Il figlio dello sconosciuto
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Il figlio dello sconosciuto

  1. 480 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il figlio dello sconosciuto

Informazioni su questo libro

Tutto ha inizio nel 1913 nel giardino di una casa nella campagna inglese, quando il timido George Sawle torna da Cambridge insieme a un compagno di studi: l'aristocratico, magnetico, capriccioso poeta Cecil Valance. Si fermano solo tre giorni alla tenuta "Due Acri", ma quel poco tempo è destinato a cambiare la loro vita. E più ancora quella di Daphne, la sorella sedicenne di George. Sul quaderno degli autografi di lei, infatti, Cecil scrive un poema che diventerà, dopo la sua morte al fronte, il simbolo di una generazione. Ma quei primi giorni in cui la Storia sta per fare il suo tragico ingresso sono anche attraversati da malintesi e segreti, che intrecciano i destini della famiglia Sawle con quella dei Valance. Così, mentre George si sentirà ingannato nel suo amore proibito per Cecil, Daphne crederà che quei versi siano stati dedicati a lei e indosserà i panni della vedova del poeta. Sposerà il fratello di Cecil, ma quel suo primo, idealizzato amore la trascinerà da un matrimonio infelice all'altro. A vegliare sulle loro vite c'è comunque l'incombente e gelida presenza della statua bianchissima di Cecil. Fino a quando, settant'anni dopo, due giovani studiosi, coinvolti loro stessi nelle vicende biografiche del poeta, non faranno luce sulla verità di quei pomeriggi ai "Due Acri".
Alan Hollinghurst è considerato uno dei più importanti scrittori inglesi, e questo romanzo porta in ogni pagina la traccia della sua ironia, della sua scrittura elegante, disseminata di impercettibili, all'apparenza casuali, tocchi di puro talento. Il figlio dello sconosciuto racconta la storia di un paese emblematico come l'Inghilterra, i suoi pregiudizi ma anche la sua capacità di cambiare, e il potere straordinario che ha la letteratura di creare i miti di una nazione. Hollinghurst racconta la storia di uomini e donne imprigionati nella vita sbagliata: quello che il poema di Cecil suggerisce è che al mondo c'è sempre più ipocrisia che innocenza. Tuttavia, dice Hollinghurst, se siamo costretti alla finzione, che ognuno di noi possa almeno scriverla di proprio pugno.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804615231
eBook ISBN
9788852025372

UN POETA DI TUTTO RISPETTO

La signora Failing trovò fra le carte dell’uomo una frase che la lasciò perplessa. “Vedo la rispettabile dimora. Vedo la fortezza compiaciuta della cultura. Le porte sono chiuse. Le finestre sono chiuse. Ma sul tetto i bambini ballano per sempre.”
E.M. FORSTER, The Longest Journey, cap. 12

1
Non pioveva molto ma il vento infuriava, e lui percorse in fretta la piazza con l’ombrello abbassato davanti a sé che gli ostruiva in parte la visuale. I platani rombavano nel buio e le grandi foglie bagnate gli sfrecciavano accanto o premevano alla cieca contro il soprabito. Nella mano sinistra aveva la ventiquattrore di cuoio nero striato dalla pioggia. Era stato in biblioteca a leggere poesia, con i quattro gatti che la frequentavano di sera. Quando R. Simpson, il moretto che sembrava lavorare alle opere teatrali di Browning, aveva cominciato a raccogliere le sue cose, lui aveva fatto altrettanto; ma, una volta in strada, sotto la pioggia scrosciante, Simpson era corso a destra e lui era andato a sinistra, con il solito miscuglio di sconforto e sollievo, diretto alla metropolitana. Azzuffarsi con gli elementi gli dava una strana soddisfazione.
