«A riposo si metterà lei...»
Il neorealismo italiano ci ha consegnato, tra i suoi capolavori, un film che ha come protagonista un mite e silenzioso pensionato, ridotto dopo una vita trascorsa a lavorare a non essere più in grado di sopravvivere economicamente e disperato fino al punto di pensare al suicidio. Sto parlando del famoso Umberto D. di Vittorio De Sica, uscito nel 1952.
Umberto Domenico Ferrari ha lavorato al ministero dei Lavori pubblici e ora che è in pensione vive in una camera d’affitto con il suo unico amico, il cane Flike. Umberto è un uomo dal carattere schivo, è rimasto solo con le sue difficoltà economiche e cerca di salvare la propria dignità. Isolato dal mondo, si ritrae sempre più in se stesso e si accorge di non essere in grado di far fronte alle spese per vivere. Così si fa ricoverare in ospedale per avere un letto e un pasto, finché lo sfratto ricevuto dalla sua padrona di casa lo getta nella disperazione. Umberto non vede alcuna alternativa e allora decide che l’unica via d’uscita è suicidarsi gettandosi sotto un treno; ma quando ci prova il suo fidato cagnetto si accorge del pericolo, si divincola e riesce a scappar via. Senza il suo unico affetto Umberto non ce la fa a morire, così insegue il cane. Alla fine si ritroveranno, compagni di sventura, e insieme proseguiranno il cammino nel difficile tentativo di sopravvivere.
Tragico e poetico, forse più introspezione psicologica che affresco sociale, Umberto D. racconta, non senza avere sollevato a suo tempo polemiche, delle disperate condizioni di vita di un sessantenne in quella stagione del dopoguerra italiano. È un film sempre da rivedere. Ma per fortuna, e ovviamente visto che sono passati sessant’anni, è un film che ha solo sporadici riferimenti alla condizione di oggi di un sessantenne. La pellicola ai nostri occhi contemporanei risulta, sul piano sociologico, datata per due motivi: da una parte le condizioni economiche e psicologiche del protagonista che ai giorni nostri possiamo ritrovare solo in alcuni casi estremi di disagio, dall’altra l’età di Umberto, che probabilmente oggi collocheremmo spostata in avanti di una ventina d’anni.
Facciamo un salto nel tempo, fino al Gianni e le donne di Gianni Di Gregorio. Un film godibilissimo, anche questo con protagonista un sessantenne, Gianni appunto, alle prese con figlia, madre, moglie e tante altre. Gianni è un personaggio simpatico, svagato e un po’ inconcludente e la sua vita da niente scorre monotona fra commissioni, faccenduole domestiche e passeggiate con il cane: del resto si è pensionato presto e di tempo ne ha fin troppo. Nelle lunghe giornate in cui centellina le commissioni che gli vengono assegnate dalle sue donne, Gianni cerca qualche escamotage per evadere dal tran tran lasciandosi trascinare senza troppa convinzione in improbabili storie. Ad esempio, insieme a un amico cerca senza successo l’avventura con due avvenenti e giovani ragazze, oppure si imbuca a una festa della vicina di casa trentenne rimediando solo un intruglio che lo fa vagare strafatto per tutta Roma fino all’alba, o ancora s’infila nel traffico dopo aver ingerito una pastiglia di Viagra, e per la fretta di raggiungere l’abitazione di una escort dall’altra parte della città finisce per provocare un tamponamento. Sarebbe forse meglio rassegnarsi, come quasi tutti gli altri suoi coetanei del film, che passano le giornate vagando con il cane come compagnia o chiacchierando di nulla sulle panchine, ma lui non ne vuole sapere e continua a sognare giovani donne.
Il mondo naturalmente è cambiato rispetto all’Umberto D. e nelle vicende di Gianni riusciamo a riconoscerci un po’ di più. Il personaggio poi è simpatico e la bravura del regista è fuori discussione.
