C’è un cane che irrompe nella vita di Edmondo Berselli. Lo sappiamo già, è Liù. Ma prima del libro, «biografia morale» di un labrador, ci sono le notti di Eddy insonni per il cortisone e anche per i pensieri, il male che si è fatto strada all’improvviso, la diagnosi e il ricovero. È in mezzo a tutto questo – per questo, probabilmente – che arriva Liù. Edmondo è consapevole di tutto, con quella testa sempre in cerca di ordinare un pezzo di mondo in qualche alambiccata teoria, meglio se costruita confondendo la tattica del football con i riti della politica, l’onda del rock con la speculazione filosofica. Sa quel che accade, sospetta quel che accadrà. Ma questa volta la sua costruzione mentale è una forma di resistenza, pensare per non pensare, viaggiare anche senza muoversi, rielaborare la vita nella sua forma più primitiva ed elementare, perché è qui che si impara ad amarla per quel che è veramente, senza sovrastrutture. Così il 14 aprile 2009 alle 16.10 il computer lampeggia su Facebook, dove Eddy sta imparando a «pazzeggiare e volteggiare» di notte, per far passare le ore. Prima un profilo, per lo scambio con i suoi lettori e gli amici. Poi un Avatar con il cognome della madre, quindi un «gruppo» dedicato al cane. E adesso, tre giorni dopo il ricovero, ecco la prima puntata della biografia elettronica di Liù, cui seguiranno altri quattordici capitoli, finché la storia prende ormai una forma più complessa, e diventa un libro.
Siamo dunque di fronte a un avan-libro, un prologo digitale, una forma che cerca se stessa, blog, confessione, diario, autobiografia d’addio mascherata da racconto. Edmondo non vuole lasciarsi dominare da quel che sta accadendo nel suo corpo. Ascolta musica, guarda i film con Marzia, legge i giornali come al solito, scrive i suoi articoli ogni volta che può, incapace di dire no al giornale. Ma qualcosa di più autentico intanto si fa strada, qualcosa che è soltanto suo e che proverà a raccontare a tutti: una presenza animale come testimonianza della vita nel suo aspetto basico e totale, e il sistema di relazione e di affetti che questa presenza suscita intorno a sé, fino a mutare non solo le abitudini degli umani e i comportamenti, ma i sentimenti e i pensieri. Come nella realtà, Liù si impone pagina dopo pagina, fino a diventare dominante. Edmondo parte da una semplice idea, confessata con riluttanza agli amici («Adesso prendiamo un cane»), un’idea di obbligo e d’ingombro («Ma questo cane, al mattino, a che ora vorrà svegliarsi?» «E chi lo porta fuori?»), che poi diventa uno spettacolo quando si stacca dalla cucciolata per scegliersi i padroni, quindi una scoperta quotidiana, con Edmondo e Marzia che lo osservano in ogni posa e in ogni espressione, presto consapevoli che «la forma e l’occhio del cucciolo sono un ricatto incontrastabile».
Ma Liù in realtà parla anche di Berselli, in un sottotono continuo, dove da comprimario l’autore svela se stesso, pretese e abitudini, vizi e illusioni, che il cane mette a soqquadro con un balzo domestico. Quando il padrone è un intellettuale, per forza di cose vigila se stesso se scopre all’improvviso quanto gli piaccia l’odore del cane («Sto diventando bestia anch’io»), sorveglia il labrador per cercare «varchi cognitivi» tra i due software umano e animale che stanno in salotto immersi nella stessa musica dei Pink Floyd, così lontani come un Mac e un Pc, e tuttavia ecco che «si sollevano gli occhi, si volta una testa, sobbalza una coda»: sembra che il cane intercetti un lembo della cognizione umana, e scatta la sintonia. Sapere perché si sta al mondo, e insieme.