Il crepuscolo consentiva di guardare dentro le alte finestre al primo piano di Bedford Square dove c’erano gli uffici degli editori, le pareti piene di libri e spesso una ridda di figure a una festa dalle luci sfolgoranti. Come quella in corso, con alcuni ospiti che andavano via uscendo dal portone, il rettangolo luminoso che si allargava e si stringeva mentre sgattaiolavano fuori nella notte, ridendo e commentando il tempo. Uscì una coppia, a testa bassa e, dietro, lui scorse una figuretta, una signora anziana, incorniciata dal vano della porta nell’atto di abbottonarsi il soprabito, calzare bene il cappello, appendere la borsa al braccio e poi, scendendo sul marciapiede, aprire un esile ombrello, immediatamente strattonato dal vento che glielo ripiegò al contrario dietro la testa. Le parole lo sferzarono nitide: «Porca miseria!». Avvicinandosi la vide arrabattarsi, anche lui con l’ombrello che sbatacchiava e battagliava al vento. La donna vacillò appena, riuscì più o meno a raddrizzarlo e si allontanò veloce, quasi barcollando, ma una stecca si piegò irrimediabilmente all’insù, la stoffa rosa si allentò liberandosi e dopo una stasi sopraggiunse un’improvvisa folata a strapparle l’ombrello dalle mani scagliandolo in strada, dove scivolò per poi schizzare via a grandi balzi tra le auto parcheggiate. Gli correva l’obbligo di aiutarla, di inseguire l’ombrello, ma lei, con un certo sconsiderato buonsenso, sembrava averci rinunciato. Si volse un istante, il bagliore del lampione sugli occhiali, poi tornò a tuffarsi nel vento, la pioggia ormai ridotta a reboante umidità, e mentre procedeva spedita Paul fu attanagliato da una tale smania sovreccitata che per dieci secondi si nascose dietro l’ombrello, non sapendo cosa fare. Rallentò il passo, quasi a consentirle di scappare; poi si ricompose. Arrancando controvento la donna sembrava spaventosamente vulnerabile alle intemperie, alla notte londinese, e anche a lui. Perché nessuno l’aveva accompagnata, né scortata a un taxi? Le si portò alle spalle con una certa pena, la dolorosa farsa di averla per altri dieci, quindici secondi, a distanza di braccio, il cappello rosso di feltro ben calcato sui capelli bianchi strattonati a ciocche dal temporale. Aveva una sciarpa di seta rosa intorno al collo, e l’impermeabile era malridotto, il colletto scurito. Lui ne colse appena il perenne odore di muffa, prima di sollevare l’ombrello e poi calarlo tra lei e il vento. «Ecco…» disse.
«Lo so» disse lei, «è terribile» continuando a camminare, rivolgendogli una rapida occhiata dubbiosa ma forse anche un accenno di rassicurazione.
«Non dovrebbe andare in giro con questo tempo, signora Jacobs» disse lui, con grande sollecitudine.
«Ma ha smesso di piovere.»
Paul fece un largo sorriso, fissandola forse un po’. «Dov’è diretta?» Il nervosismo e la voglia di ridere, forse non condivisa, suscitati in lui da quell’incontro, lo rendevano esuberante. Rallentò, adeguando il passo al suo.
«Era alla festa?» disse lei, con sguardo leggermente sognante, quasi ne sentisse ancora il sapore.
Senza rifletterci, lui disse: «Sì, ma non ho avuto occasione di parlarle».
«Caroline ha tanti di quegli amici giovani…» come a capacitarsene lei stessa. Paul capì che aveva alzato un po’ il gomito – la morsa dell’alcol a certe feste e le sciocchezze che ti faceva dire: poi ti catapultavi fuori, riarso, stordito e, se andava bene, non da solo. E mentre bevevi si era fatta notte. Fu diretto, pur continuando chissà perché a tenerla sul filo: «Si ricorda di me, signora Jacobs?».
Lei disse, come se avesse aspettato a lungo pazientemente la domanda e senza guardarlo: «Non mi pare».
«E perché dovrebbe!» disse lui. «Non ci vediamo da almeno dieci anni…»
«Ah, bene» disse lei, sollevata ma ancora sulle sue.
«No, sono Paul… Paul Bryant. Lavoravo alla banca di Foxleigh. Sono venuto alla sua… alla sua grande festa di compleanno, tantissimi anni fa.» Dichiarazione che forse mancava un po’ di tatto.