Ma la realtà dei giovani-anziani di oggi è davvero questa? Davvero l’alternativa è solo tra il modello tradizionale «panchina e chiacchiere» e il modello «commissioni, svago e inconcludenza» rappresentato da Gianni?
Difficile dire se il cinema riesca a rappresentare la società. Anche perché la realtà è molto frastagliata. In fin dei conti l’immagine che ci propone il film è ancora allineata al paradigma tradizionale della persona di terza età che ha terminato la vita lavorativa attiva e che si trascina in un limbo dai confini un po’ vaghi.
Come ho anticipato nel primo capitolo, il modello di riferimento tradizionale che serviva per capire le fasi di vita era chiarissimo e prevedeva questi step: l’infanzia e la giovinezza, durante le quali studiavi e ti preparavi alla fase successiva; la fase adulta e della maturità, che doveva essere dedicata al lavorare, all’essere attivi e produttivi, al mettere su famiglia e all’accudire eventualmente i genitori anziani; quindi l’ultima fase, in cui era previsto di smettere di lavorare e di produrre e durante la quale era normale che si godesse «il meritato riposo» (se andava bene e non si era nelle condizioni di Umberto D.).
Insomma il paradigma tradizionale prevedeva che intorno ai sessant’anni, ma magari anche prima, terminasse la fase di vita matura coincidente con il lavoro e con l’essere attivi e impegnati.
Gianni è un sessantenne del 2011, quindi la salute e la prestanza fisica sono ancora buone e le opportunità che gli si parano davanti numerose, ma il come fa scivolare le giornate e lo scorrere inconcludente della sua vita non appaiono molto diversi dal modello tradizionale.
La domanda a cui dobbiamo rispondere a questo punto riguarda proprio il modello tradizionale: a cosa viene associata, nel modello tradizionale ma anche in quello che è sempre stato il sentire comune, la fase di vita anziana e della pensione?
Le associazioni più frequenti sono le seguenti.
• È, nel modello tradizionale, la fase in cui «ci si mette a riposo meritatamente» dopo una vita spesa, con fatica e responsabilità, a lavorare e a tirar su famiglia.
• È la fase in cui si incomincia a «ritirarsi dal mondo»: la conquista di obiettivi e mete attraverso le quotidiane battaglie può lasciare spazio al vivere più serenamente, magari, se si è fortunati, in un buen retiro.
• È il tempo dell’inattività, è l’inverso del lavoro, è lo «stare a casa».
• È il momento di quando si smette, ci si ferma, si tirano i remi in barca.
• È, nell’accezione più pessimistica, l’«anticamera dell’aldilà», la fase in cui psicologicamente ci si spegne lentamente.
Credo proprio che il modello tradizionale, così come ho appena provato a delinearlo, fatichi molto a descrivere la realtà di oggi, e non solo perché sono cambiate le regole pensionistiche. Quella dei nostri giorni è una realtà in cui sono numerosissimi, probabilmente la maggioranza, i casi di persone, uomini e donne, che approcciano i loro anni della vita nuova cercando di essere il più possibile attivi e con impegni. A prescindere dall’essere già in pensione o no.
Mi sembra interessante riportare alcune espressioni che ho sentito spesso utilizzare da persone in queste fasce di età quando descrivono la loro vita attuale, perché sintomatiche di una visione di tale fase come di una stagione basata sull’«essere attivi», esattamente il contrario del «mettersi a riposo».
Dicono ad esempio i cinquantenni e sessantenni di «sentirsi impegnati in attività», di «essere ancora operativi», di «guardarsi in giro per trovare opportunità». E per raccontare le attività in cui si stanno impegnando, usano verbi come: «iniziare», «rischiare», «inventarsi», «incuriosirsi», «esplorare». Chi è incuriosito da cose nuove che non conosce e si mette a esplorare terreni di gioco sconosciuti non solo è attivo ma immette una gran quantità di energie positive nelle occupazioni cui si dedica. Chi si inventa e attiva nuove iniziative fa il contrario del tirare i remi in barca. Chi inizia a dedicarsi a una nuova attività e accetta di rischiare guarda avanti, non indietro.
