L'ultima notte a Madrid
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L'ultima notte a Madrid

  1. 516 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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L'ultima notte a Madrid

Informazioni su questo libro

Due donne, due mondi, due modi diversi di guardare alla vita. E all'amore. In un affresco emozionante della Spagna del dopoguerra.
È l'estate del '39 e durante le vacanze si intrecciano le vite di due giovani, travolti da una passione bruciante, da un amore tenace come la roccia delle montagne della sierra. Jimena e Luis si riconoscono e si desiderano. Ma tutto sembra congiurare per separarli: la differenza di origini sociali (lei proviene da una famiglia contadina, lui dall'ambiente sofisticato dell'alta borghesia) e il vento impetuoso della Storia che sta sgretolando intorno a loro il mondo come l'hanno sinora conosciuto. Jimena e Luis si sposano. E la decisione di andare insieme a Madrid, nella città lacerata dal franchismo e dalla guerra civile, sembra mettere ancor più a repentaglio il loro futuro¿
Un'altra donna sogna e si strugge, nei Paesi Baschi sfiorati dalla monarchia e oppressi da un'intransigente morale cattolica. Anche María Topete incontrerà l'amore ma una svolta improvvisa, destinata a forgiarle per sempre il carattere, cambierà ogni cosa. E così María e Jimena, tanto diverse, ma incrollabili entrambe, incroceranno le proprie strade. E non sarà l'amore di un uomo a dividerle, ma l'innocenza negli occhi di un bambino¿

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804620877
eBook ISBN
9788852025419

