Memorie dal sottosuolo
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Memorie dal sottosuolo

Con un saggio di Vladimir Nabokov

  1. 224 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Memorie dal sottosuolo

Con un saggio di Vladimir Nabokov

Informazioni su questo libro

Nella prima parte, "Il sottosuolo", il protagonista racconta la sua infanzia e la formazione della personalità più nascosta (il sottosuolo per l'appunto). Nella seconda, "A proposito della neve fradicia", ripercorre alcuni episodi della sua vita dove più emerge il "sottosuolo". Segue alcuni compagni di scuola ad una cena, sfoga poi l'amarezza per le offese subite su Liza, una prostituta incontrata in una casa di tolleranza, mostrandole con durezza che cosa l'aspetta nel futuro. Dopo qualche giorno Liza ritorna da lui col desiderio di una vita pura, ma viene trattata con disprezzo e volgarità. Per umiliarla le mette in mano un biglietto da cinque rubli, che poi ritroverà sul suo tavolo quando la donna se ne sarà andata, testimonianza della grande dignità di Liza.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804516026
eBook ISBN
9788852026447

II

A PROPOSITO DELLA NEVE BAGNAT

Quando dal buio grande dell’errore
Col verbo ardente della convinzione
Riuscii a trarre l’anima caduta,
Tu, colma tutta di profonda pena,
Torcendoti le mani maldicesti
Il vizio, che t’aveva avviluppata;
Quando la tua dimentica coscienza
Punir volesti tu con il ricordo,
Partecipasti a me la narrazione
Di tutto ciò che fu prima di me,
E allor, nascosto il volto con le mani,
Ricolma di vergogna e di spavento,
Ti disciogliesti tutt’a un tratto in pianto,
Per lo sgomento, per l’indignazione...
Ecc. ecc. ecc.
Da una poesia di N.A. Nekrasov16
16 Nikolaj Alekseevic Nekrasov (1821-1878), poeta, giornalista e editore di tendenza, «radicale». Nel 1845 Nekrasov fu il primo a scoprire il talento del giovane Dostoevskij, e a introdurlo negli ambienti letterari pietroburghesi; in seguito i rapporti tra i due peggiorarono, fino a episodi di aperta ostilità. La poesia citata qui, Kogda iz mraka... (Quando dal buio...) è del 1845.