Insomma, non si disarma.
È proprio difficile trovare qualcuno che preveda di seguire il paradigma tradizionale. In generale si prova a star lontani sia dal modello «panchina e chiacchiere», sia dal modello «commissioni, svago e inconcludenza».
Tra il tempo del riposo e del ritirarsi e il tempo dell’essere attivi e impegnati, per un numero sempre più alto di persone all’alba della vita nuova non c’è dubbio su dove va la scelta: attivi e impegnati, magari anche con qualche attività lavorativa pur essendo già in pensione. Mi immagino a questo punto un’obiezione: ma essere attivi non è necessariamente sinonimo di continuare a lavorare, non confondiamo le cose. Certo, può comprendere tantissime attività (e infatti più avanti vedremo come sono variegate quelle praticate dai cinquantenni e dai sessantenni), ma bisogna ammettere che, soprattutto per le persone per le quali la professione è stata una esperienza centrale della vita, anche quando si diventa dei giovani-anziani un’attività lavorativa conta.
Vale forse la pena che a questo punto provi a mettere a fuoco meglio cosa intendo per «essere attivi» e per «mettersi a riposo», se non altro perché di recente mi sono imbattuto in una paradossale pubblicità di una agenzia di viaggi che prometteva una vacanza di «riposo attivo» e come tutti gli ossimori mi ha subito creato un’impasse mentale che vorrei sciogliere.
Per superarla, provo a partire da un altro concetto: l’inattività.
I dizionari propongono questi sinonimi dell’inattività: inoperosità, poltroneria, pigrizia. Non mi ritrovo del tutto in questi sinonimi, mi sembra che scontino in maniera eccessiva la nostra impronta culturale per cui è buono ciò che è azione, mentre penalizzano ciò che può essere introspezione, meditazione, riflessione. Insomma, l’essere attivi sicuramente rimanda all’azione, all’agire, al fare, all’operosità, ma – per usare il concetto in modo utile ai nostri fini – credo debba ricomprendere anche l’intelligenza del progetto e la responsabilità dell’impegno. E non ha certo come suo contrario il pensiero e la riflessione. Il suo contrario è invece il vuoto di azione, di iniziativa, di progetto, di impegno. Avete presente, tanto per non parlare sempre solo di quelli in là con gli anni, dei ragazzi di vent’anni che non lavorano, non studiano, non si danno da fare per trovare un interesse che sia uno e la mattina si alzano faticosamente dal letto verso mezzogiorno? Direi che loro sono sicuramente un buon esempio di cosa intendo per inattività.
Un altro aspetto che vale la pena di approfondire è il rapporto tra attività e riposo.
Nella mitologia greca Atena, figlia di Zeus, era la dea delle arti, dei mestieri e dei commerci. Ma era anche la divinità della guerra, e infatti fu la più accanita sostenitrice dei greci durante la guerra di Troia. Era venerata per gli aspetti più nobili del conflitto, mentre per gli aspetti più violenti e crudeli bisognava rivolgersi ad Ares. Inoltre a questo unì, nella mitologia più tarda, l’essere dea della saggezza e la sua sapienza comprendeva le conoscenze tecniche usate nella tessitura e nell’arte di lavorare i metalli. Mestieri, commerci, guerra, sapienza: gli antichi greci riconoscevano in Atena molti lati nobili dell’essere attivi.
Tra gli dei greci vi erano anche i gemelli Hypnos e Thanatos, figli della Notte, rispettivamente dio del sonno e dio della morte, forse le divinità che erano più lontane dall’essere attivi. Ma non mi risulta che tra gli antichi greci esistesse una vera e propria divinità del riposo.
È nella cultura ebraica invece, e poi in quelle cristiana, che il riposo ottiene un suo ruolo significativo. Il sabato per gli ebrei e la domenica per i cristiani sono il momento del riposo, e oltre al significato di giornata dedicata alla preghiera possono essere intesi anche come spazio per controbilanciare il tempo dell’azione. La pausa settimanale è poi entrata nelle abitudini della nostra società civile a prescindere dalle implicazioni religiose.
