Sono tornata sulle stesse strade che percorrevo con nonna Agata per raggiungere la sua casa. Come spinta da una forza misteriosa, m’incammino lungo la via Libertà respirando a pieni polmoni il profumo dolciastro dei fiori che arriva a tratti, alternato all’odore dei tubi di scappamento. Il fumo delle stigghiola arrosto si leva denso tra le case del Borgo, ascolto con attenzione le abbanniate degli ambulanti. Giro verso il porto, alla Cala non mi sorprende affatto il puzzo di fogna, di pesce marcio; a destra c’è porta Felice, cammino lenta per corso Vittorio Emanuele, alla mia sinistra si allarga piazza Marina. I giganteschi ficus ci sono ancora, i loro rami, dal centro del vecchio giardino, proiettano ombre sui marciapiedi circostanti, intorno una serie infinita di piccoli ristoranti che vedo per la prima volta.
Veleno, mistero, contraddizioni, è l’impressione che traggo da tutto questo. Palazzo Steri si staglia contro il cielo azzurro, oggi non mi fa paura. Sede dell’università, non ha più l’aria sinistra di un tempo. Mi sembra di avere tra le mie le dita di nonna Agata, che mi stringe con forza. Molti dei vecchi palazzi ospitano oggi fondazioni, banche, sedi istituzionali. I lavori di restauro hanno fatto riemergere dopo secoli la loro struggente bellezza. Tra le antiche e lussuose dimore recuperate, resistono edifici fatiscenti, che sono diventati il punto d’incontro per gli immigrati. Palermo ancora non ha deciso che cosa vuole fare del suo centro storico, se un quartiere lussuoso abitato da ricchi professionisti o una terra di confine in cui vecchio e nuovo, povero e ricco stanno vicini in un rapporto di reciproco sostegno. Come se l’uno non potesse fare a meno dell’altro.
Da qualche anno tutta la zona è oggetto dell’attenzione di abili speculatori edilizi. Anche il palazzo dove abitava la nonna, abbandonato nel corso degli anni dagli inquilini che, come lei, avevano preferito le case in cemento della periferia, è stato acquistato e rimesso a nuovo. I lavori di restauro sono in una fase avanzata, tanto che i ponteggi sono stati in parte rimossi ed è visibile la facciata di tufo giallo alternato a zone grigie di cemento, bianche di calce; le ringhiere di ferro battuto, arancione sgargiante per l’antiruggine, sono state ripristinate, il portone di legno massiccio è spalancato e posso muovermi indisturbata nell’androne grande, luminoso, magnifico; le chianche di marmo di Billiemi brillano, i gradini delle scale, in pietra pece appena lavata, sono così lucidi che quasi mi ci posso specchiare. L’emozione mi chiude la gola, resto indecisa tra il pianto e il sorriso, la mia infanzia mi passa davanti agli occhi come un film malinconico.
La figura di nonna Agata mi viene incontro per le scale, con il suo vestito nero, sformato, i suoi capelli radi, grigi, tagliati a caschetto appena sotto le orecchie, il sorriso enigmatico che non lascia trapelare il suo stato d’animo. Mi sembra di vederli tutti, i miei parenti, ognuno al posto suo, dove li incontravo da bambina. Il nonno Sebastiano davanti alla porta del barbiere all’angolo della piazza, con la grossa pancia che gli impedisce di chiudere le gambe, il bastone tra le mani, lo sguardo perso di chi già non ha più ricordi, speranze, sogni. E poi lo zio Vincenzo, il lattaio, tra bottiglie di vetro e lanne di uova, le mani rosse per i geloni provocati dal ghiaccio che preservava la sua crema di latte, golosa conclusione di ogni pranzo di famiglia... Sono tutti qui, nessuno di loro sembra sia mai andato via. E adesso ci sono anche io.
Torno da adulta, una giovane donna piena di speranza, anche se in un angolo della mia anima c’è la voce di nonna Agata che mi rimbrotta: ma che ci sei venuta a fare? Questo è un posto dal quale si può solo provenire. Gliel’ho sentito dire parecchie volte quand’ero piccola, ma cosa volesse intendere allora non lo capivo, e a dire la verità forse non lo capisco neanche adesso.
