La nuotatrice
eBook - ePub

La nuotatrice

  1. 406 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La nuotatrice

Informazioni su questo libro

Per Philomena, adolescente cresciuta nella provincia americana, il nuoto è tenacia, disciplina, sacrificio, e soprattutto il modo più naturale per combattere la solitudine e dimenticare una situazione familiare difficile. Sulla terraferma Philomena deve fare i conti con un corpo ingombrante, con le emozioni di una giovinezza mai vissuta e con una serie di tragedie familiari. Nell'acqua, però, il dolore e la rabbia si trasformano in grazia, velocità, bellezza. E nell'acqua matura la coscienza. Quando un banale incidente metterà fine alla sua carriera agonistica, Philomena avrà dolorosamente capito cosa vuol dire per una ragazza di oggi essere un prodigio, un oggetto di cure, invidie, aspettative. E avrà compreso quanta fatica costi raggiungere il traguardo nelle più dure competizioni della vita.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804621621
eBook ISBN
9788852026812

La nuotatrice

Nell’acqua galleggio

Sono una bambina problematica, ma secondo me va tutto a meraviglia. Leonard mi tiene in braccio e io gli sto aggrappata al naso. Ignoro quanto la mia faccia sia preistorica, spalanco la bocca in un gigantesco sorriso che spinge il grasso verso gli occhi, provocando un momentaneo blackout. Quando il mondo diventa nero, urlo. Le mie sopracciglia sono dotate di una mobilità fuori del comune; quando urlo, urlano con me. Leonard mi batte sulla schiena, facendomi rimbalzare dolcemente; ha la faccia stanca, tirata e verde come la vernice verde limone che le suore usano per i davanzali. Mi riprendo subito, gli spingo in dentro il nasone con tutta la forza che ho, ignara di averne una copia esatta che campeggia al centro della faccia aspettando solo di crescere.
Ho sette menti che variano per volume e dimensioni; crepacci dove si incastrano cose che mia madre deve estirpare con cura dopo ogni bagno. Osserviamo dei riti: ogni mattina lei si china su di me con un batuffolo di cotone imbevuto di olio per bambini, due borse viola di stanchezza a tirarle giù gli occhi con cura, e ogni mattina io sferro un calcio da karateka alla bottiglia aperta di olio facendogliela volare dalle mani. Oggi è scoppiata a piangere quando la bottiglia le è sfrecciata accanto all’orecchio sparando una scia lucida da un capo all’altro della stanza. Ho frignato insieme a lei per amorevole solidarietà, mentre il grasso delle caviglie mi sciaguattava sopra i piedi mostruosi come una calzamaglia allentata.
Vivo in modo semplice; quando qualcosa secondo me non va a meraviglia, urlo finché non torna a posto. Non mi piace chiudere gli occhi e scoprire che dentro non ci sono la musica, le luci o le persone che conosco. Non mi piace stare da sola, stare da sola con Bron, ritrovarmi nel letto da sola, svegliarmi sul seggiolino dell’auto senza nessuno in vista, al suono del silenzio. Se mi addormento ascoltando il battito del cuore di mia madre, modulando il respiro sul suo, e al risveglio mi ritrovo supina in una prigione dalle sbarre pastello, mi sento raggirata e tradita. Levo strilli viscerali con una rabbia che mi scuote la pancia finché non viene a prendermi qualcuno, di solito mia madre, sconvolta e preoccupata per come la seconda figlia possa essere tanto diversa dalla prima, che dorme sempre e ha il nasino come un bottone. Giorno e notte non significano niente per me. Leonard sta cercando di pensare; non ci riesce.
