Mauro Corona racconta la natura per parlare del mondo di oggi e di noi, pieni di difficoltà e impuntature, pieni di risorse, ma anche di problemi che spesso ci siamo creati da soli. Come ha scritto Claudio Magris: "I suoi racconti hanno l'autorità della favola, in cui il meraviglioso si impone con assoluta semplicità, con l'evidenza del quotidiano". Sono storie che parlano a grandi e bambini, storie di bullismo e prepotenza, di rapporto con la manualità e la creatività, ma anche storie d'amore e d'amicizia, storie di uomini e animali, sempre narrate con la voce senza tempo delle sue montagne.
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UN GIOVANE CAMOSCIO INVIDIAVA IL CERVO PERCHÉ aveva corna maestose e puntute, molto più grandi e belle delle sue. Quanto avrebbe voluto avere corna così, il camoscino invidioso.
“Perché” si chiedeva “al cervo quella fortuna e a me niente?”
Intanto tribolava, soffriva, era sempre di malumore perché guardava le corna del cervo anziché apprezzare e contentarsi delle sue. Le sue gli sembravano brutte, piccole, ridicole con quelle punte storte all’indietro, come uncini. Così continuava a guardare con invidia le corna del cervo e torturarsi e stare male per le sue, piccole e brutte. Gli altri camosci lo sgridavano e lo prendevano in giro a seconda dei casi. «Accontentati di quel che hai» dicevano. «Sei nato così, come tutti noi, è inutile e stupido voler essere un altro.»
Oppure lo canzonavano: «Eccolo il cervo-camoscio, guardate il cervo senza corna di cervo!» Ma il camoscino non ci sentiva, seguitava a bramare corna palmate e a rodersi e star male perché lui non le aveva.
Un vecchio camoscio lo prese in disparte e gli disse: «Senti qua un attimo, che ho da parlarti. Devi sapere che ognuno di noi è nato come è nato, è fatto come è fatto e ha quello che ha. Questa è la realtà, dalla realtà non si scappa e nemmeno la si cambia. Tu provieni da camosci perciò sei camoscio. Il che, credimi, non è un male. Sai quanti cervi vorrebbero essere come noi, leggeri, veloci, forti e capaci di sfidare i pericoli delle rocce a strapiombo? Molti, caro mio, molti. Più di quelli che pensi o credi. Lo vorrebbero così tanto che cederebbero le corna volentieri. C’è sempre qualcuno che vuol essere altro da quello che è. Tu sei come certi bambini che imitano i più grandi perché li vedono, e li credono bravi, belli, forti e vincitori. Così facendo vivono male, sbagliano e rovinano la crescita dell’albero che sono. Guarda giù dalle cime dei monti, osserva come si comportano i ragazzotti. Uno fuma perché pensa di essere figo, invece è solo sciocco. E giù, tutti a fumare come lui. Prima fanno i bulli, poi il vizio s’incolla e non smettono più. Se uno beve, tutti a bere. Se uno marina la scuola, tutti a marinare la scuola per far vedere che sono forti. Se qualche incauto fuma le canne e dice di star bene, tutti a provare l’effetto delle canne. Quelli sono ragazzotti ingenui e sciocchi come te, che vuoi mettere corna di cervo. Se però uno di questi giovincelli, e ve ne sono parecchi, studia, si applica, non beve, non fuma e non si fa le canne, gli dicono secchione, vile, pusillanime e buono a nulla. Pochi imitano chi fa il bravo e vive in maniera naturale. Tutti si arruolano, o vorrebbero arruolarsi, nelle file dei trasgressivi, dei vincenti, degli appariscenti. Questi ragazzotti ingenui non si rendono conto che i vincitori sarebbero loro se restassero semplicemente come sono. Nessuno è migliore di un altro, o più bravo, o più bello. Ognuno è quello che è e deve accontentarsi. Ogni albero è diverso dal suo vicino. Bisogna crescere e coltivare l’albero che siamo.
Così è la vita, caro amico, metti il cuore in pace e fai il camoscio, soddisfazioni non mancheranno. Soprattutto saranno quelle vere e naturali della nostra categoria, non quelle finte del cervo che non sei.»
Il giovane camoscio abbassò la testa e restò pensieroso per un bel po’. Forse quel vecchio esemplare che gli aveva fatto la predica aveva ragione, ma lui voleva essere cervo e non si rassegnava.