“Perché non sarei dovuta tornare?” mi dico un po’ in ansia, e cerco di allontanare quel fastidioso grillo parlante... ah, se avessi un martello come Pinocchio, ah, se ci fosse ancora nonna Agata, se potessi chiederle consiglio...
Nella testa affollata di ricordi, emozioni, dubbi si aggiunge la voce di nonna Margherita: se avessi, se potessi, se fossi erano tre fessi che andavano in giro per il mondo.
La mia passeggiata continua nel quartiere della Kalsa, che non ha ancora una nuova identità ma ha completamente perso quella di un tempo. Il forno delle signorine Zummo è chiuso da molti anni, solo l’insegna, scolpita direttamente sulla pietra della facciata, ne testimonia la passata esistenza. Smantellate tutte le vecchie attività commerciali, chiuso il barbiere, il negozio degli alimentari, il tabacchino, spariti gli artigiani, la novità in questa strada piena di ectoplasmi è un bar dalle vetrate lucide, i tavoli d’acciaio e un’insegna ammiccante: COSE DUCI.
Da quando ho lasciato Palermo, in fuga da mia madre e dalla sua freddezza, non c’è stato un solo giorno in cui non abbia sperato di tornare. Sono qui per ricucire i pezzi del mio cuore rotto, per rivivere l’ammaliante bellezza di una città che neanche le speculazioni peggiori sono riuscite ad annullare. Il sagrato della chiesa della Gancia mi compare di fronte all’improvviso in tutta la sua magnifica decadenza. Generazioni di ladri, furfanti, scippatori, ma anche operai, modesti artigiani, impiegati si sono sposati in questa chiesa, hanno battezzato i loro figli, chiesto aiuto nel bisogno, si sono rifugiati in cerca d’asilo. Ora invece il suo portone si apre solo la domenica a orari fissi. Lascio alla mia destra palazzo Abatellis e mi addentro soprappensiero nel quartiere alle sue spalle. La nostalgia è un dolore fisico cui mi abbandono con un sottile piacere. I ricordi sono un mare agitato nel quale per qualche giorno mi piace nuotare.
Tra agenzie, amici, parenti, vecchie compagne di scuola è in corso una specie di gara a chi mi trova la casa più bella e più grande. Ho rivisto zio Nittuzzo e quel che resta della mia famiglia. Mia madre no, e nemmeno i miei fratelli. Dopo la nostra litigata non ci siamo più parlate. Lei non mi ha più cercata e io, distratta da altre cose, a lei proprio non ho pensato. Negli anni di convivenza forzata con mio padre ho dovuto costruire un rapporto con lui dal nulla, ho imparato ad amarlo, l’ho perdonato, ne ho capiti i limiti e apprezzato la grandezza. Pochi mesi dopo la mia laurea, papà se n’è andato, consumato dal lavoro, dall’ambizione, dalla fatica. La sua morte è stato uno strappo senza rattoppi, un dolore acuto, violento, insopportabile per molto tempo.
La mamma era arrivata il giorno del funerale a svolgere il ruolo di vedova inconsolabile e a reclamare la sua parte. Era l’occasione giusta per una riconciliazione, che non c’era stata. Qualche parola di circostanza, un saluto freddo, un abbraccio rapido e sbrigativo con i miei fratelli che l’accompagnavano, poi di nuovo la separazione e la certezza che non ci saremmo più riviste. Le poche parole scambiate con Sebastiano e Alfonso servirono solo a tendere un immaginario filo di unione tra noi, a rendere formalmente meno astioso il nostro allontanamento, ad attenuarne il carattere di irreversibilità.
Mio padre fu sepolto a Palermo, me lo aveva chiesto più volte negli ultimi giorni di malattia. Dopo il suo funerale, a parte un amoretto che si sarebbe esaurito di lì a poco, nulla mi tratteneva più in una città nella quale e con la quale, nonostante gli anni di studio e formazione, non avevo stabilito alcun legame affettivo.
Il senso euforico di libertà che la vita “in Continente” mi aveva trasmesso nei primi tempi era stato presto smorzato da una irrequietezza profonda. La luce pallida e l’aria priva di odori non reggevano il paragone con profumi, colori e sapori siciliani, di cui sentivo la mancanza. La nostalgia era esplosa nella mia anima facendo di me una giovane donna insofferente e insoddisfatta. In questo vuoto esistenziale l’idea di tornare a vivere a Palermo si fece strada nella mia testa. Quella fantasia nata dal nulla diventò presto un progetto.
