Simon sedeva sulla poltrona del soggiorno di Kyle e fissava il fermo immagine sul televisore nell’angolo della stanza. Era il videogioco, messo in pausa, a cui aveva giocato con Jace, e la scena era quella di un tunnel sotterraneo melmoso con un mucchio di cadaveri a terra, attorniati da pozze di sangue molto realistiche. Inquietante, ma Simon non aveva né la voglia né le energie necessarie per alzarsi e spegnere. Le immagini che gli erano passate tutta la notte per la testa erano state di gran lunga peggiori.
La luce che inondava la stanza attraverso le finestre, e che fino a prima era soltanto il chiarore impalpabile dell’alba, ora si era intensificata fino a diventare la luminosità ancora pallida del mattino presto, ma Simon se ne accorse a malapena. Continuava a vedere davanti agli occhi il corpo accasciato di Maureen, con quei capelli biondi macchiati di sangue. Se stesso che barcollava in avanti nel buio della notte, con il sangue della ragazza che gli cantava nelle vene. E poi Maia che si avventava su Kyle, aggredendolo con gli artigli. Kyle era rimasto fermo a terra, senza alzare un dito per difendersi; probabilmente si sarebbe lasciato uccidere, se non fosse intervenuta Isabelle staccandogli di dosso il corpo di Maia e facendola rotolare a terra, dove l’aveva bloccata finché la sua furia non si era trasformata in lacrime. Simon aveva cercato di intervenire, ma Isabelle lo aveva dissuaso con uno sguardo rabbioso, tenendo un braccio attorno alla ragazza e una mano alzata per fargli segno di stare alla larga.
«Vattene via» gli aveva detto. «E porta lui con te. Non so che cosa le abbia fatto, ma non deve essersi trattato di una cosa tanto piacevole.»
E aveva ragione. Simon conosceva quel nome, Jordan. Lo aveva sentito altre volte, quando aveva chiesto a Maia come fosse stata trasformata in una licantropa. Era stato il suo ex ragazzo, gli aveva detto. L’aveva attaccata in modo crudele e violento, dopodiché era scappato lasciandola a gestire da sola le conseguenze del suo gesto.
E quel ragazzo si chiamava Jordan.
Era quello il motivo per cui Kyle aveva solo un nome sul citofono: era il suo cognome. Quello completo doveva essere Jordan Kyle, dedusse Simon. Era stato uno stupido, un vero stupido a non esserci arrivato prima. Non che in quel momento gli servisse un altro motivo per odiarsi.
Kyle, o meglio Jordan, era un licantropo; guariva in fretta. Quando Simon lo aveva sollevato in piedi, senza troppa delicatezza, i profondi tagli che aveva sul collo e sotto i brandelli della maglietta si erano già cicatrizzati. Simon gli aveva preso le chiavi e aveva guidato fino a Manhattan senza quasi aprire bocca, mentre Jordan sedeva praticamente immobile sul sedile del passeggero, fissandosi le mani insanguinate.
«Maureen sta bene» aveva detto infine mentre attraversavano Williamsburg Bridge. «Sembrava messa peggio. Non sei ancora molto bravo a nutrirti di umani, perciò non aveva perso troppo sangue. L’ho messa su un taxi, non ricorda niente. Pensa di esserti svenuta davanti, e se ne vergogna moltissimo.»
Simon sapeva di dover ringraziare Jordan, ma per quanto ci provasse non riusciva a farlo. «Tu sei Jordan» gli disse. «L’ex ragazzo di Maia. Quello che l’ha trasformata in una licantropa.»
Si trovavano su Kenmare Street; Simon andò verso nord, direzione Bowery, una via profilata di pensioncine da due soldi e negozietti di articoli per l’illuminazione.
«Sì» disse Jordan. «Kyle è il cognome. Ho iniziato a farmi chiamare così quando sono entrato nel Praetor.»
«Ti avrebbe ucciso, se non fosse intervenuta Isabelle.»
«Se vuole farlo, ne ha tutto il diritto» replicò Jordan prima di sprofondare nel silenzio.
Non disse più nulla nemmeno mentre Simon trovava parcheggio e insieme salivano le scale che li portavano al loro appartamento. Poi entrò in camera sua senza nemmeno togliersi la giacca sporca di sangue, e infine chiuse la porta sbattendola.
Simon aveva messo tutte le sue cose nello zaino e si era fermato un attimo prima di lasciare l’appartamento. Anche adesso non capiva bene cosa l’avesse fatto esitare la notte prima, ma alla fine, invece di uscire, aveva lasciato le sue cose accanto alla porta e si era seduto sulla poltrona, dove aveva trascorso tutta la notte e dove stava ancora adesso.
