Più forte del destino
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Più forte del destino

  1. 180 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Più forte del destino

Informazioni su questo libro

Essere una donna disabile in un mondo in cui l'immagine femminile appare sempre patinata e perfetta non è facile, ma Antonella Ferrari, attrice e ballerina con la sclerosi multipla, non si è mai arresa: "Sono, fondamentalmente, testarda e polemica. Per questo non credo nell'insormontabilità degli ostacoli e vorrei che non ci credessero coloro che hanno difficoltà simili alle mie". Ed è proprio questa sua determinazione che ha reso Antonella un punto di riferimento, una fonte di ispirazione per tante persone meno fortunate.
"La sclerosi multipla ha condizionato la mia esistenza sotto tutti i punti di vista, compresi quelli più personali, ma nonostante le difficoltà oggettive, l'ignoranza diffusa e gli egoismi malcelati, la buona notizia è che 'si può fare': convivere dignitosamente con la malattia è possibile". Senza rinunciare ai propri sogni, ai propri desideri: "I sogni sono alla base di ogni cosa, a me hanno permesso di rialzarmi ogni volta che il dolore mi ha costretta a terra, e vederli realizzati mi ha assicurato la felicità, sebbene con un paio di stampelle al seguito". In Più forte del destino, Antonella, per la prima volta, racconta la sua storia. E lo fa senza censure, condividendo i suoi momenti di sconforto, rabbia, frustrazione, e la fatica di rialzarsi dopo ogni caduta ma anche la grande gioia di ogni piccola conquista e l'enorme soddisfazione di avercela fatta, di aver trovato il suo posto nel mondo

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804619451
eBook ISBN
9788852024986

Il buio

Io e Roby vivevamo insieme da un po’. Pagavamo mutuo e bollette, come qualunque altra coppia del mondo. Non trovavo ingaggi da attrice e anche come autrice ero riuscita a lavorare solo per una stagione, a un programma su Retequattro.
Ho sempre amato il lavoro autorale ma dal “dopo Lorenza” era diventato difficilissimo essere reclutata. Ero catalogata, ormai, come attrice e tutti sembravano essersi dimenticati del mio passato dietro le quinte, a cui io sarei invece tornata con grande entusiasmo.
I soldi che avevo messo da parte erano evaporati velocemente, tra spese notarili per l’acquisto della casa, mobili e imprevisti vari. Non volevo farmi mantenere da mio marito e in ogni caso il suo stipendio non sarebbe bastato per entrambi.
Roby non ha mai ostacolato il mio lavoro e non lo spaventava la sua precarietà, mi ha sempre incitata a portare avanti i miei progetti artistici. Eppure in quel periodo fu costretto a chiedermi di mettere da parte le mie velleità artistiche per cercare una professione più stabile.
Prima di allora non avevo mai lavorato al di fuori dell’ambito televisivo. Ero stata fortunata, avevo sempre fatto quello che mi piaceva.
Questa volta l’orizzonte era buio più che mai e io dovevo trovare qualcosa al più presto.
Fu Elizabeth, la donna che aiuta me e mia madre in casa, a dirmi che aveva sentito di una ditta che cercava personale delle categorie protette. Per legge, infatti, quando un’impresa supera un determinato numero di dipendenti, deve includere lavoratori disabili o appartenenti ad altri gruppi considerati fragili.
Mi presentai da loro e, poco dopo, fui assunta.
Timbravo un cartellino ogni mattina, avevo orari e mansioni comuni a molti: amministrazione, segreteria, conti. Nulla di artistico. Quando sono arrivata, però, ero ancora percepita come “l’attrice”. In seguito mi raccontarono che la responsabile aveva fatto tirare a lucido la stanza in cui avrei lavorato, per accogliermi nel migliore dei modi. Tuttavia, in quell’azienda, non tutti condivisero il suo approccio. Nei confronti di chi ha lavorato in TV esistono infatti alcuni luoghi comuni. Io, che con i pregiudizi ho imparato a convivere, mi trovavo a conoscerne così, ancora una volta, di nuovi.