«Oh, davvero» e la signora Jacobs fece uno strano ansito, o grugnito – Paul se ne accorse troppo tardi, come se sul nero lucente del marciapiede davanti a loro si fosse parato un ostacolo. Potevano aggirare quella doppia tragedia continuando a chiacchierare tranquillamente? Forse era anche un’occasione per esprimere il suo dispiacere, per dimostrare che conosceva la sua storia e poteva fidarsi di lui. «Sì, certo» disse lei.
«Mi è dispiaciuto moltissimo sapere di… Corinna, e…»
Lei quasi si fermò, gli mise una mano sulla manica, forse un tacito ringraziamento, ma c’era anche un correttivo in quel gesto. Lo guardò. «Non è che potrebbe trovarmi un taxi?»
«Sì, certo» disse Paul, richiamato all’ordine come da tante incombenze tutte insieme, ma sollevato all’idea di potersi rendere utile. Su di loro si ergeva la mole grigia del nuovo YMCA e, dietro, lo scintillio e il sibilo del traffico in Tottenham Court Road. «Dove vuole andare?»
«Devo arrivare alla stazione di Paddington.»
«Oh, non vive più a Londra?»
«Se non sbaglio c’è un treno alle nove meno dieci.»
La pioggia prese a tamburellare sull’ombrello. Erano vicino all’ingresso luminoso dell’Y, i ragazzi uscivano circondati da un’aura di autostima, sollevando i cappucci, allungando il passo. «Lei aspetti qui; le cerco un taxi.» Sotto la luce vide più chiaramente quanto fosse malconcia. Aveva molta cipria su un viso che ora appariva scarno e allo stesso tempo gonfio. La pioggia le aveva schizzato le calze marroncine e le décolleté consumate. Paul trovava l’opera del tempo sordida, leggermente spaventosa, e si riprese pensando a com’era stata anni prima. I ragazzi raggianti e velocissimi che uscivano dalla palestra e dalla sauna non conoscevano l’interesse di quella donna. Per darle prestigio ai loro occhi Paul le parlava in tono stentoreo, affascinante. Era una vittoriana, aveva visto due guerre ed era cognata, in uno strano modo postumo, del poeta di cui lui stava scrivendo. Per Paul l’habitat naturale di quella donna era un giardino inglese, non un vicoletto ventoso dietro Tottenham Court Road. Per lei avevano scritto poesie, messe poi in musica. Ricordava rapporti intimi ormai quasi leggendari. Se ricordasse lui, però, Paul non sapeva dirlo.
Ci vollero cinque minuti per trovare un taxi sulla via principale, e guidarlo a gesti dov’era la signora Jacobs. Tornando di corsa da lei, vedendo la sua espressione, preoccupata ma in un certo senso distratta, Paul capì che l’avrebbe accompagnata a Paddington, e che lungo la strada avrebbe preso accordi per rivederla. Parlò con il tassista e poi la raggiunse con l’ombrello per scortarla alla macchina. «La cosa buffa» disse lei «è che non sono sicura di avere i soldi per pagare la corsa.»
«Ah!» disse Paul, quasi severamente, «non si preoccupi» domandandosi se potesse davvero permetterselo. «Comunque, vengo con lei.» E adottando l’espressione affabile di chi non sente ragioni, la spinse più o meno dentro il taxi e girò intorno all’auto per salire dall’altro lato. Avrebbero avuto una quindicina di minuti.
Si sistemarono, con una certa tensione, il tassista attaccò a parlare del tempo infernale e Paul chiuse lo schermo divisorio. Guardò la signora Jacobs in cerca di approvazione ma lei, per un istante, nel buio subacqueo del taxi, parve ignorarlo. Tra lo sfrecciare di ombre e bagliori il morbido viso era stranamente smunto.
Paul disse: «Non posso crederci, incontrarla così».
«Lo so…» Era combattuta tra la gratitudine, l’imbarazzo e, credette di avvertire Paul, una specie di risentimento.
