169 222 [1929?]
Invidio – ma non so se invidio – coloro dei quali si può scrivere una biografia o che possono scrivere un’autobiografia. In queste mie impressioni sconnesse e che non ambiscono neppure ad avere un nesso, racconto, con indifferenza, la mia autobiografia senza avvenimenti, la mia storia senza vita. Sono le mie Confessioni e se in esse non dico nulla è perché non c’è nulla da dire.
Cosa si dovrebbe confessare che valga la pena o che serva? Quello che ci succede o è successo a tutti o a noi soltanto; nel primo caso, non rappresenta una novità, nell’altro, non si può capire. Se scrivo quello che sento è perché in questo modo abbasso la febbre del mio sentire. Quello che confesso non ha importanza, poiché niente ha importanza. Costruisco paesaggi con quello che sento. Prendo vacanza dalle sensazioni. Comprendo bene le donne che ricamano per malessere e quelle che fanno la calza perché esiste la vita. La mia vecchia zia faceva solitari per tutta l’infinita serata. Confessare le mie sensazioni è il mio solitario. Non lo interpreto, come chi usa le carte per indagare il destino. Non lo interrogo, perché nei solitari le carte non hanno un valore preciso. Mi srotolo come un gomitolo multicolore o invento con me stesso figure di spago, come quelle che si tessono tra le dita stese e si passano da un bambino all’altro. Mi curo solo che il pollice non manchi il filo che gli è destinato. Poi, giro la mano e l’immagine è diversa. E ricomincio.
Vivere è fare la calza con una intenzione altrui. Ma, mentre la si fa, il pensiero è libero e tutti i principi incantati possono passeggiare nei loro parchi tra un tuffo e l’altro dell’ago di avorio con la punta ritorta. Uncinetto delle cose... Intervallo... Nulla...
Del resto, su cosa di me stesso posso contare? Un terribile acume delle sensazioni e la profonda consapevolezza di stare provando sensazioni... Un’intelligenza acuta per distruggermi e un potere onirico desideroso di intrattenermi... Una volontà morta e una riflessione che la culla, credendola un figlio vivo... Sì, uncinetto...
170 169 in «A Revista», n. 2 [post 15.1] 1929 + brano autografo
Brano
Dal “Libro dell’inquietudine”,
composto da Bernardo Soares,
aiuto contabile nella città di Lisbona
Amo, nelle lunghe sere d’estate, la quiete del centro città e soprattutto la quiete che per contrasto si accentua in quella zona immersa durante il giorno nella più totale confusione. La Rua do Arsenal, la Rua da Alfândega, il prolungamento delle vie malinconiche che si disperdono verso est alla fine della Rua da Alfândega, la linea tratteggiata dei moli immobili: tutto ciò mi dà il conforto della tristezza se mi addentro, nelle notti d’estate, nella solitudine del loro insieme. Vivo in un’era precedente a quella in cui vivo; godo nel sentirmi contemporaneo di Cesário Verde1 e ho dentro di me non versi simili ai suoi, ma di uguale sostanza. In quelle zone, trascino per tutta la notte una sensazione di vita simile a quella di queste strade. Di giorno sono piene di una confusione priva di senso; di notte, sono piene dell’assenza di quella confusione priva di senso. Di giorno, io sono nulla, e di notte, io sono io. Non c’è differenza tra me e le vie dalle parti di Alfândega, salvo che esse sono vie e io sono anima, il che può essere insignificante di fronte all’essenza delle cose. Esiste un uguale destino, perché astratto, per gli uomini e le cose: una designazione ugualmente indifferente nell’algebra del mistero.
