Cacao, Guyana Francese
Chance Renard sollevò lo sguardo dal bicchiere di cachaca, ipnotizzato dallo sciame d’insetti che s’affollavano intorno al lume. All’interno dell’Heart of Darkness, calore e umidità succhiavano via le energie. L’ora tarda, il lezzo dei profumi scadenti delle prostitute e del cattivo liquore creavano un’atmosfera greve, che pesava sull’anima. In un angolo un juke-box vomitava musica rock thailandese diffusa da altoparlanti che crepitavano nell’ambigua penombra. Chance socchiuse le palpebre, poi ingollò ciò che restava del suo bicchiere e raccolse il sigaro dal posacenere di pietra grezza. Mentre lo riaccendeva scambiò un’occhiata con Claude Sadoule, il suo collega e compagno di missione per quella notte.
A vederli li si sarebbe scambiati per due dei tanti avventurieri di origine europea che gravitavano tra il Suriname, la Guyana Francese e le isole dei Caraibi in cerca di affari poco puliti e donne facili. Cocaine cowboys, mercenari, avanzi di galera. Barba di tre giorni, bermuda di tela tropicale, camicie colorate fuori dai pantaloni per nascondere le pistole, lo sguardo un po’ annebbiato. Quella era l’impressione che dovevano trasmettere. Relitti alla deriva.
Forse era davvero così, pensò Chance. Almeno in parte. Un uomo normale, una persona perbene, non rinnova per la terza volta il contratto d’arruolamento nella Legione Straniera. Sempre ammesso che uno superi il primo lustro di servizio per chissà quale ideale avventuroso, prolungare la ferma di altri cinque anni è un cattivo segno. Recidivare ancora è una follia. Si è bacati dentro. Era una constatazione che suscitava amarezza e orgoglio allo stesso tempo, in entrambi, e Chance lo sapeva. Sentirsi in una comunità a parte, una razza d’élite, capace di ritagliarsi da sé il proprio destino. Un dono o una maledizione, a seconda dei punti di vista.
Chance lasciò sfuggire una boccata lenta scrutando il suo compagno attraverso la cortina di fumo. Da quasi tre giorni erano a Cacao, sperduta località della Guyana Francese incastonata tra colline coperte di fitta vegetazione e un lungo fiume melmoso, e stavano avvicinandosi al momento cruciale. Sadoule sembrava perfettamente calato nel ruolo ma, a tratti, lo sguardo tradiva la tensione.
Era sempre così, pensò Chance. Da molti, moltissimi anni condividevano le stesse emozioni. L’adrenalina che scorreva a fiotti impetuosi, a stento controllata dall’addestramento. L’ansia di cominciare e di porre fine all’attesa. Si conoscevano sin dai tempi del Libano. Commilitoni, amici per la pelle. Due ragazzi scappati di casa per inseguire il sogno dell’Avventura. Entrambi erano tenenti del 2° reggimento aviotrasportato della Legione, distaccati alla base di Ariane per un corso di addestramento. Ormai erano arrivati al termine anche di quel turno oltremare, la Corsica li aspettava con i suoi faraglioni di roccia candida, il mare azzurro e le ragazze nei bar di Bonifacio, abbronzate e pronte a cedere al fascino tenebroso degli eroi col képi bianco.
Però c’era ancora una missione da portare a termine. Un incarico fuori dal ruolino degli ordini ufficiali, ma altrettanto importante.
Chance si appoggiò allo schienale e sbirciò il grande orologio appeso al muro. Le due e venti. Era quasi l’ora. Rivolse verso il compagno il viso affilato, dominato dal naso adunco, da predatore, e dagli occhi scuri, intensi. Bruno, un metro e ottanta di muscoli agili e scolpiti da un costante allenamento fisico, Chance Renard dimostrava a malapena i suoi trentacinque anni. Era un ufficiale esperto, un veterano consapevole dei rischi del mestiere. E come l’amico, Claude Sadoule, era convinto che le porte dell’inferno stavano per schiudersi. Nessun problema, erano lì per quello. El infierno soy yo.
— Andiamo — soggiunse Chance con la voce arrochita dal fumo.
Il suo compagno lasciò vagare lo sguardo per il locale un’ultima volta alla ricerca di segnali di pericolo, poi assentì. Infilò un paio di banconote sotto la bottiglia di cachaca e si alzò. Intorno a loro gli ultimi avventori ciondolavano. Per la maggior parte si trattava di orientali, anche se tra le ragazze raccolte presso il bancone le mulatte erano l’offerta più comune.