Terza parte

1

Pochi giorni dopo la vittoria e l’entrata dei nazionalisti a Madrid, María Topete Fernández si presentò al carcere di Ventas. Quel luogo orribile era diretto da Carmen Castro Cardús, ex allieva dell’Institución Libre de Enseñanza, di famiglia progressista e simpatizzante di Azaña.
María la conosceva. Carmen era una maestra teresiana e aveva ottenuto il posto di guardia penitenziaria perché insegnava alle elementari. Durante la guerra aveva ricoperto un ruolo chiave, frenando gli eccessi dei miliziani ogni volta che poteva. Aveva impedito il rastrellamento che i rossi volevano fare al carcere di plaza Conde de Toreno, per portare via María e le altre signore aristocratiche e borghesi. I particolari di quelle e altre imprese di Carmen Castro, come l’intervento per salvare le religiose o la comunione che impartiva di nascosto nel carcere Las Comendadoras, erano stati riferiti da Felix Schlayer ai sostenitori del golpe militare ospitati nel rifugio norvegese. Altre voci provenivano dalle detenute che la maestra era riuscita a salvare e che erano arrivate negli appartamenti di calle José Abascal.
Fu proprio la giovane direttrice a sponsorizzare la domanda di María, perché potesse entrare ad aiutarla nel campo di concentramento che Ventas era diventato. María aveva chiesto di prestare servizio come volontaria, ma le guardie penitenziarie che erano lì da sempre la guardavano storto. Così come guardavano storto tutte le altre donne della sua classe che si proponevano di fare altrettanto. Presto però, anche se non a pieno regime, María cominciò a dare una mano nella grande prigione, piena zeppa di donne che cercavano di mantenere la dignità ma che in lei facevano solo riaffiorare il disprezzo provato quando erano state le sue carceriere. Com’erano cambiate le cose!
Carmen e María facevano a gara in quanto a religiosità – María ammirava Carmen, perché aveva avuto il coraggio di prendere i voti, come le sorelle, anche se in un altro ordine –, amore per l’alzamiento ed entusiasmo per i valori cattolici e per quelli nuovi, basati sulla predicazione della Falange Española, volti a correggere o punire le migliaia di donne traviate. Dopo non pochi sforzi, e considerato l’affollamento del carcere e l’aiuto di cui la direttrice aveva bisogno, una circolare del febbraio 1940 riconobbe ufficialmente il lavoro di María in prigione, pur non tenendo conto del periodo in cui aveva lavorato come volontaria.
La secondina Topete Fernández entrò con il titolo di insegnante di laboratorio e responsabile dell’ordine. Sin dal principio si era dedicata a organizzare alcuni corsi, pur senza avere a disposizione spazi e materiali. E, soprattutto, aveva cercato di mettere ordine tra quelle rosse incivili che in un primo momento erano state mescolate con prostitute e ladre, nelle stesse celle.
In quel caos, a poco a poco, le repubblicane cominciarono a raggrupparsi: undici o dodici in ogni cella, progettata per contenerne due. Le piastrelle venivano suddivise, come tavolette di cioccolato, in piccoli spazi per dormire. Carmen Castro chiudeva un occhio, perché se permetteva alle prigioniere politiche di stare insieme, quelle avrebbero provocato meno disordini.
I criteri di María erano diversi. Adesso che il suo nuovo lavoro, con l’incarico ufficiale, era sancito nero su bianco, intendeva occuparsi dei bambini delle repubblicane. Quanto alle madri, doveva fare ricorso ogni giorno alla carità cristiana e cattolica per mitigare il ribrezzo che provava nei confronti di quelle donne libertine.
Dopo la morte dei genitori e della sorella piccola e l’allontanamento dei fratelli – alcune delle sorelle nelle congregazioni del Sacro Cuore, i maschi sposati –, María aveva smesso di abitare nell’appartamento di famiglia in calle Lista. Ora viveva con la sorella Blanca al numero 15 di calle Velázquez.
Quando tornava a casa la sera, María si sentiva miserabile e colpevole per i sentimenti che le suscitavano le prigioniere. Però si consolava pensando che le donne recluse erano il risultato del veleno inoculato da individui come la Pasionaria. Il ricordo dell’intervento della comunista nel cortile del carcere di plaza Conde de Toreno le faceva ribollire il sangue. Tutte quelle donne che nei tre anni di guerra si erano comportate come virago, che a volte avevano combattuto accanto agli uomini, viziose che godevano del sesso senza neanche passare in chiesa, che avevano figli che avrebbero allevato nei peccati dell’inferno, non meritavano la sua considerazione.
Le sue più intime convinzioni erano incoraggiate da un personaggio che María ammirava da tempo: Antonio Vallejo-Nágera. L’illustre psichiatra militare, l’uomo che aveva già studiato le tare dei marxisti sui prigionieri delle Brigate Internazionali e sulle donne del carcere di Malaga, fu invitato a tenere alcune lezioni presso l’Istituto di Studi Penitenziari.
María era tra le funzionarie che assistettero alle conferenze. Grazie all’indottrinamento dello psichiatra militare, legittimato da Franco, María rafforzò i propri sospetti: i rossi avevano “complessi psicoaffettivi”, secondo l’espressione del militare medico. Complessi che “sfasciano la patria [...], di risentimento, rancore, inferiorità, emulazione invidiosa, arrivismo ambizioso e vendetta”. María si meravigliava che il colonnello Vallejo-Nágera avesse rilevato tutti quei problemi. Pur avendoli intuiti, lei non sarebbe mai stata in grado di teorizzarli in modo corretto.
