Che ci faccio io in mezzo a questi coglioni?
Sembrano tutti dei pupazzi colorati.
Verde.
Giallo.
Blu.
Ma che bandiera è?
Il blu e il giallo sono colori primari, nel senso che non possono essere generati da altri colori.
Io sono un “blu”.
Il verde si ottiene mescolando due primari.
Va da sé che...
Va da sé che?
Nulla!
Qui nulla è come sembra.
Dovrei essere un primario e invece mi sento un pesce senza acqua, una custodia senza pistola, una Giulietta senza balcone, un cellulare senza credito.
Me ne sto tutto il giorno in sala relax, seduto, immobile e in disparte. Tutt’intorno i miei compagni si agitano, e si sentono in dovere di parlare, di sentenziare su fatti che non conoscono per niente e che non li riguardano.
Aria fritta.
Aria fritta che rimbalza da una parete all’altra.
La stessa aria fritta che, una volta aperta la porta numero 7, scivola fuori e prende a vagare per i corridoi. Be’, almeno lei a un certo punto trova una via d’uscita. Io no.
Mi chiamo Lorenzo e sono un concorrente di “Amici”.
Ho diciannove anni, vivo a Torino, ma da due settimane vivo, anzi cerco di sopravvivere, in televisione.
“Perché non vai ad ‘Amici’?” mi dicevano i parenti.
“Perché non vai ad ‘Amici’?” mi dicevano i vicini.
“Ma cosa cazzo è ‘Amici’?” mi dicevano gli amici, quelli veri, quelli a cui faccio ascoltare i pezzi che scrivo al parco del Valentino. Gli stessi con cui faccio le vasche in via Po a guardare le ragazze e tutte le signore bene che mi scrutano con i loro occhi inespressivi. Occhi che parlano di una vita vuota spesa a ricercare l’approvazione degli altri e mai di sé. Vite sciupate in attesa di un treno da afferrare al volo. Peccato che una volta salite in carrozza scoprano che non ci sono più posti a sedere. A quel punto, allora, se ne stanno lì, in corridoio, a farsi sballottare dagli eventi cercando solo di non cadere... Cadere e poi rialzarsi sarebbe troppo umiliante... poverette!
Non so fare nulla.
O meglio, credo di non saper fare nulla.
Dalla mia ho solo una chitarra, una voce e un enorme senso di inadeguatezza.
Ed è proprio quello che non si potrebbe che vorrei, / ed è sempre quello che non si farebbe che farei, / ed è come quello che non si direbbe che direi / quando dico che non è così il mondo che vorrei. / Non si può / sorvolare le montagne, / non puoi andare / dove vorresti andare. / Sai cosa c’è, / ogni cosa resta qui, / qui si può / solo piangere / e alla fine non si piange neanche più. / Ed è proprio quando arrivo lì che già ritornerei, / ed è sempre quando sono qui che io ripartirei, / ed è come quello che non c’è / che io rimpiangerei, / quando penso che non è così il mondo che vorrei.
A me non piace molto parlare, preferisco che lo facciano gli altri, meglio ancora quando lo fanno i grandi come Vasco. Lui canta tutto quello che penso, ma a differenza mia, lui ha il coraggio di scriverlo. Anch’io scrivo, e non per esercizio di stile. Forse per necessità, per riempire il vuoto che sento dentro, per crearmi delle vite parallele. Lo faccio nella mia stanza. La riempio fino a che diventa zeppa di parole, a volte non rimane spazio nemmeno per dormire. Mangio su frasi sparse qua e là, mi addormento sui pensieri scaldandomi con coperte di parole, poi, ogni tanto, qualcuno apre la porta e tutto scompare, tornano a esserci solo la scrivania, il letto e la mia chitarra. Le mie canzoni vivono nella mia mente e nella mia stanza.
“Dove credi di andare, se tieni tutto per te?”
Il mio amico Paolo non lo sa, ma è stata questa sua frase a farmi capire che dovevo fare il salto e provare a uscire dalla mia stanza. Dovevo far diventare la mia esigenza di scrivere l’esigenza degli altri di ascoltarmi.
Non chiedetemi come e perché, ma mi sono ritrovato agli studi Elios di via Tiburtina, a Roma, e qualcuno, a un certo punto, mi ha detto: “Sei nella scuola di ‘Amici’”.
È successo tutto talmente in fretta che il mio cervello ha registrato solo due cose: la prima è che Mara Maionchi, tra un “Che due maroni” e un “Ué ciccia, stai calma”, mi ha detto che le interessa conoscere “il mostro” che ho dentro; la seconda è una frase di Grazia Di Michele: “Tu per me non sei un cantante, la tua voce mi ricorda una moka del caffè, e non sei nemmeno un cantautore, la tua canzone denota una scarsa personalità e una scrittura adolescenziale”.
Devo dirvi cosa ho provato?
Niente.
Aria fritta.
Mi auguro solo che non mi abbia scelto come suo personale punching ball, non riuscirei ad affrontare una battaglia nella battaglia.
Siamo tutti in saletta relax.
Da lontano si sente avanzare un suono sordo.
Ormai lo conosciamo bene.
Sono gli stivali di Zanfo.
Tum tum.