Se l’inattività consiste nel riposo settimanale, questo ha senso nella misura in cui controbilancia l’agire del resto della settimana, così come le ferie e le vacanze possono essere un periodo di riposo perché controbilanciano quarantotto settimane di attività lavorativa o di studio. Ma un quarto, un terzo o persino quasi metà della vita a riposo, dopo essere stati fanciulli e giovani non necessariamente attivi, cosa controbilancia?
L’esperienza di chi andava in pensione negli anni Cinquanta e Sessanta poteva ancora avere il significato di un riposo che bilanciava la vita dedicata al lavoro. Ce lo ricordano Mirabile, Carrera e Palminiello, che nel presentare i risultati di uno studio del 2006 su quello che chiamano «il fascino discreto del diritto al riposo» dicono: «mentre negli anni Cinquanta-Sessanta, usciti dal lavoro in media a 65 anni, si viveva in pensione poco più di uno o due anni, oggi la fase della vita che ha inizio con l’uscita dal lavoro può raggiungere e persino superare i vent’anni, e costituire perciò un quarto dell’intera esistenza di un individuo».
Insomma, il riposo è un’aspirazione e persino un diritto sacrosanto, ma non riesce più a dare un significato esistenziale a chi ha davanti a sé, al termine della maturità, dieci, venti e magari trent’anni di vita in buona salute. Questo vale per i tantissimi che hanno interrotto il lavoro secondo le favorevolissime regole pensionistiche degli ultimi vent’anni. Ma anche chi, in prospettiva, andrà in pensione a 66-70 anni avrà davanti a sé un periodo comunque troppo lungo per poterlo considerare solo «riposo».
Vorrei aggiungere un ulteriore elemento a questo ragionamento sul significato dell’attività, dell’inattività e del riposo. Ed è il concetto di ozio.
Se si pensa che la maggior parte delle attività economiche oggi comporta più pensiero che manualità, mi sembra che, per dirla con il noto sociologo italiano Domenico De Masi, lungi dal considerarlo il padre dei vizi, è l’ozio creativo quello che dà la linfa oggi alle attività economiche e contemporaneamente può rendere più libero l’uomo. Dice De Masi: «Esiste un ozio dissipativo, alienante, che ci fa sentire vuoti, inutili, ci fa annegare nella noia e nella sottostima di noi stessi. Esiste un ozio creativo, attivissimo della mente, che ci fa sentire liberi, fecondi, felici, in crescita. Esiste cioè un ozio che ci depaupera e un ozio che ci arricchisce...».
Rimane però una importante differenza tra l’ozio, sia pur nell’accezione positiva, e l’essere attivi come ne abbiamo parlato prima: la differenza è la dimensione dell’impegno. Un conto è prendere un impegno, magari anche solo con se stessi, per svolgere una determinata attività, altro è librarsi in una attività speculativa e creativa senza confini e senza responsabilità. In questo, l’ozio creativo e l’essere attivi sicuramente rimangono cose diverse.
In definitiva: attivi lo si è quando l’esistenza è accompagnata dall’azione, dall’operosità, dal progetto e dall’impegno su ciò che si fa. E l’inattività è l’assenza di queste dimensioni. Il «mettersi a riposo» ha un significato per l’esistenza quando controbilancia un’esperienza attiva. E l’otium, più o meno creativo, può essere anch’esso un modo per essere attivi, ma è carente della dimensione dell’impegno.
Questa lunga analisi temo che lasci del tutto indifferenti gli statistici, gli economisti e le persone alle prese tutti i giorni con la gestione delle organizzazioni.
Ad esempio, se provate a chiedere a un economista cosa intende per attività e inattività, vi spara senza alcun tentennamento come risposta le definizioni di «tasso di attività» e di «tasso d’inattività», indicatori che si usano per capire come sta andando il mercato del lavoro. Se poi è bravo, vi raccomanda anche di non confonderli con il «tasso di occupazione» e il «tasso di disoccupazione».
