L’acqua nella fontana della Barcaccia è topazio azzurro. Piccoli fari bianchi la illuminano dall’interno e la accendono nella notte come una gemma lucente. Piazza di Spagna è ancora gremita. Gruppetti di turisti fanno lampeggiare raffiche di flash su visi dall’aria stupita o contratti nelle smorfie più assurde. Coppiette di innamorati si baciano ai piedi della scalinata di Trinità dei Monti. Un ragazzo con i dread come quelli di Marcos è seduto sui gradini e sta suonando alla chitarra un pezzo di Vinicio Capossela.
Scivola, scivola vai via... non te ne andare...
«Il paradosso dell’amore» commenta Marcos prendendo Francesca per mano. «Spesso, anche se ci si scontra con la realtà, si continua a sognare...»
Il ragazzo attira a sé la ragazza e la bacia delicatamente sulle labbra. Lei non si sottrae. Chiude gli occhi.
«Mi piace Capossela» dice quando li riapre.
Marcos sorride e la trascina su per le scale.
«Tieni il fiato adesso. Sono centotrentacinque gradini per arrivare a Trinità dei Monti!»
Lei scuote la testa ridendo.
«Ho capito... ma chi ci corre dietro? Ehi, rallenta! Hai le gambe più lunghe tu! Non vale...»
È l’incanto di un momento spensierato. Ritagliato come un miracolo in un orizzonte pieno di ombre. Lo avvertono entrambi. E vorrebbero che non finisse mai. Francesca si sente leggera mentre arranca dietro a quello spilungone dai capelli arruffati che le ha rapito il cuore. Allora accade anche così, pensa: la felicità si può far strada in mezzo a viottoli oscuri, sbucare improvvisa dall’angolo più cupo e coglierti alla sprovvista. Già, perché ormai ti eri quasi affezionata all’idea di essere infelice e sfortunata. Ti eri convinta che l’amore era solo un’utopia.
Ed è come se Marcos le leggesse nel pensiero, perché si ferma a metà della rincorsa e la abbraccia forte. Questa volta è un bacio appassionato, lungo, che sembra non debba finire mai.
Finché un ubriaco li urta barcollando su per i gradini. «Evviva l’amore!» esclama l’uomo soffiando addosso a Francesca il suo alito intriso di birra.
Marcos ricomincia a correre per quelle scale che si spalancano su Roma come petali intorno alla corolla di un fiore. Una tiepida brezza accarezza i capelli. E c’è sempre quella canzone che li insegue.
Scivola... via da me...
Giunti davanti alla chiesa di Trinità dei Monti hanno entrambi il fiatone, ma Marcos non si ferma ancora. È eccitato, cammina veloce. Tira Francesca giù a capofitto lungo la discesa del Pincio.
«Ecco siamo arrivati. Questa è la sede del Laboratorio di Restauro vaticano.»
Francesca alza lo sguardo su un portone scuro che le pare un’enorme bocca spalancata. In effetti, a meglio osservare, è proprio così. La porta è infatti inserita in una grande cornice di pietra grigia che ha davvero la forma di labbra stilizzate. E sopra, al posto del timpano, c’è un decoro che assomiglia a un piccolo naso da cui spuntano due occhi.
«È inquietante questa facciata, vero?» le chiede Marcos. «O forse farei meglio a dire “faccia”? È tipica di un gusto barocco portato all’esasperazione. Lo sai che quando mio padre mi portava qui da piccolo io avevo sempre paura di oltrepassare questa porta? Temevo che mi inghiottisse in un boccone!»
«Ci credo. È terrificante!»
«E papà, che amava alimentare la mia fantasia, mi raccontava una filastrocca su un orco gigantesco che abitava in un vecchio palazzo e divorava i bambini piano piano. Al primo morso faceva una cosa e al secondo un’altra... non ricordo più... però era davvero sadico a pensarci bene...»
«Vabbè, ma tutte le fiabe sono un po’ sadiche» commenta Francesca sollevando le spalle.
