluzione era semplice: doveva fare pochi passi oltre il cerchio delle tende e acquattarsi tra le dune. Dopo quell’episodio, lui non si era mai più sentito così spaventato. Quegli uomini erano duri, ma non cattivi.
Tutti quei pensieri gli avevano attraversato la mente quando aveva assistito all’alba nel deserto per la prima volta; ora, dopo vent’anni, ritornavano nitidi come il brutto ricordo del giorno prima, insieme alle parole: “Svegliati, Achmed”.
Si alzò a sedere di colpo, mentre i ricordi si dissolvevano con la stessa rapidità delle nuvole mattutine. Aveva attraversato il deserto per portare a termine una missione di importanza vitale. Aveva trovato la fonte, e non si era trattato di un’allucinazione: i suoi cugini erano proprio lì, come sempre in quel periodo dell’anno. Era crollato esausto e loro lo avevano avvolto nelle coperte e lo av...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il codice Rebecca
  4. Parte prima. TOBRUK
  5. Parte seconda. MERSA MATRUH
  6. Parte terza. ALAM HALFA
  7. Copyright