Gli occupanti precedenti avevano lasciato nel taxi un odore che sembrava di cibo e il sedile era ancora scivoloso per via dei loro abiti bagnati. Lui si sbottonò il soprabito e si girò di lato accavallando la gamba, impaziente ma disinvolto. Lei aveva l’aura trasparente dell’età avanzata, degna di nota come da ignorare. La borsa era sulle ginocchia, sormontata dalle mani guantate. Non era la stessa borsa di dodici anni prima, bensì un’altra, a quella strettamente imparentata, con la tipica aria informe e ingombrante – troppo ingombrante, in effetti, per essere considerata una borsa. L’inerme forma floscia ne era la riprova. Paul disse: «Allora, signora Jacobs, come sta?», dando alla domanda un tono sollecito, sperimentale. Se non sbagliava erano passati tre anni dalla morte di Corinna, e dal suicidio di Leslie Keeping.
«Mmm, benissimo, direi. Considerato…» una risatina secca, molto simile ai vecchi tempi, anche se il viso mantenne quell’aria assorta e preoccupata. Pulì senza efficacia il finestrino accanto a sé e sbirciò fuori, come a controllare dove stavano andando.
«Ma lei non vive a Londra? Se non sbaglio l’ultima volta che l’ho vista era a… Blackheath?»
«Ah, sì. No, mi sono trasferita, sono tornata in campagna.»
«Non le manca Londra?» disse lui amabilmente. Voleva scoprire dove vivesse, e la sentiva già riluttante a dirglielo. Lei si limitò a sospirare, sbirciò il mondo offuscato all’esterno, aprì di un soffio il finestrino, subito richiuso con un brivido dal pulsare del motore. «Io sono ormai a Londra da tre anni.»
La donna rincagnò il mento. «Be’, lei è giovane. Londra va bene quando si è giovani. A me cinquant’anni fa piaceva.»
«Sì, lo so» disse Paul. Nel suo libro Daphne raccontava di aver vissuto a Chelsea con Revel Ralph e questo, per assurdo, aveva influenzato l’idea di Paul su quanto Londra avesse da offrire: libertà, avventura, successo. «Ho lasciato la banca. Credo di aver sempre voluto fare lo scrittore.»
«Ah, sì…»
«Le dirò che sembra andare a gonfie vele.»
«Mi fa molto piacere.» Sorrise preoccupata. «Siamo sicuri che sta andando a Paddington?»
Paul la prese come una battuta, e si sporse a guardare. Attraverso un arco pulito dal tergicristallo vide per un istante l’angolo sfocato di un pub, l’ingresso di un ospedale, irriconoscibili. «Tutto a posto» disse. «No, ho fatto un po’ di recensioni. Forse avrà visto il mio articolo sul “Telegraph” un paio di mesi fa…»
«Di norma non leggo il “Telegraph”» disse lei, con un buffo sollievo più che con rammarico.
«La capisco» disse Paul, «ma devo dire che secondo me le loro pagine culturali sono le migliori.» Ciò che in realtà voleva sapere, ma non osava chiedere, era se avesse visto la sua recensione di La galleria corta sul “New Statesman”, un giornale che molto probabilmente lei non leggeva. Paul l’aveva fatto come gesto di amicizia, scovando tutto quanto c’era di buono nel libro, le piccolissime critiche chiaramente affettuose, la segnalazione degli errori sicuramente utile per eventuali edizioni future. Ogni volta che recensiva un libro, Paul leggeva tutte le altre recensioni che lo riguardavano con attenzione, quasi fosse lui stesso l’autore. A occuparsi delle memorie di Daphne erano stati o altri sopravvissuti, alcuni leali, alcuni beffardi, o giovanotti che volevano dire la loro; ma su tutti aleggiava l’idea più o meno dichiarata che l’autrice avesse inventato molto. Paul era arrossito vedendo segnalati errori che a lui erano sfuggiti, ma averla trattata con tanto riguardo lo convinceva ancor più del proprio tatto. La sua era stata la recensione di gran lunga migliore che Daphne avesse ricevuto. Scrivendola, aveva immaginato la gratitudine di lei, l’aveva formulata in vece sua nei modi più svariati, l’aveva assaporata, e per settimane dopo che era uscita – piuttosto tagliata, purtroppo, ma comunque chiara nelle linee principali – si era aspettato una lettera di Daphne, per ringraziarlo, per evocare la vecchia amicizia e proporre un nuovo incontro, a pranzo magari, che lui aveva immaginato in un albergo tranquillo o da lei, a Blackheath, distratti dalle reliquie dei suoi ottantadue anni. Invece l’unica risposta era stata una lettera di Sir Dudley Valance al Direttore dove si faceva notare un trascurabile errore di Paul nell’alludere al suo romanzo La lunga galleria, al cui titolo Daphne era stata così furba da fare il verso. Se perfino Sir Dudley, che viveva all’estero, vedeva il “New Statesman”, lo stesso doveva valere per Daphne; o poteva averglielo mandato l’editore. Paul pensò che doveva essere stata una forma di raffinata reticenza a impedirle di scrivere a un recensore. Lei intanto si stava levando i guanti. «Le spiace se fumo?»