Si apre la porta e lui compare. La faccia che ha non mi piace per niente. Il primo sguardo che incontra è il mio. Il che significa che per me sono cazzi.
«Avete firmato un regolamento o sbaglio?» ci chiede.
I primi della classe rispondono in coro.
Io non emetto alcun suono.
«Qualcuno di voi deve dirmi qualcosa?»
Silenzio.
Occhi che come palline del flipper rimbalzano in altri occhi.
Silenzio.
«Decidete voi: o il quiz continua, ma allo stesso tempo aumenta anche la mia incazzatura, o qualcuno si fa avanti e finisce tutto qui.»
Silenzio.
Doppio silenzio.
«Ok. Mi arrabbio. Potete mandarmi l’RVM?» chiede alla regia in ascolto.
Sulla TV della sala relax, nell’ordine, vediamo:
a) io che entro in bagno con le cuffie alle orecchie;
b) lo spogliatoio vuoto con la musica del Liga a palla;
c) una scritta in sovrimpressione che dice: RUMORE DI ACCENDINO e subito dopo si sente clic clic clic;
d) io che esco dal bagno e faccio una pippa sul fatto che nella scuola manca il fuoco;
e) io che rientro in bagno; si sente, amplificato, che aspiro;
f) io che esco dal bagno con la faccia visibilmente rilassata.
Poi sul monitor compare il logo di “Amici”.
Cerco lo sguardo di Zanfo. Se ne sta lì, in piedi, gli occhi duri e fessurati, non sbatte nemmeno le palpebre.
«Sì, scusa» provo a dire.
«Delle tue scuse non me ne faccio nulla, Lorenzo... Ci sono altri che fumano in bagno?»
Mario alza la mano, Roberto pure.
Zanfo prima guarda uno, poi l’altro.
«Sapete cosa non sopporto, cosa mi dà più fastidio? Non che fumiate in bagno, quelli sono cavoli vostri. Certo, mi spiace fortemente per la vostra salute, ma sono affari solo vostri. A darmi fastidio è l’essere preso in giro. Mi irrita sentire le vostre voci dopo pranzo chiamarmi con il microfono e implorarmi di permettervi di fumare. Non sopporto di sentirvi promettere che quella sarà l’unica sigaretta della giornata, di vedervi provare a impietosirmi... Non sopporto neanche me che, come un coglione, vengo qui con voi a fumare quella che secondo le vostre promesse dovrebbe essere l’unica concessione, l’unico strappo al regolamento che io autorizzo. Poi che succede? Io me ne vado e qualcuno di voi si comporta come se fosse più furbo di me. Qualcuno pensa che i suoi diciannove anni lo rendano più furbo di me, che ne ho quarantasei... È per questo che mi incazzo, sento tradita la fiducia che ripongo in voi... Secondo voi perché non si può fumare in questa scuola?»
Bruno, primo della classe, risponde subito, senza nemmeno prendere fiato: «Primo perché il fumo fa male, secondo perché in Italia c’è una legge che vieta il fumo nei luoghi chiusi... e terzo perché non è giusto che chi non fuma subisca passivamente il fumo altrui...».
«... o più banalmente per evitare incidenti, tipo incendi e quant’altro che metterebbero a repentaglio l’incolumità di tutti voi, noooooo?» incalza Zanfo. «A me non piace fare il carnefice ma per fortuna in questa scuola non sono io a decidere quali provvedimenti disciplinari prendere. A me rimane solo il rammarico di essere stato preso in giro da persone che credevo oneste e adulte e a cui avevo dato fiducia.» Poi, girandosi verso di me, conclude, prima di infilare la porta: «Forse hai ragione tu a pensare che i miei quarantasei anni non bastano a capire che tipo di ragazzi ho davanti».
E il rumore dei tacchi degli stivali si perde nel corridoio.
Sono nella mia stanza e ripenso alla figura di merda che ho fatto oggi.
Vorrei quasi chiedere il numero di cellulare di Zanfo per chiamarlo e dirgli che sono veramente dispiaciuto. Lui mi sta pure simpatico, è uno persino obiettivo. Ci si può parlare di tutto, anche se a volte la sua capacità di leggerti dentro ti fa sentire piccolo e nudo. Mi piace la sua finta “ruvidezza”, tradita spesso da slanci d’affetto che ti sciolgono il cuore come neve al sole.
Toc toc.
«Avanti» dico io.
«Se non apri, è un po’ difficile» dice una voce che riconosco subito.
È Valentina.
Sono in boxer, ma chi se ne frega, la stanza è messa peggio di me. Apro la porta e davanti a me, in una camiciona di flanella di tre, quattro taglie più grandi, Valentina mi sorride.
«Che fai?» mi chiede.
«Nulla, pensavo...» rispondo io.
Senza nemmeno chiedermi il permesso, Vale entra nella mia stanza e va a sedersi a gambe incrociate sul letto. Io sono ancora in piedi, la mano sulla maniglia.
«Certo che pensare qui dentro non deve essere semplice... Che cos’è tutto questo casino?»
Chiudo la porta e, senza proferire parola, raccolgo quello che riesco da terra, calzini, maglie, slip, lattine di birra vuote, fogli pieni di frasi, suggestioni, e costringo tut...