«Sto morendo dal freddo» mormorò Blumsteim, senza volgere il capo.
«Eh?» chiese Mario, in un soffio, continuando a fissare la cattedra ove sedeva il professor Avolio.
Blumsteim aveva per natura una voce afona, che gli usciva di gola con sforzo; quando parlava diveniva rosso, eccitato, sembrava scoppiasse.
Una volta il professor Loffredo aveva detto che si trattava d’un castigo divino. Quando veniva l’ora di religione, infatti, Blumsteim raccoglieva quietamente i suoi libri, li legava con una sottile cinghia nera, e usciva tra le file di banchi.
«Vado» diceva, col suo fil di voce, e salutava educatamente il professore.
«Vai, vai» rispondeva, senza guardarlo, il prete: sul suo volto si dipingeva aria di scontento e schifo.
Blumsteim usciva senza far rumore, tirandosi lentamente la porta alle spalle. S’era poi saputo che aveva un permesso speciale per disertare l’ora di religione.
Il prete Loffredo spiegò che la famiglia di Blumsteim non era cristiana. «Dio punisce nei figli, molte volte» aveva detto, scotendo tristemente il capo. Così parecchi dei ragazzi guardavano il compagno incuriositi e inquieti.
Ma Blumsteim, quantunque scarso di parole, trattava tutti con cortesia, sorridendo, guardando dritto in faccia coi suoi piccoli occhi marrone, spersi nel pallido viso.
Era un ragazzo diligente, pieno di puntiglio: quando s’impuntava nei compiti in aula diceva sottovoce a se stesso: «Glück, Paul. Glück zu».
«Cosa vuol dire?» gli aveva domandato Mario una volta.
Blumsteim aveva sorriso appena appena, scuotendo la testa.
«È per farmi coraggio.»
Il primo giorno di scuola, nel tumulto dei ragazzi per occupare i posti, Mario fu un po’ a disagio.
Molti, già amici, s’eran sistemati vicini. L’unico che lui conoscesse era Corcione, infatti costui aveva urlato: «Morrone, vieni. Qua».
Ma più tardi il professor Abbate assegnò i posti di propria iniziativa. Così Corcione era andato a finire nel secondo banco della fila destra, a fianco di De Luca, mentre Mario fu assegnato alla fila di centro, con Blumsteim, dietro Di Marzio e Frascani.
Però non ne era rimasto scontento, e neppure l’altro: dopo qualche mese di scuola era nata tra loro una curiosa amicizia, fatta soprattutto della quotidiana vicinanza, e di non molti discorsi.
«Sto morendo di freddo» ripeté Blumsteim, cercando di parlare un po’ più forte e, insieme, di mantener tono sommesso.
Mario aggrottò la fronte, provò un lieve rancore.
Interamente preso dai propri pensieri, mentre la voce monotona del professore risuonava intorno, non avvertiva quasi più, nei piedi, il gelo che l’aveva tormentato fin da prima mattina.
Le parole di Blumsteim ebbero l’effetto di farlo rabbrividire. Senza muovere il capo girò rapidamente gli occhi intorno, raccogliendosi tutto nelle spalle.
La nuca piccola di Di Marzio, avanti a lui, con la bianca sfumatura dei capelli tagliati di fresco, appariva contratta in mossa freddolosa.
Era accesa una piccola lampadina al centro del camerone grigio. Sporche tende di canapa nascondevano il giorno: per leggere bisognava aguzzare lo sguardo.
E intorno si sentiva un odore curioso: di pioggia fresca, legname marcio. Mario gettò l’occhio sotto il banco.
Vide le proprie scarpe ancora chiazzate di pioggia: nella cucitura fra tomaia e suola s’era rappreso del fango.
Dagli ombrelli ammassati in un angolo colavano rivoli fin presso la cattedra. Con la coda dell’occhio Mario guardò verso i compagni a destra: Corcione aveva accavallato le sue rosse gambe, accasciava il busto avanti, intontito.
Portava i calzettoni grigioverde da Balilla, come la maggior parte dei ragazzi.
Ora Blumsteim muoveva pian piano le cosce, strusciandosele l’una contro l’altra, come a darsi calore. Mario sospirò.
Anche delle adunate dopo scuola faceva a meno Blumsteim.
«Come fai ad aver freddo» soffiò verso di lui, con tono leggermente ironico. «Tu sei tedesco.»
L’altro sorrise, poi scosse la testa e restò immobile, in silenzio, perché il professor Avolio teneva gli occhi in loro direzione.
Finalmente mormorò, quieto: «Tu lo sai che non sono tedesco. Io sono austriaco».
Mario sollevò le spalle, attese un attimo. «Non è la stessa cosa?» sussurrò, ma d’improvviso tacque, spaventato.
Anche Paul s’era irrigidito.
Il professor Avolio aveva smesso di leggere. S’era sollevato dietro la cattedra nella piccolissima persona, ora si dirigeva alla lavagna.
Era un bassetto sotto i cinquant’anni, col viso da cinese. Calzava eleganti scarpe con la punta, spandeva un fiato di profumo.