Berselli tra il guinzaglio per la pipì del mattino e i richiami a Weber e Pareto si interroga su quante parole possa imparare un cucciolo, consulta la classifica delle razze canine più intelligenti, divide gli alimenti in «pappa, biscotto, pollo, mela», comprendendo nel dizionario domestico a quattro voci tutto il commestibile animale. Cerca attraverso il cibo, e l’immediata, continua reattività animale, i sillogismi di Liù, finisce per ammettere che i cani non hanno senso morale ma fanno tutto ciò che ci sembra intelligente e accattivante per egocentrismo vitale, con una pervicace «volontà colonizzatrice e ricattatoria» delle debolezze altrui.
Qui i ruoli si sono già invertiti, attraverso quindici capitoli che passano da Nietzsche a Burgnich, da Schnellinger ad Heidegger, secondo la cifra berselliana più autentica e tuttavia ogni volta sorprendente, oggi malinconica perché quel modo di scrivere, pensare e raccontare non c’è più. Nelle ultime pagine vediamo il padrone che guarda il cane steso a dormire nella sua «beatitudine animale perfetta, infinita, assolutamente invidiabile» domandandosi intanto se non sia il caso di «amare tutti gli esseri viventi» attraverso la presenza di Liù.
Il racconto, prima di diventare libro, si ferma nel tardo pomeriggio di Folgaria, quando tutti sono riuniti per il compleanno di Marzia ma al cane viene in mente di ingoiare una calza di lana e bisogna correre dal veterinario. Infine il cane torna felice, liberato e festoso, correndo tra le sedie sdraio aperte al sole nel lungo dopopranzo degli umani. Finisce così. «In attesa della sera», si congeda Edmondo.
Roma, aprile 2012
Adesso prendiamo un cane, dico a Giulio Anselmi. «Un cane?» si sorprende, come se avessi formulato un’ipotesi che si ramifica addentrandosi nel regno dell’assurdità, e dimenticando di avere avuto in casa per anni un enorme gatto assassino, che gli faceva agguati saltandogli sulle spalle dagli armadi. Giovanni Evangelisti mi guarda di sbieco e con l’aria del bolognese caustico, pronuncia grassa e risata incombente, insinua: «E poi lo porti fuori tu a fare la pipì?». Io abbasso il capo.
Io non avevo mai avuto un cane, e non avevo nessuna intenzione di averne uno. Di solito guardavo i cani con apprensione e i loro padroni con commiserazione. La pipì, la cacca, le smancerie, l’adorazione. Le signore anziane che di notte telefonano alla cronaca per costringere qualcuno ad ascoltare il barboncino che parla. Gli faccia dire qualcosa, signora. Naturalmente, il barboncino, o il volpino, muto. «Perché è lei che lo intimidisce...» geme la vecchia. In ogni caso condividevo l’idea che Bologna fosse caduta politicamente nel 1999 a causa delle cacche sotto i portici, non rimosse né dai proprietari dei quadrupedi né dall’amministrazione progressista.
Anche i cani, peraltro, si mostravano poco entusiasti verso di me. D’altronde, io mi ero sempre considerato un membro della grande famiglia felina. Scontroso, notturno, poco amante delle moine, per niente socievole, diffidente, sornione, ironico, anarchico, un «maledetto di un gatto» (cfr. Mogol-Battisti).
Il forcing di Marzia è durato tre anni. Prima silenzioso, e insidioso. Poi un pressing assiduo e aperto. Da parte mia, ho continuato a ostentare un’esplicita ostilità alla sola idea di avere per casa un animale peloso e sbavante. E chi lo porta giù? E io ho da lavorare. E io sono sempre in viaggio. E se vogliamo andare un weekend a Parigi, il cane chi lo tiene? E se vogliamo fare una vacanza a New York? Ma non bisogna mai sottovalutare la capacità di persuasione delle donne. Guarda quel cucciolo, com’è carino, com’è dolce. Guarda com’è buffo quel cagnone. Sì, buona notte. Non sapevo ancora che stava per arrivare il colpo di grazia. Definitivo, irrevocabile, straziante. È accaduto quando Beppe Preti e sua moglie Rosita, modenesi emigrati a Milano, hanno fatto incontrare a mia moglie il loro labrador, Ombra. Nera, timida, piena di pudori, sempre affamata. Era arrivata da poco da un allevamento a nord di Milano, molto prestigioso, gran classe, pura aristocrazia lombarda. L’hanno portata da noi in montagna in Trentino, e in mezza giornata ha compiuto una strage affettiva.