«Comunque è da qui che dobbiamo passare. Sei pronta a valicare queste fauci minacciose?»
«Io sì. Ma il portone sembra piuttosto robusto... e soprattutto chiuso.»
«Non c’è problema.» Marcos suona a un paio di campanelli. «Ci sono anche alcuni appartamenti abitati. Basta svegliare qualcuno.»
Un coro di voci assonnate risponde e Marcos imperterrito inscena la sua parte.
«Mi scusi per l’ora. Sono Vannozzi del terzo piano. Ho perso la chiave...»
Il citofono scatta e i due sono dentro a un androne nero come un pozzo che si affaccia su un cortile interno dominato da una grande palma. Marcos lo attraversa e si dirige verso una porta sulla sinistra. È aperta.
«Vieni. Il laboratorio ha i suoi uffici al piano rialzato.»
«Ma scusa» Francesca all’improvviso appare perplessa, «come mai non si trova nella Città del Vaticano?»
«Prima della Seconda guerra mondiale la sede era in effetti in Vaticano, ma nel 1943 un aereo americano bombardò la Città pontificia e il palazzo in cui si trovava il laboratorio venne distrutto. Così fu trasferito in questo edificio di proprietà della Chiesa e da allora è sempre rimasto qui. Comunque l’équipe di Rosselli esegue moltissimi restauri anche in loco, cioè all’interno dei Musei Vaticani... diciamo che questa è la sede ufficiale, di rappresentanza. Ed è qui che mio padre trascorreva la maggior parte del suo tempo.»
Francesca lo ascolta mentre percorrono i corridoi del palazzo.
«E questa come la apri?» chiede quando si ritrovano davanti alla porta d’ingresso degli uffici. «Ora non puoi recitare la parte di quel tal Vannozzi del terzo piano.»
«Niente paura. Se siamo arrivati fin qui...»
Marcos tira fuori dalle tasche dei jeans una forcina per capelli e una vecchia tessera di Blockbuster.
«Non vorrai noleggiare un film di scassinatori adesso?» lo prende in giro Francesca.
«Taci, donna di poca fede.»
Il ragazzo infila la forcina nella serratura e contemporaneamente fa scivolare la tessera nello scatto della porta.
«Ma sei sicuro che non ci sia nessuno?»
«Quasi... da quel che ricordo il custode fa un ultimo giro alle undici e poi se ne va a dormire. C’è l’allarme, ma credo di sapere come si disinserisce, se la memoria non mi inganna.»
Proprio in quel momento la serratura si apre con un clic che alle orecchie dei ragazzi pare musica.
«Ehi! Dove hai imparato?»
«Clò, il mio coinquilino, prima di diventare un “artista globale” e di imbrattare muri a suon di rap, ha avuto alcune grane con la giustizia.»
«E ti ha insegnato qualcosa...»
«Già. In qualche sera in cui eravamo più fumati del solito mi ha rivelato alcuni suoi trucchetti.»
Francesca storce il naso alla parola “fumati”.
«Tranquilla. Ho smesso del tutto. Anche con le normali sigarette.»
«Però sai ancora come si apre una serratura...»
«E meno male.»
Appena mette piede nel laboratorio Francesca viene colta da una zaffata pungente di svariati odori: vernice, colla, resina, colori a olio e acquaragia. È un miscuglio olfattivo che trova gradevole e le ricorda al contempo un colorificio e una lavanderia.
Marcos accende la pila che si è portato dietro e armeggia freneticamente con l’antifurto per un po’. Finché tira un sospiro di sollievo e sorride alla ragazza, che lo ha osservato terrorizzata per tutto il tempo.
«Anche questa è fatta!»
«Perché non accendi la luce?»
«Non vorrei che filtrasse dagli scuri e attirasse l’attenzione di qualcuno.»