Uno strano posto, Cacao. Un tempo aveva ospitato un bagno penale, abbandonato dopo un’epidemia di colera che aveva falcidiato secondini e reclusi. Successivamente, alla metà degli anni Settanta, Giscard d’Estaing e la Fondazione per la salvaguardia delle minoranze etniche vi avevano trasferito trecento profughi laotiani, provenienti dal Triangolo d’Oro. Alla fine della Guerra del Vietnam, infatti, i montanari hmong, coltivatori d’oppio e alleati della Francia prima e degli USA in seguito, avevano rischiato il genocidio. Per sfuggire alle purghe dei Vietcong e dei Pathet Lao si erano riversati a migliaia in Thailandia e Birmania. Alcuni avevano fatto appello ai loro vecchi alleati, trovando una nuova patria nelle foreste della Guyana Francese. Inizialmente rifiutati dalla popolazione locale, avevano saputo far prosperare il terreno loro affidato, creando un microcosmo asiatico in America latina.
A Cacao ne vivevano milletrecento ma, in una zona così sperduta, superare alcuni problemi significava suscitarne altri. I hmong avevano portato nelle foreste amazzoniche le loro abitudini di vita e, soprattutto, la coltivazione dell’oppio. Il governo francese non aveva dato molta importanza alla cosa, sinché non erano giunte voci allarmanti di un progressivo proliferare di un’attività che rischiava di diventare un’industria. Da un paio d’anni un certo signor Vang Pao, che ai tempi del Vietnam era stato un mal pagato caporale, era divenuto una specie di signore della droga e aveva ottenuto i mezzi per modernizzare e migliorare quella che, ai burocrati francesi, era sembrata solo un’innocua tradizione legata a un sistema di vita centenario. Adesso i contadini laotiani che vivevano a Cacao non solo coltivavano il papavero sulle colline così simili a quelle del loro paese d’origine, ma possedevano anche i mezzi per raffinare l’oppio grezzo in morfina e in eroina. La trasformazione non era avvenuta per caso.
Secondo le informazioni raccolte congiuntamente dai francesi e dalla polizia del Suriname, Vang Pao, che adesso si faceva chiamare “generale”, aveva ricevuto fondi e macchinari da Jorge Risvik, un mulatto di Paramaribo, capo carismatico di una fazione di guerriglieri asserragliata nelle foreste intorno al fiume Maroni. Gli uomini di Risvik si facevano chiamare guerriglieri voodoo e praticavano rituali macabri, ma sparavano con armi moderne contro i soldati del presidente Desi Bouterse. Armi che acquistavano in Messico in cambio dell’eroina. La droga prodotta e raffinata dai hmong di Vang Pao, pagata in smeraldi provenienti dalle miniere del Suriname. La Francia non poteva permettere che il fulcro di quell’operazione si svolgesse nel cuore del suo territorio. Parigi disponeva di pochissime colonie e ci teneva a mantenerle, e sebbene al di fuori della base aerospaziale di Ariane non controllasse veramente il territorio, non aveva intenzione di consentire a nessun signore della droga di arricchirsi fomentando rivoluzioni negli Stati confinanti.
E questa era la ragione per cui i tenenti Sadoule e Renard, al termine del loro periodo di addestramento ad Ariane, erano stati incaricati di infiltrarsi nel covo dei narcos per aprire la strada a un drappello di “ripulitori” guidati da un loro collega e amico.
L’informazione passata dai servizi di intelligence assicurava che a Cacao, quella notte, sarebbe avvenuto uno scambio smeraldi-eroina. Protagonisti, il generale Vang Pao e Mathilda Vos, “la Migale”, compagna di Risvik. A sentire le descrizioni che se ne facevano, era a metà tra la pasionaria e la sacerdotessa voodoo, protetta dallo spirito dell’insetto velenoso di cui portava il nome.
Chance e il suo compagno uscirono dal locale nel quale avevano aspettato pazientemente l’arrivo dell’ora stabilita. All’esterno li accolse una folata d’aria umida, densa per il puzzo dei rifiuti e della vegetazione imputridita. Aveva piovuto per tutto il giorno. Oltre la sagoma scura della foresta, Chance sapeva che Peter Handerhof era al comando di una squadra di legionari in assetto da combattimento. A una decina di chilometri, presso un campo di aviazione appositamente ricavato da un tratto di foresta spianato a colpi d’ascia e sega a motore, due elicotteri militari Gazelle erano in attesa del segnale.
Ma la strada dovevano aprirla lui e Sadoule. Il loro incarico prevedeva l’avvicinamento ai locali della raffineria, individuati all’interno del complesso della vecchia prigione ora destinata ufficialmente a magazzino, il posizionamento di cariche esplosive e l’identificazione certa di Mathilda Vos. La sua cattura era l’elemento cruciale del loro contributo alla missione. Un regalo che le autorità francesi intendevano fare al presidente Bouterse per indurlo a perdonare la presenza dei trafficanti sul loro territorio.
Chance strisciò lungo il fianco del locale, gli occhi abituati all’oscurità, il peso della Beretta 92F sotto la camicia, rassicurante. Scrutò la strada. Un ubriaco per terra, qualche cane randagio. Nel buio i grilli producevano un rumore continuo. — Via libera — sussurrò al compagno.