E c’è anche qualcos’altro... In queste ore lente e vuote, mi sale dall’anima alla mente la tristezza di tutto il mio essere, l’amarezza per il fatto che tutto sia al contempo una mia sensazione e una cosa esterna, che non mi è concesso alterare. Ah, quante volte i miei stessi sogni mi si presentano come cose, non per sostituirsi alla realtà, ma per dichiararsi pari a essa nel fatto che io non li voglio, nel fatto di provenire da fuori, come il tram che svolta la curva della strada o la voce del venditore notturno di non so cosa, che sgorga, con tonalità arabeggiante, come uno zampillo improvviso, dalla monotonia dell’imbrunire.
Fernando Pessoa
Passano futuri sposi, passano a coppie le sartine, passano ragazzi ansiosi di conquiste, fumano durante la loro solita passeggiata i pensionati di tutto, all’una o all’altra porta si guardano intorno i vagabondi immobili che sono i padroni dei negozi. Lente, forti e deboli, le reclute passano come sonnambuli a frotte, ora molto rumorose, ora più che rumorose. Persone normali appaiono di quando in quando. Le automobili a quell’ora non sono molto frequenti; sono musicali. Nel mio cuore alberga un pace d’angoscia e la mia quiete è composta di rassegnazione.
Passa tutto questo e niente di tutto ciò mi dice qualcosa, tutto è estraneo al mio destino, estraneo perfino al suo stesso destino – incoscienza, imprecazioni a sproposito quando il caso lancia i dadi, echi di voci sconosciute – insalata collettiva della vita.
171 170 [1929?]
La stanchezza di tutte le illusioni e di tutto quello in cui le illusioni consistono – il perderle, l’inutilità di nutrirle, la stanchezza preventiva di averle per poi perderle, il dolore di averle avute, la vergogna intellettuale di averle avute sapendo che avrebbero fatto tale fine.
La coscienza dell’incoscienza della vita è il martirio più grande imposto all’intelligenza. Esistono intelligenze incoscienti (bagliori dello spirito, correnti di intelletto, misteri e filosofie) che possiedono lo stesso automatismo dei riflessi del corpo, della gestione che fegato e reni fanno delle loro secrezioni.
172 171 22.3.1929
In una rientranza dell’arenile, tra i boschi e i campi lungo la costa, sorgeva dall’incertezza dell’abisso nullo l’incostanza del desiderio acceso. Non si sarebbe dovuto scegliere tra il grano e il mirto e la distanza continuava tra i cipressi.
Il prestigio delle parole isolate o riunite secondo un accordo sonoro, con intime risonanze e significati divergenti nel momento in cui convergono, il fasto delle frasi frapposte tra i sensi delle altre, malvagità delle vestigia, speranza dei boschi e nient’altro che la tranquillità delle cisterne nelle tenute di campagna dell’infanzia dei miei sotterfugi... Così, tra le alte mura della mia audacia assurda, nei filari degli alberi e nei sussulti di ciò che lentamente muore, un altro che non sono io udirebbe dalle labbra tristi la confessione negata a insistenze più forti. Mai, tra il titillare delle lance nel cortile nascosto alla vista, neppure se cavalieri facessero ritorno dalla strada visibile dalla cima del muro, ci sarebbe più quiete nella Villa degli Ultimi, né si ricorderebbe un altro nome al di qua della strada se non il nome che di notte incantava, come quello delle principesse more, il bambino che poi morì di vita e di meraviglia.
Lieve tra i solchi nell’erba, perché i passi aprivano il nulla tra la verzura agitata, il passaggio degli ultimi perduti risuonava con indugio, come reminiscenza dell’avvenire. Erano vecchi coloro che sarebbero dovuti venire, e solo giovani coloro che non sarebbero mai venuti. I tamburi rullavano lungo la strada e le cornette penzolavano inerti tra le mani fiacche, che le avrebbero lasciate cadere se avessero avuto ancora la forza di lasciare qualcosa.
Ma di nuovo, come conseguenza del prestigio, suonavano alti i clamori finiti e i cani tergiversavano tra i filari visti. Tutto era assurdo come un lutto e le principesse dei sogni degli altri passeggiavano senza chiostri indefinitamente.
173 172 [1929?]
