Robert Crais
LA PRIMA REGOLA
Traduzione di Annamaria Raffo
Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.
Al mio amico, Harlan Ellison,
il cui lavoro, più di ogni altra cosa,
mi ha portato qui.
Pat Crais, Aaron Priest, Neil Nyren, Ivan Held e Tim Hely Hutchinson. Jon Wood, Susan Lamb e Malcolm Edwards. Eileen Hutton. Mark e Diane per avermi sopportato. Gregg e Delinah, Jeffrey Lane... perché è tosto. Frank e Toni. Bill Tanner, Brad Johnson, Lynne Limp. Damon e Kate, come sempre. I Plum Brothers: Alan “Night Train” Brennert, William F. “Slow Hand” Wu, Michael “Bardwulf” Toman e Michael “Fastball” Cassutt. Otto. Shelby Rotolo. Eileen Bickham... perché le voglio bene. Chip, Gene, Roger e Joe... adesso capisco. Stan Robinson. Gregory Frost. Tim Campbell, Lois, Vic, Coop, Biljon, Mike A e Mike B. Jerry. April. Don Westlake. Betsy Little e Steve Volpe.
A tutti voi, grazie per avermi aiutato.
Le organizzazioni criminali provenienti dalle quindici repubbliche dell’ex Unione Sovietica sono governate dal cosiddetto Vorovskoi Zakon – il codice dei ladri – composto da diciotto regole scritte. La prima dice:
Un ladro deve rinunciare a madre, padre, fratelli e sorelle.
Non può avere una famiglia... né moglie, né figli.
Siamo noi la sua famiglia.
Il mancato rispetto di una qualsiasi delle diciotto regole è punito con la morte.
Stava calando la sera quando Frank Meyer spense il computer nella sua casa di Westwood, poco lontano dal campus dell’UCLA, l’università della California. Westwood era una ricca zona del Westside di Los Angeles, situata fra Beverly Hills e Brentwood, un dedalo di strade eleganti e case lussuose. Frank Meyer abitava proprio in una di quelle case e, considerati i suoi trascorsi, era il primo a meravigliarsene.
Terminato il lavoro, Frank si rilassò nel suo studio, ascoltando in lontananza i suoi figli che correvano rumorosi come piccoli rinoceronti. Era felice, per la loro presenza e per il fragrante profumo di carne, promessa di uno stufato o di un bœuf bourguignon, piatto di cui non riusciva mai a pronunciare correttamente il nome ma che gli piaceva da pazzi. Dal televisore in soggiorno giungevano delle voci, troppo distanti per capire che programma fosse, ma doveva trattarsi di un quiz televisivo. Cindy odiava il notiziario della sera.
Frank sorrise. A lei non piacevano neppure i quiz televisivi, ma la tivù in sottofondo le teneva compagnia mentre cucinava. Cindy aveva le sue idee, su questo non c’era dubbio, ed erano state proprio quelle idee a cambiargli la vita. Frank aveva una bella casa, una fiorente attività e una splendida famiglia... e tutto grazie a sua moglie.
Gli si inumidirono gli occhi al pensiero di quanto era in debito con lei. Era fatto così. Sentimentale ed emotivo. Lo era sempre stato. Come amava ripetere Cindy, Frank Meyer aveva il cuore tenero, per questo si era innamorata di lui.
Frank ce la metteva tutta per non deluderla, e per lui era un privilegio, fin da quel giorno di undici anni prima in cui si era reso conto di amarla e aveva promesso di cambiare vita. Adesso aveva un’attività redditizia: importava articoli di abbigliamento dall’Asia e dall’Africa, che rivendeva a catene di grossisti in tutti gli Stati Uniti. A quarantatré anni era ancora in forma, anche se non come ai vecchi tempi. D’accordo, era un po’ ingrassato ma, tra il lavoro e i ragazzi, erano anni che non toccava un bilanciere, e raramente saliva sul tapis roulant. Quando gli capitava di farlo, si accorgeva di aver perso l’entusiasmo di una volta.
Frank non rimpiangeva la vita di un tempo, e se qualche volta provava nostalgia per gli uomini con cui l’aveva vissuta, lo teneva per sé, senza alcun risentimento verso la moglie. Si era reinventato e, miracolosamente, i suoi sforzi erano stati premiati. Cindy. I bambini. La casa. Frank stava ancora pensando a tutti questi cambiamenti quando Cindy comparve sulla soglia, con quel suo sorriso un po’ obliquo e terribilmente sexy.
«Ehi, non hai fame?»
«Ho finito in questo momento. Cos’è questo profumino? È fantastico.»
Si udì un rumore di passi frenetici, e Little Frank, dieci anni e la stessa corporatura massiccia del padre, arrivò sparato accanto alla madre, aggrappandosi allo stipite della porta per fermarsi. Il fratello minore, Joey, sei anni e tracagnotto quanto lui, gli finì addosso.
«Carne!» urlò Little Frank.
«Ketchup!» gridò Joey.
«Carne e ketchup» disse Cindy. «Cosa c’è di meglio?»
Frank spinse indietro la sedia e si alzò.
«Niente. Muoio dalla voglia di mangiare carne e ketchup.»
Cindy alzò gli occhi al cielo e si voltò per tornare in cucina.
«Hai cinque minuti, bell’uomo. Io vado a ripulire i mostri. Lavati le mani e raggiungici.»