I

A quel tempo non avevo che ventiquattro anni. E già allora la mia vita era tetra, disordinata e solitaria fino alla selvatichezza. Non frequentavo nessuno, evitavo persino di parlare con la gente e mi rannicchiavo sempre di più nel mio cantuccio. In ufficio, alla cancelleria, cercavo addirittura di non guardare nessuno, e mi accorgevo benissimo che i miei colleghi non solo mi consideravano un bislacco ma – avevo sempre anche questa sensazione – parevano quasi osservarmi con una specie di ripugnanza. E mi veniva questo pensiero: ma com’è che nessun altro all’infuori di me ha la sensazione che lo si stia osservando con ripugnanza? Uno dei nostri impiegati aveva una faccia repellente, butteratissima, quasi brigantesca. Se l’avessi avuta io una faccia così indecente, credo che non avrei mai nemmeno osato alzare gli occhi su chicchessia. Un altro portava un’uniforme talmente logora che bastava passargli accanto per sentirne il cattivo odore. Eppure nessuno di questi due signori si mostrava mai confuso – né a motivo dell’abito, né a motivo della faccia, né per un qualche altro motivo d’ordine morale. Né l’uno né l’altro si immaginava mai che lo si stesse osservando con ripugnanza; o se anche se l’immaginavano, per loro non faceva proprio nessuna differenza – sempre che non si fosse trattato del signor direttore. Ora mi è perfettamente chiaro che ero io stesso, in conseguenza della mia vanità sconfinata – e dunque anche delle enormi pretese che mi ponevo – a osservarmi da me con una rabbiosa insoddisfazione, che giungeva per l’appunto fino alla ripugnanza; e appunto perciò nei miei pensieri attribuivo a tutti gli altri quel mio modo di osservarmi. Io, tanto per fare un esempio, odiavo la mia faccia, la trovavo turpe, e sospettavo persino che avesse un’espressione in un certo qual modo abietta, e perciò ogni volta che arrivavo in ufficio mi sforzavo penosamente di darmi un contegno quanto più indipendente possibile, perché non mi si sospettasse d’abiezione, e alla mia faccia cercavo di dare un’espressione che fosse il più possibile nobile. “Magari non sarà un bel volto” pensavo “ma in compenso che sia nobile, espressivo, e quel che più conta, straordinariamente intelligente.” Tuttavia sapevo per certo, ed era un martirio saperlo, che tutte queste bellissime qualità non le avrei mai potute esprimere, con quella mia faccia. Ma la cosa più tremenda era che la mia faccia io la trovavo affermativamente stupida. E pensare che mi sarei accontentato che esprimesse intelligenza. E anzi, avrei persino accettato l’idea di avere un’espressione abietta, purché al contempo la gente trovasse che il mio volto fosse tremendamente intelligente.
Io i nostri impiegati, ovviamente, li odiavo tutti quanti dal primo all’ultimo, e li disprezzavo tutti, anche se al contempo era come se avessi paura di loro. Capitava anche che tutto a un tratto li considerassi superiori a me. L’una e l’altra cosa mi capitavano così all’improvviso, non so neanch’io come: per un minuto li disprezzavo, e il minuto dopo li consideravo superiori a me. Un uomo evoluto, che sia anche una persona come si deve, non può essere vanitoso senza avere al contempo delle sconfinate pretese, e senza provare per sé stesso un disprezzo che arrivi in certi istanti fino all’odio. Ma sia che li disprezzassi, sia che li considerassi a me superiori, non c’era quasi verso che incontrando qualcuno di loro io non abbassassi gli occhi. Facevo persino degli esperimenti: provavo a vedere se ero capace di sostenere lo sguardo non fosse che del tale, o del talaltro – ed ero sempre io ad abbassare lo sguardo per primo. Ciò mi tormentava fino al furore. Avevo anche paura – fin da farmene una malattia – di apparire ridicolo, e perciò veneravo servilmente la routine in tutto quello che mi pareva esteriore; mi lasciavo andare con amore lungo i binari comuni, e con tutta l’anima paventavo in me la benché minima eccentricità. Ma come avrei mai potuto resistere? Ero morbosamente evoluto, così come appunto deve esserlo un uomo dei tempi nostri. Loro invece eran tutti ottusi e si somigliavano tutti fra loro, come tanti montoni in un gregge. Forse solamente io, in tutta quanta la cancelleria, avevo perennemente la sensazione di essere un vile e uno schiavo; e appunto per ciò avevo anche la sensazione di essere una persona evoluta. Ma non era soltanto una sensazione, era davvero così: io ero un vile e uno schiavo. Dico questo senza sentirmene affatto confuso. Qualsiasi persona per bene dei tempi nostri è e deve essere un vile e uno schiavo. È la sua condizione normale. Di questo io sono profondamente convinto. Siamo fatti così, e appunto perciò siamo quel che siamo. E non soltanto ai giorni nostri, per chissà quali circostanze accidentali, bensì in generale e in ogni tempo la persona per bene ha dovuto e dovrà essere sempre un vile e uno schiavo. Questa è una legge di natura per tutte le persone per bene del mondo intero. E se anche dovesse capitare a qualcuna di loro di braveggiare in una qualche occasione, ciò non gli sia di conforto e non stia a rallegrarsene: giacché finirà comunque per calarsi le braghe davanti a qualcun altro. Questa è l’unica e la perenne via d’uscita. Le bravate le fanno soltanto gli asini e i bastardi, e anche loro solamente fino a un certo punto. E di questi non vale nemmeno la pena di parlare, perché non significano assolutamente niente.