Si immagina che la gente dello spettacolo non sia in grado o non abbia voglia di ricoprire incarichi poco creativi. Io sentivo questa sorta di aura diffidente intorno a me, capii che qualcuno mi considerava snob a priori.
Forse soffro di “sindrome della prima della classe” e così questo dubbio iniziale mi portò a rimboccarmi le maniche ancora di più. “Se fai una cosa, devi farla bene, qualunque essa sia”, mi è stato insegnato da piccola e per me è un dogma.
La collega che avrebbe dovuto istruirmi sul lavoro si dimostrò da subito ostile. Probabilmente temeva che io potessi oscurare il suo operato e per questo, invece di aiutarmi, mi mise i bastoni fra le ruote. Avendo un grande ascendente sulla capa riuscì anche a rendermi problematico il rapporto con lei. Ogni mattina entravo in quell’ufficio con un nodo in gola. Mi sentivo di troppo. Mentre cercavo di imparare il lavoro osservando quello degli altri, decisi di usare le mie conoscenze informatiche per svecchiare un po’ quell’ufficio. Questo mi permise di acquisire la fiducia della responsabile. Quando la collega ostile entrò in maternità io, che ero stata assunta con un contratto part-time, passai al tempo pieno.
In realtà stavo già facendo colloqui altrove perché quel clima poco conviviale mi feriva davvero ma, per un innato senso del dovere, decisi di accettare per non lasciare scoperto l’ufficio.
Mi piaceva sentirmi utile e fu istruttivo scoprire che potevo sviluppare competenze in settori distanti da quello in cui mi ero formata.
La mia vita si trasformò, inesorabilmente. Chiunque trascorra otto ore al giorno in un ufficio sa che non resta tempo per molto altro. Smisi di fare provini e di cercarli. Sperimentai una condizione che non mi era mai appartenuta: non ero più padrona del mio tempo.
Monopolizzata dalla casa e dall’ufficio, mi stavo allontanando dal mio ambiente e dagli obiettivi che avevo coltivato per vent’anni.
Non me ne accorsi subito. Quando si è molto impegnati, non ci si può fermare a fare autoanalisi.
Tutto questo si conciliava male anche con la mia malattia. Visite e accertamenti dovevano ora essere incastrati in una scansione delle ore blindata.
In azienda divenni insostituibile e la mole di responsabilità che mi ritrovavo sulle spalle prosciugava tutta la mia energia. Era una sensazione bruttissima. Nonostante complimenti e attestati di stima, mi sentivo al posto sbagliato. Per me quella non era vita, stavo solo sopravvivendo.
Fortunatamente, avevo ancora il teatro come valvola di sfogo per i miei desideri d’arte.
Insieme a Massimo De Vita riportai in scena Uomo mortale, la storia di un padre, anziano e malato, e di sua figlia, una donna medico che deve rassegnarsi a vederlo morire.
Di tutti i registi con cui ho lavorato, Massimo è quello a cui mi sento più legata, forse anche per il fatto che con lui ho portato sul palco il mio dolore.
Per me, infatti, è stato davvero difficile non cedere alle lacrime mentre recitavo, perché il mio papà era sofferente ormai da molto tempo. Massimo è riuscito a conservare intatta tutta la mia emozione e a permetterle di esprimersi in modo artistico, senza che mi sfuggisse di mano cedendo al melodramma.
Ricordo con amore il lavoro al Teatro Officina, anche perché lì ho incontrato un uomo splendido: Antonio Bozzetti. Era lui l’altro protagonista dello spettacolo, mio padre sul palco. Avreste dovuto conoscerlo: a ottantadue anni possedeva una forza espressiva incredibile. Un cantastorie milanese che non aveva studiato per diventare attore ma che lo era più di qualunque altro professionista. La sua voce e il suo sguardo profondo mi hanno fatto tremare a ogni rappresentazione e lavorare con lui è stato un grande arricchimento umano e artistico.