Siamo al Quaker Aquatic Center in attesa che cominci la mia prima lezione di nuoto per neonati. Mia madre, seduta sul bordo della piscina, tiene in braccio Bron che intanto trema e mi osserva in silenzio, un’espressione intensa sul viso ovale. Non entrerà in acqua e non ci sarà verso di convincerla. Mi aggrappo alle labbra di Leonard e tiro; lui mi dà una botta sulla mano col dito, dice sottovoce: Smettila. Non so ancora camminare; è lui che deve portarmi dappertutto e i suoi reni cominciano a risentirne. Ieri ha alzato la voce con mia madre. Che cavolo le dai da mangiare? Ha alzato la voce anche lei, molto. La stessa stramaledettissima roba che davamo a Bron. Guardo mia madre; Bron si è portata dietro di lei e le stringe il collo con una mano che indica possesso. Ha il pollice in bocca, lo sguardo di brace che mi perfora la faccia molliccia. Assesto un calcio alle viscere di Leonard; a lui sfugge un gemito. Saltello un po’, indicando Bron, gorgoglio, poi parlo. Sto cercando di dire: Ce l’ha con me.
Leonard dice: Ora sta’ buona; sentiamo cosa dice la bella signora.
Non capendo a cosa si riferisca gli assesto un altro calcio alle viscere, mi aggrappo a uno dei lunghi peli che gli spuntano dalle sopracciglia, tiro.
Una signora sta venendo verso di me con il pupazzetto di una sirena in mano. La sirena fa i versi di un neonato, ma Bron ha distrutto per sempre la gioia che mi davano i pupazzetti. Cerco di cavarmi d’impaccio frignando a tutto spiano e intanto m’inerpico lungo la spalla di Leonard, che fa il possibile per non cadere. La signora mi sta salutando, ma io non conosco la sua faccia, perciò non la guardo. Ha un costume da bagno con il gonnellino e una sorridente faccia di plastica giallo sgargiante al centro di una collana. Leonard mi fa rimbalzare su e giù. Cancello il pupazzetto dai miei pensieri, ricaccio i singhiozzi in gola, mi fiondo verso la faccia sorridente. Sfuggo quasi dalle mani di Leonard, che dice: Eeeehiiii che fai?, un acuminato satellite di dolore a pulsargli nei reni.
La signora dice: È pronta, non ci sono dubbi.
Leonard dice: Ne è sicura?
Lei dice: Altroché.
Lui dice: Io che dovrei fare?
Lei si stringe le mani: Mettiamola dentro.
Lui dice: Mi auguro che funzioni.
Lei dice: Funzionerà eccome. Vedrà. Vi cambierà la vita.
Lui immerge i miei piedi nell’acqua tiepida. Io saltello, levando un acuto squittio che fa sobbalzare la signora. Oddio, come vi capisco.
Ho nove mesi e finora ho dormito al massimo un’ora e quarantatré minuti di seguito. Sono convinta di chiamarmi Boo, ma non è vero. È solo uno dei tanti nomignoli che mi danno: Boo, Mena, Phil, Pippa, ma il nome sul mio certificato di nascita, Philomena, ha quattro sillabe e sarà il primo grande dispiacere della mia vita. Nessuno lo userà se non a scuola, su insistenza delle suore. Ho diversi hobby che mi consumano: scalciare, urlare, buttare in terra le cose, scalciare di nuovo, piangere. Ultimamente mi sono cimentata negli ululati da lupo. Scatto a sedere nel lettino tre ore prima dell’alba, mi aggrappo alle sbarre con tutt’e due i pugni e intono un lamento funebre alla luna. Ho cominciato a trascinarmi sul pavimento e, quando nessuno mi vede, mi avvolgo nei fili elettrici, ficco le dita nella ventola del condizionatore dell’aria e urlo finché qualcuno non mi tira fuori. Ieri ho trangugiato mezza candela, evacuandola stamattina tra osceni grugniti mentre mia madre diceva piangendo: Ho girato la testa soltanto un attimo.