Sarà stato per quegli occhi semplicioni, per la timidezza nel sollevare il labbro superiore, di sbieco, per prendere un bocconcino con delicatezza, senza mostrare gli spaventosi canini, sarà stato il pelo raso con un ciuffetto bianco sulla pancia. A me era sembrata enorme. Si sdraiava al centro della cucina mettendosi giù come uno straccio, e talvolta dagli occhi emanava una specie di beatitudine animale, perfetta, infinita, assolutamente invidiabile.
Ma evidentemente non bastava. Qualche settimana dopo eravamo a cena a Reggio Emilia da Alberto Melloni, storico insigne, per fare la conoscenza con la sua labrador bionda. Clicquot, detta Clic. Un botto di champagne, un fiotto ambrato di vitalità. Felicità presentata al mondo con un formidabile twist della coda. Un appetito insaziabile ma educato. E soprattutto uno sguardo di intelligenza penetrante, inquisitiva, interrogativa. Un’autonomia spiccata, una personalità forte, un carattere.
A un certo punto della serata, la chiamo, e lei si volta. La chiama mia moglie, risponde ancora. Mentre torno a casa in macchina, all’ingresso di Modena, mi coglie un pensiero: «Quel cane possiede un Io». Lo confesso a Marzia. Che cosa vuoi dire, chiede lei. Non si comporta come un animale. Sembra avere una individualità, fuori dai comportamenti meccanici della specie. Io, Clicquot, sembra affermare mentre volta la testa, un po’ perplessa, al richiamo. Io, io, io. E se qualcuno insiste nell’esperimento, sembra perfino manifestare una sovrana scocciatura. Però risponde sempre, si sa mai che arrivi una fettina di prosciutto.
Poco dopo, a letto, mentre sto per dormire, balzo a sedere, affibbio una gomitatina a mia moglie: «Ma questo cane, al mattino, a che ora vuole svegliarsi?». Nel silenzio della notte emiliana, mi sembra di vedere un brillio degli occhi e l’eco lontana di una risatina di trionfo.
Naturalmente dev’essere nera e femmina. Senza discussioni. Nera perché il labrador biondo, o champagne, come dicono i più «cool», si è già visto troppo, tutti citano quella schifezza della pubblicità della carta igienica, e tutti i luoghi comuni sul fatto che il labrador eccetera, è un compagnone, eccetera, ama l’acqua e nuota come un pesce, lo usano per il salvataggio, e adesso anche per i ciechi. Poi, il labrador biondo ce l’ha anche Massimo D’Alema, Lulù: e tutti sanno che Paolo Mieli, in uno dei suoi libri di storia e politica, ha detto che a D’Alema non perdoneranno mai «le scarpe, il labrador e il risotto». Senza parlare dei baffi, reliquia estetica delle antiche stagioni della Fgci, quando portavano la camicia a scacchi su jeans blu con cinturone texano, il pacchetto di Ms nel taschino e magari il tocco filologico e integralista dello Zippo, così si può fumare anche benzina super, non solo il tabacco e la cartina.
Invece il labrador nero è poco conosciuto. Può essere un’ottima arma di difesa, perché chi non lo conosce può scambiare il suo entusiasmo per le ossessioni omicide di un cane killer. Sul piano estetico, il nero oltretutto smagrisce, e visto che quel cane tende a metter su ...