E allora, visto che ahimè oggi gli economisti dettano legge, vediamo di che si tratta.
Gli inattivi sono molto più numerosi dei disoccupati. Infatti la disoccupazione è calcolata riferendosi alla cosiddetta forza lavoro: occupati, disoccupati e soggetti in cerca di occupazione, mentre l’inattività è calcolata per rapporto a tutta la popolazione residente che non lavora (e quindi prende in considerazione ad esempio le casalinghe e gli studenti, così come tutti quelli che non vogliono lavorare o non cercano lavoro). Quindi, con il tasso di disoccupazione si calcolano le persone che vorrebbero lavorare, ma non riescono a trovare un impiego, mentre con il tasso di inattività si prende in considerazione una popolazione molto più numerosa e altri gruppi di individui. Il tasso di attività invece misura la percentuale, sulla popolazione residente, di persone abilitate a lavorare e indica il livello di partecipazione al mercato del lavoro.
Come vedete, per l’economista l’essere attivi è strettamente collegato alla dimensione lavoro, così come l’essere inattivo è strettamente collegato al non lavorare.
In Italia, ad esempio, l’ISTAT ci dice che nel 2010 il tasso di inattività era il 51,6 per cento del totale della popolazione sopra i 15 anni. Nella fascia di età 55-64 anni raggiungeva il 62 per cento mentre per l’ultima fascia di età considerata dall’ISTAT (dai 65 anni in su) il dato è il 96,8 per cento, quindi un tasso altissimo. Anche se quest’ultimo dato mette insieme il sessantacinquenne ancora impegnato in mille attività e la novantenne che magari non ce la fa più a uscire di casa, fa comunque riflettere.
Peraltro, usando la lente di ingrandimento sui dati ufficiali, quel che si deduce è che il titolo di studio fa una grande differenza sul tasso di inattività. Quelli tra i 55 e i 64 anni che risultano inattivi sono addirittura il 78,1 per cento tra coloro che hanno la licenza elementare, ma scendono al 32,8 per cento tra i laureati. Tra gli over 65 è inattivo il 98,3 per cento di coloro che hanno la licenza elementare e l’85,1 per cento dei laureati. Insomma, chi più ha studiato più a lungo rimane nel mercato del lavoro e cerca di rimanervi, probabilmente anche per via dell’inizio ritardato dei versamenti contributivi.
Anche la differenza di genere rappresenta una variabile importante. Ad esempio, solo il 50,4 per cento dei maschi tra i 55 e i 64 anni risulta inattivo, a fronte del 73 per cento delle femmine.
Andando poi per estremi, e sempre considerando la classe di età 55-64 anni, si va da un tasso di inattività dell’89,3 per cento delle donne con licenza elementare fino a un bassissimo 24,9 per cento degli uomini laureati. Insomma, è un caso, quello dell’inattività, in cui l’uso delle medie può diventare molto fuorviante.
Ricordiamoci però, nell’affidarci a questi dati per la nostra analisi, che il tasso di inattività, per gli economisti e gli statistici, fa riferimento all’essere attivi o inattivi in modo trasparente nel mercato del lavoro. Quindi non riesce e non vuole considerare l’essere attivi in modo diverso dal lavorare e neppure riesce a considerare tutto il sommerso.
Vorrei, per concludere questo paragrafo dedicato all’essere attivi o a riposo, spendere qualche parola anche sulla prospettiva più concreta con cui possono essere interpretati questi due concetti: la prospettiva dell’attività o dell’inattività fisica. Questo perché la vecchiaia, o comunque l’avanzare dell’età, viene spesso associata all’inattività fisica e in effetti molte alterazioni funzionali, cardiovascolari e metaboliche che colpiscono chi è in là negli anni sono dovute proprio a una ridotta attività fisica oltre che alle modificazioni della composizione corporea.
È vero invece, come mi ricorda il medico tutte le volte che gli faccio visita, che l’attività fisica riduce la condizione di fragilità e migliora lo stato c...