Punta la pila sulla statua romana di un possente doriforo, rimasto purtroppo senza lancia e senza braccia, poi fa luce su un grande arazzo con scene di caccia appeso a una parete. Apre con circospezione un paio di porte che si affacciano sull’ingresso, sbircia all’interno e quindi si dirige a grandi passi lungo un corridoio. Francesca lo segue un po’ intimidita finché il ragazzo spalanca l’ultimo uscio sulla destra e rimane esitante sulla soglia.
«Ecco dove lavorava mio padre. È passato così tanto tempo...»
«È qui che tu e Beatrice vi siete incontrati con Santi?»
«No. Gianlorenzo ha preferito vederci in uno studio privato adiacente a casa sua, dove lavora come consulente di grosse fondazioni e di musei.»
«Da quanto non venivi qui allora?»
«Anni...»
Marcos respira a pieni polmoni l’aria un po’ stantia della stanza. Sa di chiuso, ma conserva ancora un profumo familiare.
«Adesso ci lavora un collega, ma i mobili sono gli stessi.»
Il ragazzo accarezza la scrivania in noce su cui è posata una pala d’altare dal fondo dorato che raffigura una Madonna col bambino. Poi si avvicina a un secrétaire del Settecento collocato sotto alla finestra. Resta a osservarlo per alcuni istanti senza dire nulla.
«Questo... questo me lo ricordo!» esclama alla fine, come colto da una rivelazione. «L’aveva restaurato papà agli inizi della carriera e se l’era portato qui. Gli piaceva molto. Diceva che era pieno di sorprese...»
Marcos apre il ripiano ribaltabile e svela a Francesca la serie di minuscoli cassetti interni. Uno, quello centrale, è più grande degli altri e ha una serratura. Con mano tremante Marcos avvicina la chiave. Entra perfettamente.
«Eccola. È lei!»
Il cassetto si apre. È vuoto, foderato di velluto rosso. Lui smuove con mano decisa il velluto su un lato, si fa spazio per infilare l’indice tra la stoffa e il legno, ed estrae da quel piccolo nascondiglio un bigliettino.
«È la grafia di mio padre» mormora con un filo di voce. Legge: «“Al primo morso ti spoglierà dei tuoi eleganti vestiti, al secondo affonderà i suoi denti appuntiti e al terzo...”».
Si siede sulla poltroncina in pelle dietro alla scrivania. Ha un’espressione sbigottita negli occhi.
«Ma cosa significa?» chiede Francesca disorientata.
«È la filastrocca di cui ti parlavo prima. Quella dell’orco che mangia i bambini... ma non ricordo più cosa accadeva al terzo morso.»
«Forse non ha importanza.»
«Cosa vuoi dire?»
«Che forse conta solo l’indicazione numerica... e il valore simbolico del “morso”. A cosa poteva alludere tuo padre con l’espressione “terzo morso”?»
«Boh... non saprei...»
«Cosa facevate mentre ti raccontava quella filastrocca?»
«Di solito lui iniziava a recitarla quando salivamo quei pochi gradini che portano qui al piano rialzato. Gli piaceva canticchiarla al ritmo dei nostri passi e così al primo gradino lui minacciava il primo morso, al secondo... un momento! Il terzo morso allora potrebbe indicare...»
«Il terzo gradino!» esclamano tutti e due insieme folgorati dalla stessa intuizione.
In un attimo sono fuori dal laboratorio. Si inginocchiano con le mani protese a tastare, toccare, premere il terzo scalino. Dopo vari tentativi Marcos riesce a staccare il rivestimento marmoreo laterale esterno e individua una nicchia abbastanza profonda per contenere qualcosa. Ci infila una mano in preda all’entusiasmo.
«C’è qualcosa!»
Estrae un piccolo cilindro metallico del diametro di quattrocinque centimetri. Gli tremano le mani mentre lo apre. Subito, dal contatto con quella carta ruvida e un po’ sgranata, capisce che si tratta di un documento antico. Lo srotola. Legge ad alta voce, emozionato.
Ottobre 1530
Francesco, amico caro,
quanto son lunghe ...