Vista la sua età e le incerte condizioni di salute, lo spettacolo fu portato in tournée solo al Nord ma contò un numero considerevole di repliche.
Aveva scelto una scenografia scarna, nella migliore tradizione di quel teatro di prosa “alto” che non vuole inutili orpelli a frapporsi fra l’attore e il pubblico. Pochissimi elementi essenziali, due attori e uno sfondo scuro per non disturbare l’intensità di un dramma famigliare e umano che doveva essere presentato pulito agli occhi della gente: questo è stato Uomo mortale.
Durante le ultime repliche toccò a Massimo interpretare anche la parte del protagonista. Antonio Bozzetti, purtroppo, ci aveva lasciato. Nonostante sia un attore di grande spessore (o forse proprio per questo) non monopolizzò mai la scena e non cercò di prevalere sulla mia parte.
Massimo è il teatro, ti fa innamorare di ogni mattonella del palcoscenico, sa dare a ogni parola il giusto peso, la giusta respirazione, il giusto sentimento. Sono orgogliosa di aver lavorato con lui e mi auguro di tornare presto a essere diretta dal mio maestro, come amo chiamarlo. A volte scherzavo con il pubblico, dicendo che il regista, prima del curriculum, voleva vedere la cartella clinica dei suoi attori: se non stavano male, non li voleva!
Ero tornata da poche settimane dal mio viaggio di nozze e, appena rientrata a Milano, pur felice ed emozionata, mi sentii provata fisicamente.
Di giorno in giorno la spossatezza aumentava e, con questa, la difficoltà a camminare bene.
La messa in scena fu allestita in modo che gli oggetti si trovassero abbastanza vicini fra di loro, perché io potessi appoggiarmi più facilmente in caso di necessità.
Il campanello d’allarme risuonò. La contrattura beffarda dei muscoli, che tempo prima mi aveva portato a camminare in punta di piedi, si ripresentò. Daniela, l’altra anima del Teatro Officina, notava la mia sofferenza crescente nel salire i tre scalini di accesso al teatro. “Antonella, oggi cammini peggio del solito”: me lo ripeteva ormai a ogni prova e, fra l’una e l’altra, non passavano mai più di tre giorni.
In quel periodo cominciai a cadere con una certa sistematicità, quasi tutte le mattine. Avevo l’abitudine di accompagnare Grisù fuori per il suo giretto quotidiano e certe volte quasi lo imploravo: “Ti prego Grisù, non far cadere la mamma...”. E piangevo. Per completezza dell’informazione chiarisco che non è un alano, ma uno scricciolo che pesa sì e no cinque chili. Quaranta centimetri di amore a pelo corto, pezzato.
I medici mi prescrissero un comune miorilassante, usato anche per distendere i muscoli, cosa che però compromise la mia lucidità mentre preparavo lo spettacolo.
Mi sembrava di camminare su materassi ad acqua, l’ipertonia mi portava ad avere dolori pazzeschi. Si erano ripresentate delle strane scariche elettriche alla spina dorsale, che mi paralizzavano. Le conoscevo già, mi avevano fatto compagnia in altri momenti della vita ma questa volta non mi davano tregua. Erano tornate persino le scosse cloniche, quelle che facevano tremare le mie gambe in continuazione e che avevo messo a tacere con dosi massicce di baclofene. Ora, persino questo farmaco non sembrava efficace.
Anche guidare divenne un problema: la gamba destra, responsabile di freno e acceleratore per chi, come me, deve usare il cambio automatico, non era più affidabile. Troppo rigida, troppe clonie.
Chiesi a mio marito di andare a prendere la sedia a rotelle che avevo lasciato da mia madre. Il mio era più di un semplice presentimento, mi stavo preparando al peggio.
Sul palco dell’ultima rappresentazione recitai con un misto di stanchezza, paura per il futuro ed emozione.