Mi tormentava a quel tempo anche un’altra circostanza: per l’appunto il fatto che nessuno mi somigliasse, e che io pure non somigliassi a nessuno. “Io sono solo, e loro invece sono tutti” pensavo io, e mi sprofondavo nei pensieri.
Dal che si vede bene che a quel tempo ero ancora proprio un ragazzino.
Si verificavano anche dei veri e propri opposti. Sì, perché ogni tanto mi veniva una tale ripugnanza all’idea di dover andare tutti i giorni in ufficio: e tante volte arrivavo persino al punto di tornarne a casa malato. Ma poi, improvvisamente, così di punto in bianco subentrava una fase di scetticismo e d’indifferenza (in me succedeva tutto a fasi), ed ecco che allora ridevo io stesso della mia intolleranza e della mia schifiltà, e mi rimproveravo tutto quel mio romanticismo. Dimodoché certe volte non volevo nemmeno parlare con nessuno, e certe altre giungevo non solo ad attaccar discorso, e a chiacchierare a più non posso, ma mi saltava persino in testa di star con loro come con degli amici. Tutta la mia schifiltà era bell’e scomparsa, così d’un tratto, di punto in bianco. E chissà: forse non c’era nemmeno mai stata, dentro di me, e si era trattato soltanto di una posa, di qualcosa venutomi dai libri? Ancora oggi non sono riuscito a risolverla, questa questione. Una volta divenni persino amico loro, in tutto e per tutto, e cominciai ad andarli a trovare a casa, e a giocare con loro a preferans, e a brindare con la vodka, a discutere di promozioni... Ma qui permettetemi di fare una digressione.
Noialtri russi, parlando così in generale, non li abbiamo avuti mai quei romantici tedeschi e soprattutto francesi, tutti proiettati di là dalle stelle, e sui quali non c’è nulla che abbia effetto, tanto che la terra potrebbe anche creparglisi sotto i piedi, e la Francia intera potrebbe morire sulle barricate e niente: loro rimarrebbero gli stessi di sempre, non muterebbero neanche un po’ nemmeno per salvare le apparenze, e continuerebbero a cantare i loro canti siderali, per così dire, fino alla tomba, giacché sono degli imbecilli. Noialtri invece, qui in terra di Russia non ne abbiamo, di imbecilli; è una cosa risaputa; ed è appunto questo che ci distingue dalle altre terre a noi straniere. Di conseguenza, anche di nature siderali non se ne trovano affatto, dalle nostre parti, almeno allo stato puro. Furono soltanto i nostri pubblicisti e critici «positivi» di qualche anno fa, nel loro andare in cerca in quegli anni dei vari Konstanžogli e degli zietti Pëtr Ivanovič17 – e pensando, per loro balordaggine, che fossero appunto quelli i nostri ideali –, furono loro, dicevo, a inventarsi tutte quelle cose sui nostri romantici, e a considerarli dei tipi altrettanto siderali quanto quelli che c’erano in Germania e in Francia. Viceversa, le caratteristiche del nostro romanticismo sono totalmente e diametralmente opposte a quello sideral-europeo, e nessun metruccio di giudizio europeo può essergli applicato. (Permettetemi comunque di adoperare questa parola: «romantico» – che è una paroletta antica, rispettabile, emerita e a tutti ben nota.) Le caratteristiche del nostro romanticismo sono: il capir tutto, il vedere tutto e il vedere, spesso, in modo incomparabilmente più chiaro di quanto vedano i più arcipositivi tra i nostri intelletti; il non conciliarsi mai con nessuno e con nulla, ma al contempo il non disdegnare alcunché; l’evitare tutto, il cedere a tutto, l’agire in ogni frangente in modo politico; il non perdere mai di vista il fine utile, pratico (ovvero un qualche appartamentino a spese dello stato, e le varie pensioncine e decorazioncine) – l’intravedere sempre tale fine anche tra tutti gli entusiasmi e tutti i volumetti di poesiole liriche, e al tempo stesso il serbare incrollabilmente dentro di sé «il bello e il sublime», fino alla tomba, serbando frattanto anche sé medesimi tutti avvolti nell’ovatta, come un qualche oggettino di gioielleria – non foss’altro che nell’interesse di quella medesima «bellezza e sublimità», tanto per fare un esempio. Oh, è un’anima grande il nostro romantico, ed è anche il più grande impostore tra tutti gli impostori di casa nostra, ve l’assicuro e... addirittura per esperienza personale. Tutto ciò, s’intende, a condizione che il romantico sia intelligente. Cioè, che sto dicendo! il romantico è sempre intelligente; volevo solo notare che se pure ne abbiamo avuti anche noialtri di romantici-imbecilli, essi non entrano comunque nel conto, e precisamente perché quand’erano ancora nel fiore delle loro forze si trasformarono definitivamente in tedeschi e, onde serbare più comodamente il proprio oggettino di gioielleria, andarono tutti quanti a stabilirsi da qualche parte laggiù, per lo più a Weimar o nello Schwarzwald.18 Io, tanto per fare un esempio, nutrivo un sincero disprezzo per il mio lavoro d’ufficio, e se non ci sputavo sopra era solamente per necessità, perché appunto era il mio lavoro e mi davano dei soldi per farlo. Ma il risultato, notatelo bene, era che a ogni modo non ci sputavo sopra. Il nostro romantico sarebbe disposto a impazzire (il che d’altra parte capita assai di rado) piuttosto che sputar sopra a qualcosa – sempre che non abbia in vista un’altra carriera – e mai e poi mai si farà cacciar via a suon di calci; al massimo lo potranno portare al manicomio perché dice di essere «il re di Spagna»,19 ma questo solo nel caso che impazzisca veramente tanto. Ma è pur