Era l’ambiente esterno in cui quegli esseri crescevano che portava alla degenerazione della razza, dell’hispanidad. Lo psichiatra esponeva tutto ciò in un libro che era capitato in mano a María: La locura y la guerra: psicopatología de la guerra española. La donna si era incisa nella mente, dopo averlo copiato pari pari, uno dei paragrafi affrontati dallo psichiatra negli appunti esposti ai funzionari penitenziari.
Abbiamo già esaminato in altri lavori l’idea dello stretto rapporto tra marxismo e inferiorità mentale [...]; la dimostrazione delle nostre ipotesi ha una grande importanza politico-sociale, perché se in ambito marxista militano di preferenza psicopatici antisociali, com’è nostra opinione, la segregazione di tali soggetti sin dall’infanzia potrebbe liberare la società da una terribile piaga.
Per salvarli bisognava, quindi, separare i figli delle rosse dalle madri, allontanarli dai genitori. Perché quelle disgraziate che avevano procreato senza pudore i figli che lei non avrebbe mai potuto avere non li avvelenassero. María sentiva che Dio l’aveva chiamata a questo compito, come spiegava alla sorella, suor Amalia, che era tornata al convento di calle Martínez Campos. Amalia, più energica che mai nell’organizzare e sovrintendere al ritorno delle schiave provenienti da Roma, ascoltava la sorella con attenzione, vista la baldanza e il fervore con cui María si dedicava al nuovo lavoro.
Una sera d’estate, a pochi mesi dalla vittoria, María trovò una busta consegnata a mano nella portineria di casa sua. Era della vecchia conoscente Elvira Pérez de Santos. La donna si trovava a Cercedilla e la invitava a trascorrere una domenica da lei. In alternativa, chiedeva di essere ricevuta a casa di María, anche a costo di lasciare per qualche ora la casa di Cercedilla. Doveva parlarle di una questione molto importante e chiederle un favore.
María non provava particolare simpatia per la signora Elvira. Quella donna aveva commesso una serie di errori nella sua vita, come sposare Martín Masa, professore dell’Institución, nido di repubblicani e comunisti, che se non fosse morto prima della guerra, probabilmente l’avrebbe lasciata vedova comunque. E non aveva saputo educare i figli. Il maggiore si era dileguato ed era un noto comunista, e quello minore aveva una posizione ambigua, si preoccupava soltanto degli affari e cercava di andare d’accordo con tutti, come i grandi commercianti.
María, però, ricordò che era stata Elvira a farle scoprire per caso la profondità del pensiero dell’ammirato Vallejo-Nágera e ad agire come quinta colonna e corriere, recapitando posta e buste importanti all’Ambasciata norvegese. L’avrebbe ricevuta. Non poteva fare altrimenti. Tuttavia, vista la situazione in cui versava Ventas, con le funzionarie sommerse di lavoro, la Topete non poteva permettersi di andare a Cercedilla. Elvira sarebbe dovuta venire a casa sua. Di sicuro la donna si godeva i benefici dell’alzamiento pavoneggiandosi nella sierra madrilena e nelle proprietà recuperate, invece di prestare aiuto in quella Madrid calda come un forno, dove c’era così tanto da fare.
Elvira Pérez de Santos si presentò a casa delle sorelle Topete una domenica pomeriggio. Per riceverla, María e la sorella Blanca avevano rinunciato a una visita alle care Amalia e Rosita. Approfittavano dei pomeriggi domenicali, con le altre sorelle, per organizzare il laboratorio di sartoria del mercoledì, come avveniva prima della guerra e come sarebbe stato per sempre. Le schiave aiutavano María a trovare un modo per mettere ordine nel caos dei laboratori di Ventas, dove c’era un buon numero di sarte, ricamatrici e donne in grado di tagliare e cucire. Anche se a volte, quando María trovava una prigioniera repubblicana su cui poteva contare per imporre un po’ di disciplina, i prelevamenti notturni la privavano di quella ricamatrice, le cui mani finivano per diventare inermi e fredde, rigide, contro il muro del Cimitero dell’Est. Le sartine erano state contagiate in larga misura dal veleno marxista, si rammaricava María parlando con le schiave.
«E dire che alcune hanno mani d’oro! Ma sono deboli di carattere e prive di fede.»
Per non arrivare a mani vuote, Elvira era passata all’Embassy a comprare dei pasticcini.
Blanca, impeccabile, aprì la porta. Mentre la baciava e si toglieva la raffinata giacca di cotone perlé, Elvira ammirò il suo portamento. Assomigliava a María, ma era più minuta. Ed era graziosa. Perché quelle donne non si erano sposate? Sette sorelle, tutte nubili. In realtà, o erano sposate con Cristo o con il regime. Ma che classe! Elvira la invidiò, consapevole che lei, per quanto spendesse in buone stoffe e in sarte, non avrebbe mai avuto altrettanto stile.
“Dev’essere innato” pensò Elvira, che aveva sempre desiderato essere un po’ più alta e avere i fianchi meno ingombranti. E le gambe più lunghe, le caviglie più sottili. E di essere meno golosa. I figli avevano preso l’aspetto del marito; Luis aveva gli occhi verdi del padre, Ramón quelli color miele di Elvira. Erano attraenti. Sì, più che belli. Molto attraenti, sorrise con orgoglio materno.