La mattina dopo aprii gli occhi sulla realtà: dovevo ricominciare a preoccuparmi per il mio corpo.
Decisi di consultare il neurologo. Quel giorno Roberto mi accompagnò, per la prima volta. Chiedergli di venire con me è stata una scelta maturata dopo diversi anni di convivenza e non è stata una decisione semplice. Volevo che partecipasse più attivamente al dialogo con i medici e che non si limitasse ad ascoltare i miei racconti. Lui, con la scusa del lavoro, ha sempre evitato di accompagnarmi e la cosa mi ha spesso ferita, anche se mi rendevo conto che il suo era un modo per fuggire da una prova forse troppo dura. Purtroppo il suo battesimo con il mio neurologo è stato il peggiore che potessi immaginare. “Se non sospendiamo subito l’azatioprina queste cellule potrebbero trasformarsi in un cancro e finirla in quattro mesi. A questo punto meglio la sedia a rotelle che la morte”, il medico commentò così i risultati di alcune analisi del sangue. Io e mio marito tornammo a casa con queste parole impresse nel cervello. Lui pianse tutte le sue lacrime mentre io lo tenevo stretto a me.
Da allora ho interrotto l’uso della sostanza incriminata. Sembra paradossale ma è così: alcuni farmaci immunosoppressori, della famiglia dei chemioterapici, se assunti per tanti anni senza interruzioni, possono diventare cancerogeni. È come un gatto che si morde la coda.
Dovevo ricominciare ad affrontare la malattia da sola, come all’inizio, senza l’aiuto di una medicina. Avevo paura, tanta. La ricerca sta facendo molto per la nostra malattia ma la mia forma, la secondariamente progressiva, registra ancora poche sperimentazioni al suo attivo. D’altronde è molto più semplice curare un episodio infiammatorio acuto che una situazione ormai cronica.
Il neurologo mi consigliò, infine, un ricovero per sottopormi a un ciclo di fisioterapia intensiva.
Iniziai a cercare un ospedale pubblico adatto alla riabilitazione neurologica, possibilmente in una stanza singola perché non volevo che qualcuno mi riconoscesse. Alla fine trovai la struttura adatta a me, a Milano: si trattava della Casa di cura Pio X, non troppo lontana da Bresso, per permettere ai miei famigliari di venire a trovarmi.
I medici furono molto pessimisti. Non credevano nella mia possibilità di ricominciare a camminare, volevano lavorare sul potenziamento del busto e delle braccia, da seduta. Me ne accorsi subito, dal tipo di esercizi e dall’impostazione generale del lavoro che mi prescrissero.
Ero nelle mani di Massimiliano, un fisioterapista splendido e molto preparato sulle malattie neurodegenerative. Si instaurò subito un bel rapporto fra di noi, mi metteva di buonumore. Io, però, puntavo a recuperare l’uso completo delle gambe e compresi subito che le direttive che gli avevano impartito erano diverse da quelle necessarie al raggiungimento dei miei obiettivi.
Tutti gli esercizi si svolgevano su un lettino; la gamba sinistra, la più colpita da sempre, non veniva neanche presa in considerazione, mentre la destra subiva sollecitazioni di ogni tipo. Poi si passava al busto: mi faceva sedere e mi spingeva da una parte all’altra, in modo da stimolare la reazione dei muscoli del tronco. Sudavo come durante una partita di beach volley in piena estate. Le prime settimane furono terribili: i marker tumorali alla vescica davano risposte di dubbia interpretazione e i medici erano visibilmente preoccupati.
Penso di non aver mai pianto così tanto come in quel periodo. Forse mi stavo concedendo quello che avrei dovuto fare anni prima. Mi prendevo il lusso di manifestare il mio dolore.