I ragazzi corsero via, urlando come matti e passando davanti ad Ana, che era comparsa alle spalle di Cindy. Ana era la loro tata, una dolce ragazza che stava a casa Meyer da quasi sei mesi. Aveva occhi azzurri e zigomi alti ed era di grande aiuto con i ragazzi. Un altro risultato del crescente benessere di Frank.
«Cindy, io vado a dare da mangiare al bambino» disse. «Hai bisogno di qualcosa?»
«È tutto sotto controllo. Vai pure.»
Ana mise dentro la testa.
«Frank, posso fare qualcosa?»
«Sono a posto, cara. Grazie. Arrivo tra un minuto.»
Frank finì di sistemare le sue carte e chiuse le tende prima di raggiungere la famiglia per la cena. Lo studio, che dava sulla strada, adesso era protetto dall’oscurità della notte. Frank Meyer non aveva motivo di sospettare che stesse per accadere qualcosa di terribile.
Mentre Frank si godeva la cena in compagnia della sua famiglia, una Cadillac Escalade nera imboccò lentamente la strada, proveniente dal Wilshire Boulevard. Era stata rubata poche ore prima in un centro commerciale di Long Beach, e Moon Williams aveva scambiato la targa con quella di un’auto identica scovata davanti a un club di Torrance. Era la terza volta che facevano il giro dell’isolato per controllare che non ci fossero passanti o persone a bordo delle auto parcheggiate.
Questa volta i finestrini posteriori si abbassarono come palpebre assonnate e i lampioni si spensero uno dopo l’altro sotto i colpi della pistola ad aria compressa di Jamal.
L’oscurità avanzava insieme all’Escalade, inesorabile come un flusso di marea.
A bordo del veicolo quattro uomini – sagome nere nell’abitacolo buio – Moon al volante, Lil Tai, il suo uomo di fiducia, accanto, Jamal seduto dietro con il russo. Moon guardava ora le case ora il forestiero. Non era certo che fosse russo. Con tutti quegli stronzi dell’Est in circolazione avrebbe potuto anche essere armeno o lituano, o anche un fottuto vampiro della Transilvania. Moon non li distingueva. Lui sapeva solo che da quando si era messo in affari con quel figlio di puttana guadagnava più soldi di quanti ne avesse mai visti in vita sua.
Soldi o non soldi, non gli piaceva avercelo seduto dietro. Non ce lo voleva sul sedile posteriore, quel figlio di puttana dallo sguardo di ghiaccio che ti gelava il sangue. In tutti quei mesi era la prima volta che andava con loro. E neanche questo gli piaceva.
«Sei sicuro, amico? È quella casa là?»
«La stessa di prima, quella che sembra una chiesa.»
Moon la osservò. Era una bella casa, con il tetto spiovente e quelle figure simili a doccioni in alto sul cornicione. La strada era larga e correva parallela alle case, che si trovavano tutte arretrate su grandi prati leggermente in salita. In residenze come quelle ci abitavano avvocati, uomini d’affari, e magari qualche insospettabile e occasionale spacciatore di droga.
Lil Tai si girò verso il bianco e gli sorrise.
«Quanto ci facciamo, questa volta?»
«Parecchio. Un mucchio di soldi.»
Jamal si leccò le labbra facendo un sorriso a trentadue denti.
«Sento già il gusto. Me lo sento sulla pelle, mi arrapa come una puttana.»
«L’hai detto, fratello» concordò Moon.
A fari spenti l’auto s’infilò nel vialetto. Appena Moon spense il motore, le portiere si spalancarono e scesero tutti e quattro. Le luci interne dell’Escalade erano state messe fuori uso. L’unico rumore che si sentì fu la mazza da otto chili di Lil Tai che urtò la carrozzeria mentre scendeva.
Si diressero verso la porta d’ingresso, Jamal in testa, Moon per ultimo, camminando all’indietro per essere certo che nessuno li stesse osservando. Jamal allungò un braccio e ruppe le luci sopra la porta, facendo scoppiare una lampadina dopo l’altra con le dita. Pop, pop, pop. Moon mise un asciugamano piegato sulla maniglia per attutire il rumore e Lil Tai la colpì più forte che poté con la mazza.
Frank e Cindy stavano sparecchiando quando la casa fu scossa da uno schianto fortissimo, come se un’auto fosse andata a sbattere contro la porta. Joey stava guardando la partita dei Lakers in soggiorno e Little Frank era appena salito in camera sua. Quando Frank sentì il rumore, il suo primo pensiero fu che il figlio maggiore avesse fatto cadere la pendola a colonna nell’ingresso. Little Frank ci si arrampicava spesso per raggiungere il pianerottolo del primo piano e, nonostante fosse fissata al pavimento per sicurezza in caso di terremoto, Frank aveva avvertito i ragazzi che poteva cadere.
Sentendo quel fracasso, Cindy sobbalzò e Joey corse da lei. Frank posò i piatti e si precipitò verso l’origine del rumore.
«Frankie! Ragazzo, ti sei fatto male...?»
Ebbero appena il tempo di muoversi che alcuni uomini armati irruppero in casa con la sincronia di chi non è nuovo a quel tipo di azioni.
Frank Meyer aveva già affrontato irruzioni rapide e violente prima di allora, e con successo, ma era accaduto nella sua vita precedente. Adesso, dopo undici anni passati dietro una scrivania, i suoi riflessi erano più lenti.
Quattro uomini. Guanti. Pistole nove millimetri.
Il primo era di statura media, pelle scura, acconciatura rasta lunga fino alle spalle. Frank capì che era il capo dal modo in cui si comportava, conducendo l’az...