(sino a quant’altro, e oltre)
Il gioco e le regole
Una bella mattina, invece di incominciare a lavorare, mi misi a compilare una lista, che ora riproduco nella sua versione originaria:
Come dire
Voglio dire
Di tutto, di più
Non me ne può fregare di meno
Non dimentichiamoci che
Vero è
Altro è
Quello che è
X piuttosto che y piuttosto che k
In automatico
Non se ne può più
Non solo... (nelle insegne dei negozi: Non solo pizza..., Non solo scarpe...).
Un Lucano! (risposta alla domanda: “Cosa vuoi di più dalla vita?”).
...
I tre punti di sospensione al termine dell’elenco non erano uguali: ognuno dei tre aveva un significato distinto.
Il primo punto diceva che già dopo tredici esempi avevo voglia di chiudere, vuoi per noia, vuoi per timore di addentrarmi ulteriormente in una materia che indovinavo scabrosa. “Non se ne può più!”
Il secondo punto ammetteva che la lista non era affatto chiusa.
Il terzo punto mi invitava a trovare un modo per proseguire.
A quell’ora dovevo assolutamente mettermi a lavorare, ma scoprii che la lista stessa poteva prendere un aspetto professionale, dato il lavoro che faccio io. Il mio lavoro principale si chiama Lessico e Nuvole ed è una rubrica quotidiana (su Internet: repubblica.it) e settimanale (sul “Venerdì di Repubblica”) di giochi con le parole, fra me e i lettori. “Fra me e i lettori” significa che ci scriviamo: ci sono due indirizzi (uno per la posta di carta, l’altro per la posta elettronica) a cui i lettori possono inviarmi gli esempi dei giochi che propongo, le loro invenzioni, tutto quello che ritengono opportuno mandarmi. Quando posso, rispondo privatamente; quando è il caso, cito lettere ed e-mail in rubrica.
Normalmente si tratta, appunto, di giochi: cose come gli anagrammi, i palindromi, i tautogrammi. Ma il bello di un simile lavoro è che i suoi confini li decido io, il giorno che dovessi putacaso ipotizzare che comporre un curriculum vitae o cantare l’Aida in cinese è un gioco con le parole non è che qualcuno mi possa impedire di parlarne su “Lessico e Nuvole”. Quindi quella mattina non ebbi bisogno di particolari giustificazioni neanche per invitare i miei lettori a giocare alla collezione di tormentoni, ovvero di quei modi di dire che ci troviamo a ripetere senza neppure sapere bene perché, e senza poterne sempre indicare la provenienza (che pure a volte è esplicita, per esempio pubblicitaria).
Peraltro, se anche mi venisse chiesta, la giustificazione l’avrei: ne avrei addirittura due. La prima: tutte le collezioni sono giochi; la seconda: tutti i tormentoni sono (anche)(da un certo punto di vista) giochi.
Quando si vuole contrabbandare qualcosa come se fosse un gioco, poi, c’è un espediente molto efficace per non dare nell’occhio: scrivere subito delle regole. Le regole, le regole! Sarà che sono abbastanza anziano da ricordarmi il periodo della segreteria democristiana di Ciriaco De Mita (il quale menzionava “le regole” con più frequenza e compunzione professionale di un ginecologo di inizio Novecento), ma a me la superstizione delle regole fa molto ridere. In Italia, poi. L’idea che non ci sia gioco senza regole già mi pare balzana (qual è la regola del flipper, “Insert Coin”?); ma il sillogismo per cui “se ci sono le regole allora è un gioco” è ancora più fallace: funziona quanto “se uno è mortale allora è un uomo, anzi allora è Socrate”.
A ogni buon conto, mi sono preoccupato subito di dare delle regole al gioco dei tormentoni, gioco a cui, a ogni buon conto (e purtroppo) l’onorevole De Mita non ha mai ritenuto di partecipare:
Nel proporvi di fare assieme questa collezione chiarisco bene le regole di ammissione dei modi di dire:
1. Sono ammessi modi di dire che siano realmente e documentatamente ripetuti, non da una sola fonte.
2. Non sono quindi ammesse battute o stravaganze che siano state dette una volta sola, o che siano tipiche di una cerchia ristretta di persone.