Leonard sta cercando di scrivere I mammiferi più fraintesi, che vedrà le stampe alla nascita di Roxanne e gli varrà la più grande sovvenzione per studiare i pipistrelli mai elargita nella storia dell’accademia americana. Il “Glenwood Morning Star” lo metterà in copertina insieme a Rosy, una dolcissima pipistrella africana con la faccia da megachirottero e gli occhioni sognanti. Leonard conosce il valore del suo lavoro, ma al momento è semplicemente stanco e squattrinato, e quando non sopporta più le urla dorme nella sua auto vecchia e scassata con un cuscino sopra la testa. Ottenuta la sovvenzione festeggerà con il suo team dei pipistrelli: l’astronomo Gerald, Ahmet Noorani e il dottor Bob; dopo di che girerà il mondo per studiare il comportamento dei pipistrelli, tornando a casa con il naso ustionato e una raccolta di ciotole esotiche dove mettere le cose che poi non trovi più. Qualcosa la farò anch’io. Mi vergognerò del suo lavoro, fingendo che sia un dottore normale finché i cattolici dell’asilo non diventeranno i cattolici delle elementari e scopriranno che lui è quello col vestito da deficiente intervistato a ogni festa di Halloween da Channel 9. Mi chiameranno Batgirl, disegneranno le orecchie sul mio armadietto e su tutte le foto scolastiche fino al giorno in cui vincerò la prima medaglia olimpica facendoli pentire amaramente.
Leonard mi immerge fino alla pancia; il pannolino ha delle aperture che lasciano filtrare l’acqua tiepida. La gioia è tale che squittisco. Guardo mia madre; batte le mani facendo i versi di un neonato. È di nuovo incinta perché io ci ho messo così tanto ad arrivare che lei e Leonard hanno deciso che era meglio sbrigarsi a fare il resto dei figli: bam, bam, bam. Quando Leonard dice bam, bam, bam, batte una mano di taglio sul palmo dell’altra, un gesto che imparerò presto a temere. Lei all’epoca era d’accordo, poi ha cambiato idea, ma non lo sa perché è troppo stanca per esprimere i pensieri. Guardo Bron e le due sopracciglia mi diventano una sola. Mi pugnala con la Barbie ficcandola tra le sbarre del lettino. Mi dà pizzicotti fortissimi con quegli artigli malefici. Quando ci sono loro fa tanto la carina, ma appena si girano rivela il suo vero volto. Lo usa per cercare di spaventarmi, e ci riesce; io ululo. Sentendo gli ululati, mamma e Leonard si guardano imbronciati mentre Bron sorride. Sono una di quelle persone che non capiranno mai per davvero il rapporto tra tempo e spazio. Stamattina ho cercato di picchiarla dal seggiolone mentre lei giocava con le Barbie all’altro capo della stanza, l’angusta luce invernale ad accenderle lunghi strali dorati tra i capelli. Quando il pugno ha colpito l’aria anziché la sua testa, la frustrazione è stata tale che mi sono messa a urlare, mentre mamma e Leonard si scambiavano delle occhiate, un’ombra di tacita preoccupazione negli occhi.
La signora con la faccia che ancora non conosco dice sottovoce: La lasci.
Leonard diventa nervoso. Non credo di riuscirci.
La signora dice: Si fidi di me. È pronta, e lui mi lascia.
Affondo un istante nel tepore, vado in apnea naturale. Lo choc mi fa spalancare gli occhi; è una novità, ma la tollero perché è blu anziché nera. Scalcio un pochino; serve a muovermi. Il pannolino assorbe l’acqua, gonfiandosi come una specie di pesce. Mi scivola lentamente giù per le cosce, restando impigliato tra le ginocchia. Scalcio di nuovo; il pannolino cade e io balzo in superficie come un tappo di sughero. Leonard dice: Però! Quello era… dovrei metterle il pannolino?
La signora ci pensa un attimo, rigirandosi il pupazzetto fra le dita. No, vediamo un attimo che cosa fa. Sembra…
Guardo Leonard, e i suoni che mi escono dalla bocca significano: Ehi! Dove siamo? Che succede? Lui non risponde, allora insisto: Pa’? Pa’? e vado sott’acqua. Lui dice: Mi ha appena chiamato papà. Avete sentito? Ha appena detto papà. Mia madre batte le mani; Bron guarda di traverso. La felicità di Leonard vibra attraverso l’acqua; contribuisce a darmi velocità.