Avrebbe voluto chiamare Clary, ma era troppo presto. Inoltre Isabelle l’aveva vista allontanarsi insieme a Jace e l’idea di interrompere un momento speciale non lo entusiasmava. Si chiese come stesse sua madre. Se l’avesse visto la sera prima, con Maureen, l’avrebbe giudicato in tutto e per tutto il mostro che lo aveva accusato di essere.
Forse era così.
Alzò lo sguardo quando la porta di Jordan si socchiuse e il ragazzo ne uscì. Era scalzo, con ancora indosso gli stessi jeans e la stessa maglietta del giorno prima. Le cicatrici sul collo si erano trasformate in segni rossi appena visibili. Guardò Simon. I suoi occhi nocciola, di solito così luminosi e allegri, erano venati da un’ombra scura. «Pensavo che te ne saresti andato.»
«Stavo per farlo» ammise Simon. «Ma poi ho pensato che dovevo darti la possibilità di spiegare.»
«Non c’è niente da spiegare.» Jordan camminò lento verso il bancone della cucina e rovistò in un cassetto finché non recuperò un filtro per il caffè. «Qualunque cosa Maia abbia detto di me sarà senz’altro vera.»
«Ha detto che l’hai picchiata» rispose Simon.
Jordan, in cucina, si chiuse nel silenzio. Abbassò lo sguardo sul filtro come se non sapesse più cosa farsene.
«Ha detto che siete usciti insieme per mesi e che tutto andava alla grande» continuò Simon. «Poi tu sei diventato geloso e violento. Quando lei te lo ha fatto notare, tu l’hai picchiata. Ti ha lasciato, e mentre una sera tornava a casa da sola, qualcosa l’ha attaccata e per poco non l’ha uccisa. E tu… te ne sei andato dalla città. Senza scuse, senza spiegazioni.»
Jordan appoggiò il filtro del caffè sul bancone della cucina. «Come ha fatto a venire qui e a trovare il branco di Luke Garroway?»
Simon scosse la testa. «È saltata su un treno per New York e li ha rintracciati. Maia è una sopravvissuta. Non si è lasciata abbattere da quello che le hai combinato, come invece avrebbe fatto un sacco di gente.»
«È per questo che sei rimasto?» chiese Jordan. «Per dirmi che sono un bastardo? Tranquillo, lo so già.»
«Sono rimasto» rispose Simon «per quello che ho fatto ieri notte. Se avessi scoperto tutto il giorno prima, allora sì, me ne sarei andato. Ma dopo quello che hai fatto per Maureen…» Si morse le labbra. «Pensavo di poter controllare le cose che mi succedono, invece non è stato così, e ho fatto del male a una persona che non lo meritava. Ecco il motivo per cui rimango.»
«Perché se io non sono un mostro, non lo sei nemmeno tu.»
«Perché voglio sapere come si fa ad andare avanti, e forse tu me lo puoi dire.» Simon si chinò in avanti. «Perché da quando ti ho conosciuto, sei sempre stato buono con me. Non ti ho mai visto comportarti male e nemmeno arrabbiarti. E poi ho ripensato al Praetor Lupus, e a quando mi hai detto di esserti unito a loro perché avevi commesso delle brutte azioni. Forse la brutta azione è Maia ed è lei la pena che cercavi di scontare…»
«Sì, ci sto provando» rispose Jordan. «È lei.»
Clary, seduta alla scrivania della piccola camera degli ospiti in casa di Luke, aveva disteso davanti a sé il lembo di tessuto preso all’obitorio del Beth Israel. Per tenerlo steso, ci aveva messo sopra alcune matite da entrambi i lati, e ora lo sovrastava, stilo alla mano, cercando di ricordare la runa che aveva visto in ospedale.
Concentrarsi era difficile. Continuava a ripensare a Jace, alla sera prima, a dove fosse andato, al perché fosse così triste. Prima di vederlo non si era resa conto che lui fosse a pezzi quanto lei, e la scoperta le aveva straziato il cuore. Voleva chiamarlo, ma da quando era rientrata a casa si era trattenuta diverse volte dal farlo. Se lui aveva voglia di spiegarle qual era il problema, avrebbe dovuto farlo senza che gli venisse chiesto: lo conosceva abbastanza bene da sapere che era così che si comportava.