3. Il tormentone deve essere in uso attualmente: “Eh, che maniere” di Calimero oggi non vale, come non vale il pur longevo: “Più lo mandi giù, più ti tira su”. [Nota 2010: il gioco poi si è esteso anche nell’orizzonte storico, quindi si è creata una sezione apposita per i tormentoni del passato].
4. Sono apprezzate le annotazioni sulla provenienza o la data di nascita del modo di dire. Per esempio, di quelli che ho elencato nella lista preliminare, il “Piuttosto che” usato alla come viene viene io l’ho sentito la prima volta nei primi anni Novanta; il “Non me ne può fregare di meno” non so da dove venga (penso che sia un uso romano) però sono sicuro di averlo sentito la prima volta nel 1996; “Di tutto, di più” era una pubblicità della RAI direi sempre negli anni Novanta (o ancora prima?); “Non solo x” dovrebbe provenire dalla rubrica televisiva “Nonsolomoda”.
I contributi alla collezione
Per dare un’idea di come si svolgono certi scambi di figurine fra me e i lettori, ripesco dal mazzo delle primissime e-mail arrivate a quell’epoca un corposo intervento di Maria Galantini, una lettrice che aveva subito interpretato con molta serietà le regole del gioco:
Su “Non me ne può fregare di meno”: penso anch’io che sia un uso romano (per lo meno, qui a Roma si usa molto) e, non so perché, ho la sensazione che sia nato da qualche film sul genere di quelli dei fratelli Vanzina: una frase del genere la vedrei bene pronunciata da Christian De Sica o Gigi Proietti… Quanto alla data di nascita: tu scrivi: “Sono sicuro di averlo sentito la prima volta nel 1996”, ma dovrebbe essere leggermente precedente. Infatti io ricordo di averlo sentito dire in ufficio ed ho smesso di lavorare nel 1995. Questo confermerebbe oltretutto l’origine romana.
Di “Non me ne può fregare di meno” parleremo certo ancora (nel capitolo 6).
Ma intanto... La prima retrodatazione! All’epoca ero molto commosso dall’evento: funziona sempre così, anche per i dizionari che oramai in gran parte riportano una data per ogni parola, in attesa che qualcuno trovi testimonianze anteriori del suo uso. Io conosco una retrodatazione: la voce enigmistica è datata 1901 da tutti i dizionari, ma ne esiste un’attestazione nel 1894.
Proseguiva Galantini:
“X piuttosto che y piuttosto che k”, invece, è tutta vostra, nel senso che, almeno per quel che mi risulta si usa solo a Milano e/o in Lombardia.
Qui entriamo nel campo dell’opinabile. Io, nel 1996, “Non me ne può fregare di meno” l’avevo appunto sentito da una signora (insomma) romana; “Piuttosto che” mi sembra dilagare ovunque, anche se non posso escludere che l’epicentro dell’irradiazione sia lombardo.
Seguivano alcune proposte della lettrice:
“Quant’altro” nel senso di eccetera
I suffissi “-poli” “-gate” per indicare qualche faccenda poco pulita (l’origine è evidente)
“Sopra le righe”
“Una manciata di secondi”. Io l’ho sentito dire la prima volta da Enrica Bonaccorti nella trasmissione televisiva “Italia sera” del 1983
(Secondo me, invece, “Una manciata di secondi” viene dalle telecronache per esempio di Bruno Pizzul).
“Tipo”. Di questo non sono sicura: i miei figli lo dicono molto spesso, (ad esempio la frase che ho scritto qui sopra, loro l’avrebbero detta: “ho tipo la sensazione che sia nato da qualche film tipo fratelli Vanzina”) ma non so se sia da considerarsi gergo dei giovani romani o vero e proprio tormentone. Se lo fosse, penso che l’origine potrebbe essere nei libri e nei film di Paolo Villaggio con protagonista Fantozzi (in questo momento mi vengono in mente solo i “dolori tipo-parto”).
Bel colpo, Fantozzi. C’è anche Elio e le Storie Tese con “dei giornali tipo Lando” (Supergiovane) e Claudio Bisio con “sopra un’isola deserta tipo ci hai presente due chilometri di spiaggia vuota” (Rapput); secondo me non è un modo di dire particolarmente romano. Oltretutto si incrocia con tipo (e tipa) sostantivo, che io a Milano ho incominciato a sentire, e forse anche a usare, nella seconda metà degli anni Settanta.