Per riempire il buco che la morte di mio padre aveva lasciato nella mia vita avevo preso l’abitudine di passare quasi tutto il mio tempo lavorando. Contrariamente alle previsioni pessimistiche di mia madre non solo facevo il medico, ma avevo conquistato una specializzazione impegnativa, ero diventata una ginecologa e – in attesa di avere figli, in accordo con la tradizione che vuole le donne felici solo se prolifiche – aiutavo le altre a partorire. Coprivo volentieri i turni più faticosi, sostituivo di buon grado i colleghi che me lo chiedevano. La sala parto era di sicuro più affollata e più vitale della mia casa. E poi il parto mi commuove. L’eterno ripetersi di dolore e gioia, l’amore che si apre la via tra sangue e sudore ha il potere di esaltarmi, mi riconduce al nucleo essenziale della vita. Entravo in ospedale vuota, secca, e ne uscivo piena, forte, certa che il segreto dell’esistenza fosse lì a portata di mano, dovevo solo allungare il braccio e avrei potuto afferrarlo, possederlo.
Le ore scorrevano veloci tra le visite in ambulatorio, i controlli delle pazienti operate, le ricerche in biblioteca, e colmavano ogni giorno un pezzetto di quel vuoto che la morte di una persona cara apre in chi resta. Il pianto dei neonati ogni volta mi ridava fiducia: nel breve tempo sospeso in cui tutti trattengono il respiro come nell’attesa che la vita si manifesti, celebravo il sacro rito della riconciliazione con il mondo e con me stessa. Più assistevo gestanti più mi persuadevo che anch’io avrei dovuto accogliere la vita così: semplicemente, quasi automaticamente, come un respiro a pieni polmoni.
La notte dell’ultimo dell’anno, mentre le ostetriche preparavano la cena in un momento di calma, con la sala parto più vuota di me, l’idea di tornare a Palermo era un pensiero che non mi lasciava in pace.
“A nessuno ci spercia di nascere questa sera.” Non faccio in tempo a pensarlo che: «Dottorè, la vogliono in accettazione». La chiamata dell’ostetrica è la prova del potere invocativo delle parole. Faccio le scale pregando sant’Agata: “Santuzza mia, fa’ che sia un parto, fa’ che ci sia una vita in giro”.
La trovo accucciata in un angolo, piccola di statura e di costituzione, sembra molto giovane. L’espressione disorientata del viso la fa apparire ancora più fragile e bisognosa d’aiuto. Indossa un lungo vestito beige che la copre come un sacco informe, dalle maniche spuntano le manine ambrate, con dita minute che finiscono in unghie tonde, corte, bianche; un velo, beige anche quello, con piccoli fiori marroni, intonato al colore dell’abito forse per un curioso gesto di civetteria, le copre i capelli e metà della fronte. Non piange, non urla, non si lamenta. È sola, è straniera, è incinta e non parla l’italiano.
“Ti ringrazio, Santuzza, finalmente un po’ di vita! Certo mi potevi mandare una che parla la mia lingua, a questa ora che ci dico?” Ma è meglio che non mi lamenti, nzà ma’, Agatina, il Padreterno si secca e ti toglie quello che hai, la voce di nonna Agata affiora alla mia mente.
«Dottorè, la ricoveriamo?»
«La vuoi mandare a partorire per strada?»
«Dottorè, allora spicciamoci, chi nasce per primo nell’anno nuovo finisce in televisione.»
Si chiama Kadija, il nome lo troviamo sui documenti che tira fuori dalla tasca, è marocchina.
Non serve la barella, anche se è dolorante Kadija ci segue con i suoi piedi fino al reparto maternità al primo piano. Si lascia spogliare completamente, non oppone resistenza, solo quando le tocchiamo il velo protesta energicamente. «Dài, Kadija, non stai più comoda?» Fa cenno di no con la testa.