Chiuse gli occhi e cercò di costringersi a disegnare la runa. Non l’aveva ideata lei, di questo era abbastanza sicura. Era una runa che già esisteva, anche se non poteva giurare di averla già vista nel Libro Grigio; la sua forma le indicava che non si trattava tanto di traduzione, quanto di rivelazione, di portare alla luce qualcosa nascosto sottoterra, come se stesse soffiando via lentamente la polvere depositata sopra un’iscrizione…
Lo stilo le sussultò fra le dita e, quando riaprì gli occhi, Clary scoprì con sorpresa che era riuscita a fare un piccolo disegno sul bordo del tessuto. Sembrava una macchia d’inchiostro, con degli strani schizzi che si allargavano qua e là; Clary corrugò la fronte, temendo di aver perso il suo dono. Invece il tessuto iniziò a brillare, come gocce d’acqua sull’asfalto bollente, e la ragazza rimase a fissare le parole che percorrevano il panno come se a scriverle fosse stata una mano invisibile.
PROPRIETÀ DELLA CHIESA DI TALTO. RIVERSIDE DRIVE 232.
Clary si sentì prendere dall’entusiasmo. Era un indizio, un vero indizio! Ci era arrivata da sola, senza l’aiuto di nessuno.
Riverside Drive, numero 232. Si trovava, pensò, nella zona dell’Upper West Side, vicino a Riverside Park, dall’altra parte del fiume rispetto al New Jersey. Non era molto distante, anzi. La Chiesa di Talto… Clary appoggiò lo stilo con un’ espressione preoccupata sul viso. Di qualunque cosa si trattasse, erano cattive notizie. Si avvicinò con la sedia al vecchio computer di Luke e andò su internet. Non si stupì di scoprire che le parole “Chiesa di Talto” non davano alcun risultato significativo. Quello che c’era scritto sul bordo della striscia di tessuto doveva essere in purgatico, o in ctoniano, o in qualche altro linguaggio demoniaco.
Di una cosa però era certa: qualunque cosa fosse questa Chiesa di Talto, era un segreto, e probabilmente qualcosa di pericoloso. Se era coinvolta nella trasformazione di neonati umani in cosi con gli artigli al posto delle mani, non poteva trattarsi di una vera comunità religiosa. Clary si chiese se magari la madre che aveva abbandonato il bambino vicino all’ospedale ne facesse parte e se sapesse in cosa si era cacciata prima di dare alla luce suo figlio.
Quando prese il telefono si sentì avvolgere da un’ondata di freddo, che la paralizzò con l’apparecchio in mano. Voleva chiamare sua madre, ma si rese conto che non poteva parlare di queste cose con lei, che aveva appena smesso di piangere accettando di uscire un po’ con Luke per scegliere le fedi. E sebbene Clary ritenesse sua madre abbastanza forte da saper gestire qualsiasi verità fosse emersa, di certo si sarebbe messa nei guai con il Conclave per aver approfondito le indagini fino a quel punto senza informarlo.
Luke. No, Luke era con sua madre, perciò non poteva chiamare nemmeno lui. Maryse, forse. La sola idea di contattarla, però, le sembrava assurda, la intimoriva. Inoltre Clary sapeva, magari senza volerlo ammettere a se stessa, che se avesse lasciato il caso al Conclave, lei sarebbe stata messa da parte, esclusa da un mistero che le sembrava profondamente personale. Senza contare che poi le sarebbe sembrato di tradire sua madre per il Conclave.
Ma partire all’avventura così, da sola, senza sapere cosa avrebbe trovato… Sì, si era allenata, ma non fino a quel punto. E poi sapeva che, di carattere, era portata prima ad agire e poi a riflettere. Strinse fra le mani il cellulare, esitò un istante… e mandò un breve messaggio: RIVERSIDE 232. INCONTRIAMOCI SUBITO LÌ. È IMPORTANTE. Schiacciò il tasto d’invio e rimase seduta un momento, finché lo schermo del telefono non si accese con la risposta: OK.
Con un sospiro, Clary appoggiò il cellulare e andò a prendere le sue armi.
«Io amavo Maia» disse Jordan. Ora era seduto sul divano, dopo essere finalmente riuscito a prepararsi il caffè ma senza averne bevuto una goccia. Se ne stava lì con la tazza fra le mani, girandola e rigirandola mentre parlava. «Devi saperlo, prima che ti racconti il resto. Arriviamo tutt’e due da una squallida cittadina del New Jersey e lei aveva sempre un sacco di casini perché suo padre era nero e sua madre bianca. Aveva anche un fratello, uno psicopatico totale: Daniel, non so se te ne ha mai parlato.»
«Non molto» fece Simon.
«Con una situazione del genere alle spalle, la sua vita era praticamente un inferno, ma non per questo si lasciava scoraggiare. La incontrai in un negozio d...