Passò l’autunno, l’inverno e venne marzo. A marzo i cervi perdono le maestose corna per mettere quelle nuove. Le lasciano cadere per terra. All’improvviso i trofei si staccano e cadono come certi rami secchi dagli alberi. I cervi continuano a brucare o camminare senza nemmeno farci caso. Anzi, sembrano contenti di essersi finalmente liberati da quel peso. Un giorno il camoscino traversa un prato e vede, nell’erba secca appiattita dalla neve appena scomparsa, un enorme paio di corna. Le aveva lasciate cadere un cervo poco prima. Svelto vi si china sopra e le prova, sognando che gli restino attaccate. Uno spirito dei boschi, saggio e severo, lo vede e con una magia fa sparire le sue corna e gli attacca quelle del cervo.
Il giovane camoscio sente subito la differenza di peso sulla testa e corre a specchiarsi in una lama d’acqua limpida. Si vede cervo e comincia a saltare di gioia.
«Finalmente!» dice.
Passano giorni e s’accorge che fatica a correre, a saltare, a rampare in salita. Negli scontri coi compagni ha sempre la peggio. Le corna pesanti, inadatte al suo corpo, lo rallentano, lo impacciano. Gli altri intanto lo picchiano. Quando non lo picchiano, lo pigliano in giro. In effetti, quell’enorme trofeo ingombrante e sproporzionato stona con la figura piccola e agile dell’animale. Il camoscino è diventato goffo, fuori misura, brutto. In una parola ridicolo. Ma lui non se ne rende conto, crede di essere bello. Però s’accorge di una cosa: quando cammina in bosco fitto, le corna inciampano nei cespugli, si intrappolano tra i rami, fanno resistenza al passo. Non avendo la mole del cervo e quindi la sua forza, fa fatica a tirare avanti. Alla sera è spossato, si lascia cadere in terra senza più forze. Ma si ostina a fare il cervo, a voler essere bello e forte come lui, anche se di un cervo ha solo le corna.
Passa così la primavera e l’estate, finché arriva l’autunno. Il camoscio è mezzo distrutto. Smagrito, stanco, sfatto di fatica, ma fermamente deciso a fare l’animale che non è. Tenta di accompagnarsi ai branchi di bruni cervi che battono la foresta e i pascoli alti, ma questi lo cacciano a cornate. Vedono che non è uno di loro, lo spingono via, viene escluso, emarginato. Lui reclama, dice che ha le corna come loro. Rispondono che due corna non fanno un cervo e sparisca subito da lì. Non molla. Prende botte, cornate e ferite, ma resiste. A modo suo fronteggia coloro che non lo vogliono. Non per cattiveria. Non lo vogliono perché con loro non c’entra nulla, è un estraneo. Una rana non sta con le balene.
Un giorno, il camoscio-cervo, traversando una fitta boscaglia di rovi, cespugli e liane contorte, rimane intrappolato con le corna in mezzo a tutto quel garbuglio. È già ottobre, comincia a fare freddo. Per ore prova a districarsi, a liberarsi, a uscire da quella situazione. Spinge, tira, salta, sbuffa, scalcia. Niente, non riesce. Passano le ore, passa la notte, lui è ancora là. Sfinito dai tentativi di liberarsi, alla fine s’accascia in terra senza forze. “Morirò di fame” pensa disperato. Al posto suo, un cervo normale, neanche tanto grosso, ne sarebbe uscito in tre secondi. Un cervo normale ha dieci volte più forza del camoscio. Con due strattoni avrebbe divelto l’intrico e se ne sarebbe andato via. Per questo i cervi possono permettersi corna grandi. Hanno forza, nessun cespuglio li può incastrare. Ma il camoscio troppo debole è rimasto bloccato.
“Morirò di fame“ continua a ripetersi.
Passa un’altra notte, lui è sempre più debole. Lo spirito dei boschi, saggio e severo, che aveva seguito sin dall’inizio l’avventura del camoscio-cervo, a quel punto decide di intervenire. Si presenta davanti a lui, lo libera, gli toglie le corna di cervo, gli riattacca di nuovo le sue e dice: «Alzati e vai a mangiare, cerca l’erba vicino alle sorgenti e rimettiti in forze. Domani starai meglio. E non fare mai più la stupidaggine di voler essere quello che non sei. Adesso hai imparato la lezione, spero». Detto questo sparì.