Fraseologia standard:
“ehi, tipo!” (esclamazione anche polemica, in caso di controversia occasionale, da bar, “ehi, tipo, giù le mani dal nickel”, non toccare i soldi; sostituisce il milanese “ehi, nano, giò i man del nikel”, usato di preferenza nei confronti di giovanotti ancora nel periodo della crescita; vedi anche Dario Fo, con Franco Parenti e Giustino Durano “Poer nano”, povero ometto);
“e allora il tipo mi fa: ...”: tipica introduzione del discorso diretto quando si riferisce un dialogo, specie se poi sfociato in diverbio;
“chi c’era l’altra sera?” “un po’ di gente, è venuta anche la Giusy col suo nuovo tipo” (tipo = boyfriend, relazione occasionale ovvero destinata a sfociare in un fidanzamento conclamato).
Questo uso di tipo/tipa parrebbe ancora vitale, almeno a giudicare da Servi della gleba ancora di Elio e le Storie Tese: “Allora come è andata con la tipa?” (incominciano a moltiplicarsi i riferimenti alla band milanese, dovuti non solo alla mia devozione personale ma anche alla, mi pare, oggettiva sua capacità di enucleare tormentoni gergali).
Dati i due usi, non sono impensabili battute come “ehi tipo, tipo che mi faresti accendere?”.
Arrivati a questo punto, la lettrice Galantini cambia filone:
Questo, invece, è un altro genere di tormentoni: sono coniati e usati soprattutto dai giornalisti televisivi (hai notato che ora nessuno li chiama più “mezzibusti”? un tormentone superato?): si tratta di perifrasi standard che qualcuno ha inventato e che tutti gli altri continuano a usare:
Colletti bianchi (nota mia: è il titolo di un classico della sociologia, White collar. The american middle classes, Charles Wright Mills, 1951, tradotto come Colletti bianchi nella storica collana “Nue” di Einaudi).
Tute blu
Incrociare le braccia
Bagno di folla: possibile che ogni volta che il Papa o un altro personaggio noto va in mezzo alla gente non ci sia un altro modo per dirlo?
Italia divisa in due: che sia un incidente ferroviario o sull’Autosole, che siano condizioni climatiche differenti tra nord e sud, per il TG l’Italia è sempre “divisa in due” (nota mia: succede anche dopo elezioni politiche).
La colonnina di mercurio
Sui mezzibusti va annotato che si tratta di una parola d’autore: l’ha coniata, o almeno impiegata per la prima volta in questa particolare accezione, Sergio Saviane, indimenticato critico televisivo dell’“Espresso”, inventore di una quantità di neologismi (non proprio come Gianni Brera per il calcio e lo sport in genere, ma quasi). È vero che non si usa più, anche perché oramai quasi sempre non vediamo più i conduttori dei TG sempre e soltanto a mezzobusto, ma si alzano in piedi (per esempio, per dire i titoli). All’epoca, un mezzobusto avrebbe potuto avere la parte inferiore del corpo come quella di un cavallo, o di una sirena, senza che il telespettatore potesse mai sospettarlo.
Anche qui ci vorrebbero i tre punti di sospensione, perché ogni esempio sembra portarsene dietro mille altri possibili. La “Colonnina di mercurio”, certo. Ma allora perché non la “Tradizionale gita fuori porta”, la “Prova-costume”, le “Città d’arte prese d’assalto” e tutte quelle altre frasi che abbiamo nell’orecchio da anni e non ci hanno mai devoluto neppure un umile bit di informazione? È possibile ambire al compito di trascriverle tutte o è come pensare di svuotare il mare con un secchio?
A rileggere quei primi appunti, mi trovo nella condizione di spirito di uno che esce di casa, prende la strada che fa tutte le mattine per andare a comprare il giornale ma in realtà quella mattina è uscito con l’idea di intraprendere tipo il giro del mondo a piedi.
A trecentosessanta gradi. Tormentone che intende esprimere una totalità non limitata di orizzonti. A volte scade nel delirio sincretico spazio-temporale di: “A trecentosessantacinque gradi”. Molto comune, e non sempre avvertito, l’errore: “Ha completamente ribaltato la prospettiva, ha invertito la rotta di trecentosessanta gradi”; quest’ultimo è un tipico errore da rifiuto del sapere scientifico, assieme a “Minimo comune denominatore” (in matematica hanno senso solo il Massimo comune denominatore o il Minimo comune multiplo) o: “Per la Legge d...