Ho più pena di coloro che sognano il probabile, il legittimo, il prossimo di quanta non ne abbia di coloro che invece vaneggiano sul distante e sulle cose estranee. Chi sogna in grande o è un folle e crede a ciò che sogna ed è felice, o è un semplice vaneggiatore, per il quale il vaneggiamento è una musica per l’anima che lo culla senza dirgli niente. Ma chi sogna il possibile corre il rischio di incappare nella vera delusione. Può non pesarmi più di tanto non essere riuscito a essere un imperatore romano, ma mi può addolorare non aver mai scambiato parola con la sarta che verso le nove svolta sempre l’angolo di destra. Il sogno che ci promette l’impossibile in ciò stesso ce ne priva, ma il sogno che ci promette il possibile interferisce con la nostra vita e gliene delega la soluzione. Il primo vive esclusivo e indipendente; il secondo, sottomesso alla contingenza di ciò che accade.
Per questo motivo amo i paesaggi impossibili e le vaste zone deserte delle pianure ove non andrò mai. Le epoche storiche del passato sono semplicemente meravigliose, poiché fin da subito non posso immaginare di raggiungerle. Dormo quando sogno ciò che non esiste; mi sveglio, invece, quando sogno ciò che potrebbe esistere.
A mezzogiorno, da un balcone dell’ufficio deserto mi sporgo sulla strada dove la mia distrazione percepisce negli occhi il movimento della folla, ma dalla distanza della meditazione non lo vede. Dormo appoggiato sui gomiti a cui duole il corrimano e non so nulla ma con grande aspettativa. I dettagli della strada immobile gremita di gente spiccano con distacco mentale: le casse accatastate sul carro, i sacchi sulla porta dell’altro magazzino e, sulla vetrina più distante della drogheria all’angolo, il riflesso delle bottiglie di quel vino di Porto che sogno che nessuno possa comprare. Lo spirito mi si isola da metà della materia. Indago con l’immaginazione. La gente che passa per strada è sempre la stessa di poco prima, sempre l’aspetto fluttuante di qualcuno, macchie di movimento, voci di incertezza, cose che passano ma non accadono.
Notare con la coscienza dei sensi, piuttosto che con i sensi stessi... La possibilità di altro... E d’improvviso, dietro di me in ufficio, risuona la vita metafisicamente repentina del fattorino. Sento che lo potrei uccidere per avere interrotto quello che non stavo pensando. Lo guardo, girandomi, con un silenzio pieno d’odio, do ascolto in anticipo, in una latente tensione omicida, alla voce che userà per dirmi qualcosa. Lui sorride dal fondo dell’ufficio e saluta a voce alta. Lo odio come l’universo. Ho gli occhi pesanti a forza di immaginare.
174 173 [1929?]
La storia nega le cose giuste. Vi sono periodi di ordine in cui tutto è vile e periodi di disordine in cui tutto è nobile. I momenti di decadenza sono fertili di virilità mentale; le epoche di forza, di debolezza di spirito. Tutto si mescola e si interseca, e non esiste verità che non sia solo presunta.
Quanti nobili ideali gettati nel letame, quante aspirazioni autentiche perdute tra i rifiuti!
Per me sono uguali, dèi e uomini, nella confusione prolissa del destino incerto. Mi sfilano davanti, in questo quarto piano sconosciuto, nella successione dei sogni, e non sono per me più di quanto non siano stati per coloro che vi hanno creduto. Feticci africani dagli occhi enigmatici e sgranati, dèi-animali dei selvaggi di intricate foreste, simboli figurati di egizi, armoniose divinità greche, irsuti dèi romani, Mitra signore del sole e dell’emozione, Gesù Messia della conseguenza e della carità, interpretazioni diverse dello stesso Cristo, nuovi santi, dèi di nuove città, tutti sfilano, tutti quanti, nella marcia funebre (pellegrinaggio o funerale) dell’errore e dell’illusione. Marciano tutti, e dietro di loro marciano, come ombre vuote, i sogni che, per il fatto che sono ombre sul terreno, i peggiori sognatori credono che siano poggiati fermamente a terra: poveri concetti senz’anima né figura, Libertà, Umanità, Felicità, Futuro Migliore, Scienza Sociale; e si trascinano nella solitudine della tenebra come foglie mosse dallo strascico del mantello regio indossato, nell’eterno esilio dei re, da mendicanti che hanno invaso i giardini della casa della sconfitta.