Il camoscino si tirò su. Con le sue corna piccole e curve gli sembrò di essere una piuma, di volare. Camminò leggero e contento a nutrirsi con l’erba delle sorgenti. Era felice. Aveva ripreso la sua natura, dentro la quale scoprì che stava molto bene.
IL GATTO BIANCONIGLIO
C’ERA UN GATTO CHE SI CHIAMAVA BIANCONIGLIO. ERA bianco come il latte e pauroso come un coniglio. A dire il vero non era del tutto bianco, aveva qualche chiazzolina scura qua e là, ma il resto era neve. Melissa, la padroncina, decise che quello sarebbe stato il nome giusto. Faceva parte di una cucciolata di tre, lui, il fratello Robin Hood, e l’altro fratello Minùd.
Robin morì giovane per un’infezione. Venne chiamato così perché era generoso. Cedeva il passo agli altri quando c’era da mangiare nella ciotola. Non baruffava, si metteva in disparte. Quando tutti avevano finito, si faceva avanti per vedere se avanzava qualcosa. Invece Minùd voleva tutto per sé. Pur di ottenerlo tirava fuori le unghie. Insomma, era un rissoso quando si trattava di andare a tavola. Nemmeno Bianconiglio baruffava, si tirava indietro, anche lui lasciava spazio agli altri. Ma la sua non era generosità, bensì paura. Quella paura che lo distingueva da tutti gli altri gatti. Evitava accuratamente le risse, anche se questo gli costava parecchio. Infatti non aveva nemmeno la fidanzata. Per averla avrebbe dovuto battersi e non era il caso. Graffi, morsi e ferite lo spaventavano, non voleva sentirseli addosso. Il sangue lo inorridiva. Quello suo e quello degli altri. Insomma, Bianconiglio era un po’ vile, ma non era colpa sua. Uno nasce come nasce e il coraggio non può darselo né acquistarlo. Al supermarket non lo vendono. In compenso la mancanza di ardimento Bianconiglio la bilanciava con una grande sensibilità e una pigrizia che rasentava l’indolenza. Aveva un continuo lamentarsi miagoloso che tirava avanti per giorni. In fondo, aveva soltanto bisogno di affetto e voleva farlo capire.
Non avendo coraggio, miagolava per farsi notare, per farsi prendere in braccio da Melissa, che lo teneva volentieri.
Bianconiglio schivava anche i topi, forse li temeva. Non gli interessava cacciarli, li lasciava passare senza degnarli d’uno sguardo. Erano i sorìs, piccoli topolini color marrone che bazzicano il sottobosco. Gli altri gatti li rincorrevano, li prendevano, li mangiavano. Lui no. Preferiva il cibo in scatola, molto più buono dei sorìs. Pure gli altri divoravano crocchette e scatolame, ma cacciavano anche i topi. Quella è la natura del gatto. Il gatto è un cacciatore, punto e basta. Ma a volte, nel regno degli uomini e degli animali, nasce qualcuno che esce dalla regola. In pratica nasce diverso. Diverso dai suoi simili per istinto e comportamento. Di solito questi diversi vengono maltrattati, presi in giro, isolati e discriminati. I normali li pesano, li giudicano un’offesa alla natura, alle regole del Creato, a loro stessi. E infieriscono. Infieriscono con cinismo, come se fossero soltanto loro i depositari di come si deve o non si deve essere. Così anche Bianconiglio pagava a caro prezzo la sua diversità. La mancanza di coraggio, il bisogno di affetto, il non cacciare topi come tutti gli altri gatti, lo esponevano al feroce sarcasmo dei gatti normali. E perfino a quello degli uomini.
Il nonno di Melissa lo prendeva a calci perché era un bondanìa, un buono a nulla. Gli altri gatti lo prendevano in giro, lo graffiavano, lo deridevano. Melissa invece, che aveva colto la bontà e la dolcezza dell’animale, gli voleva bene.
C’è qualcuno che vuol bene ai disgraziati. Il mondo è pieno di gente che ha cuore e dà una mano a deboli e derelitti, emarginati e diversi. Così il povero gatto Bianconiglio, bianco come la neve e pauroso come un coniglio, trascorreva i giorni, i mesi, gli anni tra fughe, graffi, umiliazioni e calci nel sedere. Ormai non se la prendeva più, subiva e teneva duro.
Per evitare offese e strapazzi, che sempre feriscono, si era ritirato a vivere da solo, non frequentava più gruppi di gatti ...