Blanca la accompagnò nel salottino. Era accogliente e ben ammobiliato, con centrini e pizzi fatti da mani capaci, senza dubbio donati dalle schiave. Le sorelle Topete non avevano molto denaro. A quanto sapeva Elvira, vivevano con lo stipendio di María e quello che guadagnava Blanca cucendo per le suore. Ma l’appartamento, poco più di cento metri quadri, al sesto piano, era luminoso e gradevole. Di sicuro le poltrone isabeline erano un’eredità di famiglia, come alcuni degli altri sobri mobili di mogano, vivacizzati dal bianco dei centrini inamidati e immacolati che proteggevano i tessuti.
«Grazie, Elvira. Non dovevi disturbarti.»
María si avvicinò dalla poltrona, davanti alla finestra, per prendere i dolci e passarli a Blanca. Guardò Elvira, che le arrivava alle spalle, dall’alto in basso.
«Ti trovo in forma! Si vede che nella sierra state bene e che il clima è più salutare. Avrete buon latte di vacca. E verdure fresche.»
Elvira era troppo lenta di comprendonio per cogliere l’ironia della funzionaria, che tutti i giorni si crucciava della mancanza di cibo per i neonati. Soprattutto di latte. Per di più le secondine dovevano nascondere le carenze all’esterno. Il mercato nero spadroneggiava nella capitale, nonostante le nuovissime tessere annonarie. Era come un cancro, e Franco e il suo governo vi erano intrappolati. Molti militari e alti funzionari trafficavano in alimenti, cosa che faceva uscire dai gangheri María.
«Ebbene sì. Grazie a Dio e al nostro Caudillo, le cose stanno tornando a posto. Anche se dovremo aggiustare i danni fatti da quell’orda marxista. Ma con la fede nel nostro Generalissimo, tutto si sistemerà.»
«Immagino che volessi dire anche con la fede in Dio, no?»
«Certo, certo. Mi chiedevo se avevate già recitato il rosario.»
Blanca interruppe la conversazione. Aveva portato una brocca con due bicchieri su un vassoio coperto da un panno bianco, bordato di pizzo, ed era rimasta in piedi.
«Vi ho portato il malto, ora me ne vado.»
«Ma come, non mangi un pasticcino?»
«No, se mai quando torna» rispose María per Blanca. «Sì, per favore. Passa in chiesa e di’ al sacerdote che oggi non posso venire.»
«Vedi, Elvira? Non ho bisogno di entrare in un ordine, mi basta ubbidire a María.»
L’uscita azzeccata e ironica di Blanca ruppe il ghiaccio, perché Elvira aveva avuto modo di capire che María Topete Fernández, la nota funzionaria di Ventas, era molto occupata. Inoltre avrebbe avuto sulla coscienza la sua assenza alla messa pomeridiana. L’argomento che l’aveva fatta arrivare fin lì da Cercedilla, con l’autista e un viaggio di andata e ritorno in giornata, doveva proprio essere importante.
Dopo che Blanca ebbe chiuso la porta, María fissò l’invitata con gli occhi azzurri. Non ebbe bisogno di fare domande. Fu sufficiente quello sguardo inquisitorio perché la donna cominciasse a esporre la ragione della visita.
Suo figlio Luis aveva preso una sbandata per una rossa, una zotica, nipote della portiera e cuoca del Paular. E l’aveva sposata con il rito civile! María non la interruppe per dirle che sapeva già ogni cosa. In realtà, lo sapevano tutti i loro conoscenti. Non volle ricordarle la cerchia dell’Ambasciata norvegese e che grazie al nome di quel figlio rosso Elvira era potuta entrare e uscire dalla legazione con la posta. Immaginando quanto la donna fosse angosciata e turbata, la funzionaria di Ventas la lasciò parlare.
«Quella poco di buono è rimasta incinta. Chissà di chi è la creatura. O per lo meno così ha fatto intendere alla mia domestica, la vecchia Vicenta. Dovrei buttare per strada anche lei. Vizia i miei figli. Insomma, quella donna è stata arrestata e si trova nella tua prigione. Ti prego, María, tienila d’occhio. Quella vuole partorire il bambino per poter mettere le mani sull’eredità dei miei figli. E sulla mia! Se mio padre lo sapesse, o i miei fratelli, che vergogna! Che disgrazia, i miei figli.»
«E di Luis si sa qualcosa?»
«Niente di niente. Secondo un amico della polizia segreta e un’alta carica della Falange, pare che quelli del partito siano riusciti a farlo arrivare in Francia. Credimi, sono proprio disgraziata!»
«E l’altro tuo figlio? Si chiama Ramón, vero?»
«Oh, quello. Difende e difenderà sempre il fratello maggiore. Anche se non condivide le sue idee, sente il richiamo del sangue. Per di più, credo che voglia proteggere quella poco di buono. Me l’ha addirittura portata in casa quando i nostri erano pronti a prelevarla dall’appartamento di calle Pontejos. Non la sopportavo. Mi faceva ribrezzo, davvero. Appena possibile, ho organizzato la denuncia e me ne sono andata a Cercedilla.»
«E lei com’è?»
«Non si può dire che non sia graziosa. Ha un bel portamento, davvero. L’ho solo incrociata in corridoio, perché naturalmente mangiava in cucina con Vicenta. No, è tutto meno che stupida. È di quelle che hanno dentro il veleno marxista, direbbe il nostro caro Vallejo-Nágera.»
«Certo. Vedo che ha raggirato tuo figlio come si dev...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'ultima notte a Madrid
  3. Prima parte
  4. Seconda parte
  5. Terza parte
  6. Quarta parte
  7. Epilogo
  8. Ringraziamenti
  9. Appendice
  10. Copyright