Sadoule svicolò dietro l’angolo sino a un bidone dove, nel pomeriggio, avevano nascosto la loro attrezzatura. Coperti dall’oscurità, estrassero dal barile di lamiera colmo d’acqua una sacca in materiale idrorepellente. In pochi attimi si liberarono delle camicie vistose sostituendole con le tute nere ignifughe degli incursori della Legione. Si muovevano secondo una consumata routine, coprendosi l’un l’altro mentre calzavano l’equipaggiamento. Giberne da combattimento, apparecchi di comunicazione completi di auricolare e laringofono, visori notturni. Negli zainetti aderenti alle spalle avevano esplosivo al plastico, spolette e granate flash-bang. Le semiautomatiche trovarono alloggiamento nelle fondine di rete. Potevano contare anche su compatte pistole mitragliatrici Borko di fabbricazione russa, scelte appositamente per l’esigenza della missione. In meno di tre minuti avevano cambiato completamente il loro aspetto, inghiottiti dall’oscurità.
Superando baracche con affisse insegne in laotiano e francese e file di pozze scavate dai temporali, Chance e il suo compagno raggiunsero una rimessa che ospitava vecchi trattori rugginosi. Dal loro punto di osservazione scorgevano la sagoma del carcere-magazzino protetto da un muro di cinta eretto di recente. Filo spinato, cocci di vetro.
Con il visore notturno Chance individuò immediatamente le sentinelle. Almeno sei uomini. Magri, i lineamenti brutali di chi è abituato alla violenza, casacche mimetiche e giubbe nere orlate di monete d’argento secondo l’uso dei hmong. AK-74, versione più recente del vecchio Avtomat Kalashnikova, ad armacollo. Il generale Vang Pao non voleva correre rischi.
— Falchi in posizione — sussurrò Sadoule attraverso il sistema di comunicazione.
Silenzio, una breve scarica di statica, poi la risposta arrivò anche a Chance. — Predatori in posizione, aspettiamo il vostro segnale.
Renard riconobbe l’accento tedesco di Peter Handerhof, il tenente di Hannover con una lacrima nera tatuata sul viso. Nel buio i compagni erano pronti a coprir loro le spalle.
— Ci inseriamo. — La replica di Chance fu appena un sussurro. — Passo e chiudo.
La pastiglia di benzedrina che Chance aveva fatto scivolare tra la lingua e il palato ebbe un effetto immediato. Tutti i sensi allerta, emozioni sotto controllo, il suo corpo assunse l’assetto da combattimento. Scandagliò la notte ancora una volta. Attraverso le lenti, la base dei narcotrafficanti era immersa in una surreale tonalità verdastra nella quale spiccavano le sagome dei guardiani armati. Chance percepiva la presenza del suo compagno accanto a sé. In quel momento l’essere più importante al mondo.
Abitualmente il manipolo della Legione avrebbe usato una differente tecnica di infiltrazione nell’area nemica, servendosi di cecchini a distanza, e Chance era certo che Peter Handerhof avesse appostato almeno due tiratori scelti in posizione sopraelevata. Ma dovevano piazzare le cariche all’interno della struttura senza suscitare clamori prima dell’arrivo di Mathilda Vos. Quindi l’inserimento silenzioso dei due “falchi” doveva avvenire nella modalità che gli istruttori della Scuola di sabotaggio e guerriglia del monte Cinto definivano “senza rete”.
I due legionari si scambiarono un ultimo cenno d’intesa: avevano avuto tempo di studiare il percorso e le mosse necessarie nei giorni precedenti.
A muoversi per primo fu Chance, che sgattaiolò dall’edificio dietro il quale erano nascosti sino alla successiva pozza d’ombra, coperto dal compagno. Nelle mani, il mitragliatore russo munito di un lungo silenziatore a tubo pesava poco più di un chilo. Sorretto dalla cinghia passata intorno alle spalle non costituiva un impiccio. Il dito sul ponticello, pronto a sparare ma non troppo vicino al grilletto da lasciar partire un colpo per errore.
Chance raggiunse la riva del fiume. Come avevano notato durante le ricognizioni diurne, il deposito presentava una falla nel sistema di difesa. Lo scarico degli spurghi s’immetteva direttamente nel fiume attraverso una conduttura di lamiera che passava sotto una staccionata di assi larga circa un metro, ma notevolmente più bassa del muro di cinta e priva di ostacoli alla sommità. Dopo tutto era una postazione in un territorio sotto il controllo dei trafficanti.
Chance strisciò fino ad appostarsi vicino alla bocca della conduttura. Un gorgogliante flusso d’acqua gli riempiva le orecchie.
Presa posizione, aspettò che Sadoule lo raggiungesse. Passo successivo. Fissò la mitraglietta dietro la schiena stringendo la cinghia in modo che le parti metalliche non producessero cigolii indesiderati. Superare l’ostacolo non sarebbe stato un problema. Chance era abituato ad ar...