«Per niente» disse Paul; e, quand’ebbe trovato una sigaretta nella borsa, lui le tolse l’accendino di mano reggendole dolcemente il braccio per un istante mentre si accostava alla fiamma. Il fumo inasprì quasi piacevolmente l’aria maleodorante. E bastò che Daphne scrollasse appena la testa soffiando il fumo perché il viso, e perfino lo scintillio degli occhiali, tornassero all’istante com’erano stati dodici anni prima. Paul, incoraggiato, disse «Sono contentissimo di vederla perché il caso vuole che stia scrivendo una cosa su Cecil… Cecil Valance» soffocando, con prontezza rispettosa, una risata. Non espose il progetto nella sua completezza. «A dire il vero, mi riproponevo di scriverle per chiederle se potevo venire a trovarla.»
«Be’, non saprei» disse lei, ma con estrema gentilezza. Soffiò il fumo come indirizzandolo a una cosa molto distante. «Ho scritto anch’io un libro, non so se l’ha visto. Diciamo che ho messo tutto lì dentro.»
«Certo che l’ho visto!» Paul rise di nuovo. «Le dirò di più: l’ho recensito.»
«È stato malvagio?» disse lei, con un’altra sfumatura di quel tono buffo che Paul non aveva dimenticato.
«No, mi è piaciuto tantissimo. L’ho esaltato.»
«Alcuni sono stati vere carogne.»
Lui tacque in segno di solidarietà. «Pensavo solo che sarebbe prezioso poter parlare con lei… ma non voglio importunarla, per carità. Se crede, verrò a trovarla anche solo un’ora, quando le torna più comodo.»
Lei si accigliò riflettendo. «Le dirò, non ho mai finto di essere una scrittrice magnifica, però ho conosciuto persone molto interessanti.» La risata sommessa adesso era leggermente sinistra.
Paul liquidò indignato con un verso indistinto tutte le critiche che le avevano rivolto. «Naturalmente ho visto la sua intervista sul “Tatler”, ma pensavo che potrebbe esserci qualcos’altro da dire!»
«Ah, sì.» Di nuovo parve lusingata e allo stesso tempo cauta.
«Non so se preferisce la mattina o il pomeriggio.»
«Mmm?» Daphne non si impegnò nella scelta del momento né altrimenti. «Chi era quel bel ragazzo alla festa… immagino che lei lo conosca. Non ricordo mai i nomi. Lui mi stava chiedendo di Cecil.» Sembrava trarne un piacere leggermente malizioso.
«Non vorrei che stesse scrivendo qualcosa su di lui!»
«Non lo escludo.»
«Accidenti…!» Paul era seccato, ma riuscì a dire senza scomporsi: «Da quando lei ha pubblicato il suo libro l’interesse per Cecil è molto aumentato».
Daphne inalò una profonda boccata di fumo e poi lo fece uscire in un’onda sonnolenta che le risalì lungo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il figlio dello sconosciuto
  3. “Due acri”
  4. Revel
  5. “Al via, ragazzi, al via!”
  6. Un poeta di tutto rispetto
  7. Vecchi compagni
  8. Copyright