175 174 [1929?]
...
Il pensiero può essere alto senza essere elegante e nella misura in cui è privo di eleganza perde l’impatto sugli altri. La forza senza l’abilità è una semplice massa.
176 175 [1929?]
La lettura dei giornali, sempre penosa dal punto di vista estetico, spesso lo è pure dal punto di vista morale, perfino per chi abbia pochi scrupoli morali.
Le guerre e le rivoluzioni – ce n’è sempre qualcuna da raccontare – arrivano a causare, a forza di leggerne gli effetti, non orrore ma tedio. Non è la crudeltà di tutti quei morti o feriti, il sacrificio di tutti coloro che sono deceduti combattendo o sono stati uccisi senza combattere, che pesa duramente sull’anima: è la stupidità che sacrifica vite e beni a un fine assolutamente inutile. Ogni ideale e ogni ambizione è un’allucinazione di comari uomini. Non esiste impero per cui valga la pena rompere perfino un bambolotto. Non esiste ideale che meriti il sacrificio di un trenino di latta. Quale impero è utile, quale ideale proficuo? Tutto è umanità e l’umanità è sempre la stessa – mutevole ma non perfezionabile, ondeggiante ma non progressiva. Di fronte al corso inesorabile delle cose, alla vita che abbiamo ricevuto senza sapere come e che perderemo senza sapere quando, al gioco di diecimila scacchi che è la vita in comune e in lotta, al tedio di contemplare inutilmente ciò che non si realizzerà mai < > , cosa può fare il saggio se non chiedere riposo e di non dover pensare alla vita, poiché basta dover vivere, basta un posticino al sole e in campagna, e almeno il sogno che vi sia pace di là dai monti.
177 176 [1929?]
Ah, che errore doloroso e crasso quel distinguo che i rivoluzionari stabiliscono tra borghesia e popolo, tra aristocrazia e popolo, o tra governanti e governati. La vera distinzione risiede tra adattati e disadattati: il resto è letteratura, e per di più cattiva letteratura. Il mendicante, se è un adattato, domani potrebbe essere re, avendo perso però la virtù d’essere mendicante. Ha oltrepassato la frontiera e ha perduto la nazionalità.
È questo che mi consola in questo ufficio angusto, le cui finestre mal lavate danno su una strada senza allegria. È questo che mi consola, e in ciò mi sento fratello dei creatori della coscienza del mondo – il drammaturgo raffazzonato William Shakespeare, il maestrino John Milton, il vagabondo Dante Alighieri, < > e perfino, se mi è consentita la citazione, quel Gesù Cristo che non fu nulla nel mondo, tanto che lo si mette in dubbio storicamente. Gli altri sono di un’altra specie – il consigliere di stato Johann Wolfgang von Goethe, il senatore Victor Hugo, il capo Lenin, il capo Mussolini < >
Noi nell’ombra, tra i fattorini e i barbieri, costituiamo l’umanità < >
Da una parte ci sono i re col loro prestigio, gli imperatori con la loro gloria, i geni con la loro aura, i santi con la loro aureola, i capipopolo con la loro autorità, le prostitute, i profeti e i ricchi... Dall’altra parte ci siamo noi – il fattorino del negozio all’angolo, il drammaturgo raffazzonato William Shakespeare, il barbiere delle barzellette, il maestrino John Milton, il garzone della bottega, il vagabondo Dante Alighieri, coloro che ...