Non avevo voglia di fare amicizia con le signore delle camere vicine, né di parlare. Preferivo confidarmi con il prete che ogni giorno passava a darmi la Comunione e a pregare con me. Ero diventata il suo chierichetto per la Messa della domenica: leggevo e intonavo i canti. Solo in quei momenti mi sentivo protetta.
Ogni tanto qualche amico si fermava fino a tardi, ordinando delle pizze e facendomi compagnia. Fiammetta era una di questi. Sono quindici anni che la conosco e so di poterci contare. Come succede anche con Stefania, con lei posso essere me stessa, parlando delle mie paure o condividendo entusiasmi, senza mai essere giudicata.
Le settimane passavano e nessuno provava a farmi alzare in piedi. Così, un giorno, presi in disparte Max e gli dissi: “Io non so cosa ti hanno detto i medici, ma il mio scopo qui è quello di ricominciare a camminare, non quello di muovermi bene su una sedia. Qual è il tuo obiettivo per questo nostro lavoro insieme?”.
Lui fu onesto, mi rispose che non dovevo sperare di recuperare l’uso delle gambe durante quel ricovero e mi raccontò che, in effetti, i suoi superiori gli avevano dato indicazioni diverse in merito al mio trattamento. Mi promise però che ci avremmo provato insieme, purché io mi impegnassi a rispettare i suoi tempi con fiducia e a seguire l’iter di recupero che lui aveva programmato. “Tu hai fretta, questo non ti aiuta e ti espone alle delusioni” mi spiegò perché non ci fossero dubbi su quello che andava fatto. Mi insegnò a ragionare per obiettivi intermedi.
Rientrai a casa dopo più di un mese, alla Vigilia di Natale.
In quel momento registrai un’altra frase storica per la mia collezione delle “dottorate”. Io e Roby avevamo comprato il nostro appartamento senza pensare che l’ascensore fosse troppo piccolo per contenere una sedia a rotelle, sarà stato forse per ottimismo o per la gioia spensierata di andare a vivere insieme. “Ma lei e suo marito dove avevate la testa?” mi chiese lapidario un medico di quell’ospedale, che aggiunse scandalizzato: “Non sapevate che un malato di sclerosi multipla deve avere sempre una casa adatta alla sedia a rotelle?”.
Almeno su questo devo riconoscere che aveva ragione. Appena tornai a casa, infatti, affrontai il dramma delle barriere architettoniche. Non solo non passavo nell’ascensore, ma non entravo neppure in bagno: la porta era troppo stretta. Mio marito comprò la poltroncina che ora è di fronte alla mia scrivania, una sedia piccola, di quelle girevoli con le rotelle, che riuscivo a spostare più o meno facilmente sfruttando la gamba destra, da seduta.
Per molti mesi ho continuato a seguire le terapie in day hospital. La mia giornata era scandita da lunghe ore di riabilitazione e da tutti quei gesti, quotidiani e casalinghi, per i quali io impiegavo il triplo del tempo rispetto a quello necessario a una persona in piedi.
Lavarsi, riassettare ma, soprattutto, cucinare, diventa straordinariamente difficile, soprattutto se gli spazi sono quelli della casa di Barbie. Sin dalla mattina, prima che mio marito uscisse per andare a lavoro, io dovevo sapere esattamente di cosa avrei avuto bisogno perché, se per caso mi fosse servito un ingrediente, un utensile o un qualunque altro oggetto riposto troppo in alto o troppo in...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Più forte del destino
  3. Prefazione
  4. Il sogno della danza
  5. Le scarpette appese al chiodo
  6. Dal tutù al pigiama
  7. NDD – natura da determinare
  8. Una nuova vita
  9. Ciak, si gira
  10. Hai presente l’amore?
  11. Non solo soap
  12. Il male minore
  13. Il buio
  14. Non siamo eroi
  15. Mangi, dormi e dopo vieni?
  16. Sia fatta la tua volontà
  17. Qui, ora
  18. Per un mondo libero dalla sclerosi multipla
  19. INSERTO FOTOGRAFICO
  20. Copyright