Per tutta la vita scalcerò le cose che capitano sul mio cammino: scarpe, cestini, rotoli di carta igienica, soldi, pietre, palline da tennis, calzini arrotolati, borse da ginnastica, Roxanne un paio di volte, qualunque frutto rotondo. Diventerà un impulso irrefrenabile che mi torna utile. Scalcio; serve a muovermi, e ne gioisco. Non immagino che sto galleggiando al centro di Glenwood, che Glenwood galleggia in mezzo al Kansas, che il Kansas è uno Stato semplice, a distanza di sicurezza da quelli più complicati. Non so che la mia mente è un oceano e raccoglie le cose setacciate dal sole, dal crepuscolo, dalla mezzanotte e dagli abissi finendo sul fondo nero come la pece, depositandosi nelle profonde trincee che la natura scava al di sotto. Non so che un giorno si scateneranno i venti, e quando i venti si scatenano si alza la polvere, portando con sé ogni cosa. So solo che scalciare serve a muovermi, perciò scalcio di nuovo, liberata dalla prigione carnale della gravità. Sono com’ero, mi scateno nella profonda memoria arcaica, nuda, ricolma di smodata pinguedine, mentre il mondo mormora all’esterno dolci suoni assordanti capaci di cullare. Balzo in superficie, apro gli occhi; imparo a scivolare sull’acqua.
Non so che mamma è incinta, penso solo che sia cicciona come me. Ingrasseremo sempre più insieme finché una bella mattina svegliandomi scoprirò che lei è sparita. Cercherò per tutta la casa, mi aggirerò piagnucolando, mentre Bron dipingerà con le dita senza dire una parola. La baby-sitter dalla faccia bitorzoluta, quella che mi pizzica i tanti menti facendo i versi di un neonato, mi guarderà inorridita ammaccare lo sportello del frigorifero a suon di calci finché non arriverà Leonard a portarmi via in fretta e furia. Io guarderò gli alberi sfrecciare dietro il finestrino, sprofondata in un singhiozzo finché non troverò mamma in uno strano letto con una Roxanne paonazza a dimenarsi tra le sue braccia. Mi rotolerò in terra finché non la poserà, poi le mollerò un appiccicoso pugno in faccia quando mi offrirà la guancia per un bacio. Non mi ricorderò della suora alta con la gonna lunga e un piatto di biscotti in mano che mi squadrerà dalla soglia con occhio freddo e professionale, ma lei si ricorderà di me.
Quando, un anno dopo, vedrò Dot dimenarsi con la faccia blu mi sarò ormai rassegnata a una vita che non mi accoglierà mai al suo centro esatto. Mi pianterò accanto al letto di mamma nel reparto maternità, versando torrenti arroventati di lacrime, sollevando i palmi nel segno universale della sconfitta, limitandomi a dire: Questa è blu. Un’uscita che rispunterà qualche volta a cena fino al giorno in cui nessuno la rievocherà più.
Non mi sono mai guardata allo specchio, solo nella fase puberale comincerò a sospettare l’atroce verità. Non immagino di avere piedi speciali, mi stupisce solo che rispondano ai miei richiami. Scalcio con tutt’e due le gambe contemporaneamente, eseguendo una capriola perfetta, mentre tutti, Leonard incluso, rimangono senza fiato. La classe di acquagym di Glenwood sente il trambusto, si blocca a metà volteggio, e corre al bordo della piscina per bambini. Io scalcio, serve a muovermi. Eseguo un otto perfetto lasciando tutti di stucco. Mi immergo, facendo balenare un sedere accuratamente avvolto in strati e strati di lardo color avorio; la folla fa un passo indietro, restando nuovamente di stucco. I miei menti sono schiacciati come una fisarmonica, sprizzano acqua anziché note. Non immagino che cosa sono e che vedrò il mio mondo da sola, dall’interno, ma a un tratto ricordo di avere le braccia, e le agito. La signora con la faccia che comincio a riconoscere non sa come comportarsi. Sta piantata in mezzo all’acqua tiepida a mordicchiarsi il labbro inferiore con i denti da c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La Nuotatrice
  3. La nuotatrice
  4. I cattolici californiani portano gli occhiali scuri
  5. Dimmi che cosa sono e lo sarò
  6. Ringraziamenti
  7. Copyright