Poi si lascia visitare, è morbida nelle movenze, nei gesti. Quando arriva il dolore emette dalla bocca un sibilo discreto, prolungato. Il travaglio lo trascorriamo insieme, lei a letto, io seduta accanto su uno sgabello. Ogni tanto cambia posizione, si gira da un lato, poi dall’altro, si poggia sulle braccia, si tira su, poi scivola dolcemente verso il fondo del letto e risale. Ha una pancia piccola e puntuta; una lunga linea scura dall’ombelico al pube che si tende a ogni contrazione. I suoi occhi grandi e neri mi riempiono l’anima. La sua mano cerca la mia, la stringe per suggellare un patto di muta solidarietà tra noi due.
Le minne dure e gonfie, percorse da un reticolo di vene blu e sottili, sembrano sul punto di scoppiare, i capezzoli sono scuri e marcati. Nelle ore di travaglio non mi stacco mai dal suo letto, sono io che ho bisogno di lei. La donna è esile, giovane, eppure emana un potere immenso e io per osmosi, attraverso il contatto fisico con la sua mano minuta, ne assorbo la forza. Un sentimento di affetto mi riempie il cuore a poco a poco. Mi sorprendo a essere grata alla ragazza, alla Santuzza, alla vita.
In questo momento mi è chiaro che devo tornare sui miei passi, percorrere la strada inversa, andare a casa.
Improvvisamente, mentre fantastico sul mio ritorno a Palermo, il respiro di Kadija si fa affannoso, gli occhi si stringono, diventano due fessure, la pelle del viso si contrae in mille minuscole pieghe, la sua mano si stacca dalla mia e si aggrappa al braccio in una silenziosa richiesta d’aiuto.
La visito: la vulva è tesa, tumefatta. La testa del bambino, coperta da capelli e grumi di grasso bianco, burroso, affiora prepotente. Kadija non sibila più, ora emette un suono grave, gutturale, che dalla parte più profonda del suo corpo sale lungo la gola fino alle labbra. L’aiutiamo a spingere. Il velo che le copre i capelli è bagnato di sudore. Le faccio poggiare le mani sulle cosce, le gambe sono piegate sull’addome, il capo sollevato da alcuni cuscini, il mento poggiato sul petto. Le accarezzo la fronte, le asciugo il sudore, le parlo dolcemente, le tengo ferma la testa mentre spinge a denti stretti. Tre, quattro, cinque spinte forti, violente.
La ragazza è così minuta, lo sforzo così grande, sembra quasi che si stia rompendo. Un’altra spinta, la testa del bambino è fuori. Le guance prominenti da criceto, con due linee scure al posto degli occhi che ancora devono aprirsi, le sopracciglia marcate e una piccola sporgenza tonda, il naso, in una faccetta ovale che ispira simpatia e tenerezza, fanno capolino tra le gambe di Kadija. La ragazza ha gli occhi spalancati, le labbra serrate, un suono morbido come di lamento si sente nell’aria, poi anche le spalle sono fuori, il resto del corpo, fino ai piedini incrociati l’uno sull’altro, arriva velocemente. C’è un attimo di sospensione, è il solito sgomento prima che la vita esploda, e poi eccolo, il pianto liberatorio del bambino segue immediatamente il sospiro di tutti noi che abbiamo ripreso aria e gli diciamo: «Benvenuto».
Lo avvolgo in un panno verde, lo porgo alla mamma. Kadija lo attacca al seno, è così giovane e sa già cosa fare, sembra che stia giocando con una bambola; anche suo figlio sa cosa gli spetta e comincia a succhiare quella minna piena di grazia. È la sacra rappresentazione del potere che hanno le donne di salvare il mondo. Ora so che alla vita non ci si può opporre e io, se voglio tornare a essere felice, la devo accogliere nella sua pienezza, respirarla a pieni polmoni, mangiarla a muzzicuni.
Pochi mesi dopo, a primavera, la notizia di un posto di lavoro per me all’ospedale di Palermo. Faccio i bagagli in fretta e furia, pensando di lasciarmi finalmente alle spalle il vuoto. Ma il buco è dentro di me, e la morte di mio padre non ha fatto altro che renderlo ancora più grande.
A Palermo forse dovrei incontrare mia madre, fare con lei la stessa operazione compiuta con mio padre, cercare di comprendere le ragioni del suo comportamento. Non ne sono capace. Ricongiungerm...