vero che dalle nostre parti quelli che impazziscono sono solamente i tisicuzzi e i palliducci. Viceversa un numero incalcolabile di romantici arriva a occupare, con l’andar del tempo, dei posti molto ma molto in alto. Che straordinaria poliedricità! E che capacità di accogliere in sé le sensazioni più contrastanti! Già allora questo fatto mi consolava, e ancora adesso sono dello stesso parere. È appunto perciò che dalle nostre parti vi sono tante «nature grandi», che per quanto possano cadere in basso, non smarriscono comunque mai il loro ideale; e benché per codesto ideale non muovano nemmeno un dito, e benché siano dei briganti e dei ladri matricolati, rispettano pur sempre fino alle lacrime quel loro ideale primigenio, e nell’anima sono straordinariamente onesti. Sissignori, soltanto qui da noi il più matricolato dei farabutti può tuttavia essere assolutamente e persino altamente onesto nell’anima, senza perciò cessare in alcun modo di essere la canaglia che è. Lo ripeto, fra i nostri romantici vengono fuori a ogni piè sospinto certi birboni pratici (uso la parola “birboni” per affetto) che danno prova tutto a un tratto di un tale senso della realtà e di una tale conoscenza di quello che è positivo, che la sbalordita amministrazione e il pubblico non possono fare altro che restare di stucco, a bocca aperta.
Una poliedricità davvero sorprendente; e Dio sa che cosa potrà venirne fuori e quale forma assumerà nelle circostanze avvenire, e quante cose essa ci riserva per il nostro futuro! E il materiale non è affatto dei peggiori! Non è per un qualche mio patriottismo ridicolo o di bassa lega che sto parlando così. D’altronde sono sicuro che voi state di nuovo pensando che io scherzi. E invece chissà, potrebbe anche darsi il contrario, che cioè voialtri siate sicuri che io la stia pensando proprio così. Comunque sia, signori miei, entrambe le vostre opinioni le considererò un vero onore per me, oltre che un particolare piacere. E questa mia digressione, perdonatemela.
Con quei miei compagni, ovviamente, non riuscivo a reggere più di tanto l’amicizia, e ben presto cominciavo a sputacchiarci sopra, a quei buoni rapporti con loro, e in conseguenza della mia a quel tempo giovanile inesperienza smettevo persino di salutarli, proprio come se avessi voluto rompere per sempre con tutti loro. D’altronde mi è successo una volta solamente, di fare così. Mentre in genere ero sempre solo.
A casa per lo più leggevo. Avevo voglia di soffocare con sensazioni esterne a me tutto quello che incessantemente mi s’andava accumulando dentro. E tra le sensazioni esterne a me, l’unica che rientrasse nelle mie possibilità era appunto la lettura. La lettura, certo, mi faceva un gran bene; mi agitava, mi deliziava e mi tormentava. Ma ogni tanto mi annoiava tremendamente. Com’è come non è, di tanto in tanto mi veniva voglia di muovermi; e così tutt’a un tratto sprofondavo in una cupa, sotterranea, ripugnante... non dirò depravazione, no, ma depravazionuccia, depravazioncina. Le passioncelle in me erano sempre acute, brucianti, causa la mia perenne e morbosa eccitabilità. Avevo come degli accessi isterici, con tanto di pianti e di convulsioni. A parte la lettura non avevo niente – ovvero non c’era nulla, in quello che mi circondava, che io potessi allora rispettare o da cui potessi sentirmi attratto. E per di più mi s’andava accumulando dentro una tale angoscia; cominciava a manifestarsi in me una sete isterica di contraddizioni, di contrasti, e appunto perciò mi buttavo a fare il depravato. Comunque non è per trovarmi una giustificazione che ora mi sono messo a dire tutte queste cose... Ma d’altronde no! Ho mentito! Volevo per l’appunto giustificarmi. È per me che faccio questa noticina, signori. Non voglio mentire. Ho dato la mia parola.
Facevo il depravato in solitudine, di notte, di nascosto, spaurito, e in modo sozzo, con dentro una vergogna che non mi abbandonava nemmeno nei momenti più ripugnanti e che, anzi, in quei momenti arrivava fino alla maledizione. Già allora mi portavo nell’anima il mio sottosuolo. Avevo una paura tremenda che qualcuno in un modo o nell’altro mi vedesse, m’incontrasse, mi riconoscesse. E così andavo in posti svariati ma comunque molto bui.
Una volta, passando di notte davanti a un’osteriaccia, vidi in una delle finestre illuminate dei signori che si stavano picchiando con le stecche, accanto a un biliardo: e poi presero uno di loro e lo spinsero fuori da una finestra. In un altro momento mi sarebbe sembrata una cosa infame; ma quella volta mi venne, tutto a un tratto, uno di quei miei stati d’animo, sicché provai addirittura invidia di quel signore che era stato spinto giù a quel modo, e un’invidia tale, che entrai addirittura nell’osteria e andai dritto nella sala del biliardo: “Massì,” pensai “vada come vada... e magari anch’io farò a botte, e spingeranno giù anche me dalla finestra”.
Non ero ubriaco, ma che ci volete fare, signori miei: fino a questo grado d’isterismo ci può divorare talvolta l’angoscia! Comunque non successe niente. Alla fine risultò che non ero nemmeno degno di saltar giù da...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Memorie dal sottosuolo
  3. Introduzione - di Igor Sibaldi
  4. Cronologia
  5. Bibliografia
  6. Memorie dal sottosuolo
  7. I. Il sottosuolo
  8. II. A proposito della neve bagnata
  9. Postfazione - di Vladimir Nabokov
  10. Copyright