Parlava pochissimo, con voce sorda, grave. Standogli accanto pareva trovarsi presso un oggetto, un muro, una cosa qualsiasi, distante e fredda... Ci si sentiva pieni d’inquietudine e disagio.
Quando interrogava faceva spavento. A bocca chiusa, rizzandosi sulle punte dei piedi, tracciava sulla lavagna un esercizio. Dopo, con un piccolo gesto, invitava a risolvere.
Seguiva l’operazione in silenzio, fissando l’alunno. D’un tratto sollevava una mano. Con sguardo gelido scorreva l’aula, e scandiva: «Zero. Quattro. Cinque».
Nessuno, neppure Blumsteim ch’era bravo in matematica, superava il sei.
«Interroga» sussurrò Blumsteim, preso da terrore.
Mario fece un segno dubitoso con gli occhi. Ora sentiva il cuore in gola, un senso d’umida disperazione lo intrideva tutto.
Gli sembrò aver deboli le gambe, braccia, mani, ogni parte del corpo: sospesa sulla nuca una minaccia.
D’un tratto pensò che Avolio aveva interrogato già la volta scorsa, trasse un sospiro incerto.
Volgendo lo sguardo intorno ebbe negli occhi la classe tremante. Di Marzio perfino, lì davanti, lui che sgobbava e non era mai in difetto... Stava immobile, contratto di paura.
Nella fila di destra, al primo banco, anche Capece aveva perso la sua aria tranquilla e un poco superiore. Chiuso nel cappotto di pelo, fermi i polpacci serrati negli eleganti calzettoni d’ufficiale presi a suo padre, guardava fisso verso la lavagna.
Corcione aveva rimesso giù la gamba, e s’aggrappava al banco, De Luca, schierate avanti a sé figurine di Santi, disegnava convulsi segni della Croce...
Dietro, Marotta si puliva gli occhiali con gesto meccanico. La sua bocca pallida e sottile era semiaperta, in attonita attesa.
Avolio finì di cancellare la lavagna, col cercine di stoffa. Ora volgeva l’occhio, lento, misterioso, sopra le teste chine degli alunni.
Mario sentì muoversi qualche cosa nel ventre.
«Prendete appunti» disse il professore.
Un respiro caldo, profondo, s’allargò per tutta la persona del ragazzo.
Nell’aula fu un frusciare vivace di fogli: ora gli scolari si movevano con esagerata, allegra esuberanza. Per molti occhi corsero sguardi solidali e amici. «Gottlob» sussurrò Blumsteim, e sorrise a Mario.
Anche questi sorrise. Avolio tracciava sulla lavagna molti segni, frazioni, parentesi, radici, per la classe era stridor lieve di penne.
Quando suonò il campanello i ragazzi si levarono in piedi, alzando il braccio. Avolio accennò un saluto romano fatto a mezzo, uscì movendo i suoi passetti veloci.
S’incrociò, sulla porta, con Abbate. I ragazzi dovettero levarsi di nuovo. Il prete sostò accanto la cattedra: li guardava con occhi accesi e divertiti sotto le folte sopracciglia.
Si tolse il cappello, spazzolò lentamente la tesa con la manica. Indugiava sempre nel dar l’ordine di sedere.
Alcuni dei ragazzi impercettibilmente abbassarono il braccio.
«Vi siete già stancati?» disse il prete, con tono saporito nella voce.
Finalmente ebbe uno scatto.
«Giù!» gridò, e i ragazzi sedettero di colpo, con fracasso di tavolette.
«Capece, voi siete un pupazzo» disse il professore. Si sparse un brusio leggero di risate, anche Capece accennò a sorridere.
«Cosa volete fare, nella vita?»
Il ragazzo s’alzò di nuovo, tendendo le gambe.
«Mi piacerebbe fare l’ufficiale» rispose piano, lo guardavano tutti.
«Allora andate a battere il tamburo» fece il prete, soddisfatto, e lasciò che tutti ridessero forte.
«Oggi è di buon umore» sussurrò Mario, dando un lieto colpo di gomito a Blumsteim. «Corregge i temi.»
Sulla cattedra giaceva infatti, gonfia, la borsa del professore.
Nell’aula si diffuse atmosfera nuova.
Mario cavò la sua penna tricolore, tolse il pennino. Con la parte in acciaio tracciò dei segni sulla tavoletta. Il legno era molle: venivan via scaglie grosse.
Mario continuò il disegno d’un cavallo. Da qualche tempo gli piaceva molto farne: li copiava da qualche libro, dai giornali... Proprio due giorni prima ne aveva raffigurato uno grande, in atto d’impennarsi coi garretti gonfi.
Gli era parso ben riuscito. Anche a Blumsteim il disegno era piaciuto, anzi lo aveva fatto circolare tra i compagni.
«Di Marzio» chiamò il professor Abbate, levando il primo foglio dalla borsa e agitandolo in aria. Nascose il mento nella sciarpa nera che gli avvolgeva il collo.
«Presente» disse il ragazzo innanzi a Mario, levand...