Se potessi tornare indietro
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Se potessi tornare indietro

  1. 444 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Se potessi tornare indietro

Informazioni su questo libro

Quando tutto sembra finito, Rebecka riceve una preziosa seconda possibilità. Che dovrà usare per imparare a dire addio...
Una scogliera davanti alla città di Stoccolma, una donna si spinge sull'orlo del baratro. Si lascia dietro carriera, matrimonio, successo, denaro. Non è più tempo per i rimpianti, Rebecka è decisa e salta. Ma in quel preciso istante se ne pente e lancia un grido di aiuto. Qualcuno lo sente: Arayan, l'angelo custode del quale all'inizio la donna nega l'esistenza, fa di tutto perché lei riesca a riconciliarsi con se stessa, la sua vita e ciò che l'ha condotta a compiere quel gesto. A Rebecka viene data una preziosa, seconda occasione per rimanere ancora accanto al marito Mikael. Ma non si può mai davvero tornare indietro, e lentamente Rebecka capirà che, a volte, il modo più intenso di amare è lasciare andare. Il nuovo romanzo di Kajsa Ingemarsson è una storia commovente - ma che sa farci anche sorridere - sulla vita, la morte, il desiderio di possesso e soprattutto il vero significato dell'amore.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804619130
eBook ISBN
9788852025396

KAJSA INGEMARSSON

SE POTESSI
TORNARE INDIETRO

Traduzione di Anna Grazia Calabrese

Mondadori

Se potessi tornare indietro

A Tanja, sui prati verdi
Every single day
And every word you say
Every game you play
Every night you stay
I’ll be watching you...
STING & THE POLICE

1

Era un problema parcheggiare la sera tardi. L’Audi blu percorreva lentamente la strada buia, fiancheggiando la fila di macchine che i proprietari avevano lasciato lì da un pezzo per andare a rintanarsi nel calore delle casette illuminate tutt’intorno. L’auto rallentò ulteriormente fino a fermarsi accanto a una station wagon grigia, di marca asiatica. Dietro c’era un piccolo spazio, probabilmente scartato dagli altri a causa delle dimensioni.
La donna al volante iniziò a fare retromarcia e, dopo una serie di manovre esperte, la vettura si incastrò impeccabilmente, con qualche centimetro di margine. La portiera si aprì e la donna scese dalla macchina. Il vento sibilava pungente fra le case e aveva iniziato a nevicare. Non molto: sarebbero passati mesi prima che l’inverno si facesse sentire sul serio, ma qualche fiocco volteggiava nell’aria per poi sciogliersi, planando sul terreno bagnato.
La donna attraversò la strada. I tacchi sottili risuonarono sull’asfalto. D’un tratto, però, si fermò e tornò indietro verso la macchina, la cui portiera non era stata chiusa a chiave. Si tolse il cappotto, lo piegò e lo mise accanto alla borsa che aveva lasciato sul sedile posteriore. La giacca leggera che indossava non la proteggeva dal freddo, e una folata di aria gelida la fece rabbrividire. Attraversò nuovamente la strada. Stavolta non ebbe ripensamenti e in un attimo raggiunse la balaustra del belvedere. Dall’alto della scogliera lasciò errare lo sguardo sulla città. Era davvero una bella vista, e spesso i turisti arrivavano fin lassù per poterne godere. Ma in una serata come quella di turisti non ce n’era neppure l’ombra.
Appoggiò le mani sulla ringhiera. Qua e là la vernice era scrostata e un po’ di ruggine le restò fra le dita; alla luce dei lampioni aveva la stessa sfumatura delle sue unghie. Una coincidenza che nessuno avrebbe mai commentato. La donna era lì, ferma, scossa solo dai brividi. Sembrava confusa, come se non sapesse esattamente dove si trovasse e cosa ci facesse lì, ma poi il suo sguardo riacquistò lucidità. Si liberò della scarpa sinistra e appoggiò il piede a terra; poi si tolse la destra, aiutandosi con la mano. Quindi sollevò entrambe le scarpe, nere e lucide, e si guardò intorno. Fece un passo di lato e le posò su uno dei bassi piloni che costeggiavano la recinzione. I piedi, nelle leggere calze di nylon, erano direttamente a contatto con il suolo, ma la donna non sembrava avvertire né il freddo né l’umidità.
Trascorse qualche istante. Forse alcuni secondi, forse un intero minuto. Un uomo con un cane al guinzaglio passò sul lato opposto del marciapiede. Diede un’occhiata oltre i tettucci delle macchine parcheggiate e vide la donna, immobile, con il viso rivolto alla città. In seguito ne avrebbe parlato, raccontando di aver notato che indossava abiti leggeri, nonostante la serata gelida, e di non avere visto scarpe. La donna, infatti, portava solo gonna e giacca, ed era a piedi nudi: le costose pumps giacevano a un metro da lei, diligentemente riposte come su una mensola di un negozio.
A parte l’uomo con il cane, e una macchina alla vana ricerca di un parcheggio, era sola. Senza voltarsi, si sollevò la gonna sulle cosce e scavalcò la balaustra, prima con una gamba, poi con l’altra. Quando fu dall’altra parte dovette fare uno sforzo per tenersi in equilibrio: la balaustra non era stata concepita per essere superata e c’era pochissimo spazio dove appoggiare i piedi. Dal basso si avvertiva il rumore di poche auto: il traffico era rado a quell’ora. Non guardò giù: aveva già studiato il panorama, e non c’era niente da ammirare.
Chiuse gli occhi, inspirando dalle narici. Tentennò per una frazione di secondo, prima di lasciare che le dita si staccassero dalla balaustra. Un piede avanzò verso lo spazio vuoto. Una nuova folata di vento, gelido e possente. L’equilibrio fuori gioco, le dita dei piedi che cercavano d’istinto di restare attaccate al bordo. E poi... lo schianto.

2

Quando si affacciò nella mia mente quel pensiero? Un attimo prima di mollare la presa, o un attimo dopo? Forse nel preciso istante in cui tutto era in gioco. In cui la vita c’era ancora, ma la fine era inevitabile.
Si dice che prima della morte di una persona l’intera esistenza le scorra davanti come un film. Che paragone inadeguato. Di fronte alla morte non c’è niente da ridere e nessun pubblico ad applaudire. È piuttosto come il trailer di un film che avevi dimenticato di aver visto: scene che ti fanno tornare in mente un atto che ricordavi solo vagamente, che ti fanno comprendere come un evento abbia portato a un altro e come la tua vita sia stata solo una lunga catena di tanti anelli. Tutti quelli che ritenevi avvenimenti a sé stanti erano in realtà parti di un unico racconto. Il tuo racconto, che parla di te e delle persone a te vicine.
Nessun film. O almeno non nel mio caso.
Come può cambiare la prospettiva, in modo radicale e prepotente, così in fretta? Quando ero in piedi su quel ciglio – alla fine del mondo – con ai piedi solo le calze e la mano ancora avvinghiata alla balaustra arrugginita, ero assolutamente sicura di quello che stavo facendo. È questo che ricordo più di qualsiasi altra cosa: la determinazione. Ma è come se fosse sparita subito dopo: nello stesso istante in cui lasciai andare la mano, tutto cambiò.
La mia caduta durò un’eternità. Davanti agli occhi mi passarono un appartamento lindo e ordinato, con mobili vecchi e logori; una madre talmente ansiosa da essere incapace di ragionare; un padre che appariva e scompariva come le maree, senza però la luna su cui regolarsi; una sorella minore nel letto accanto, immersa in un sonno scandito da respiri regolari. Vidi nostalgia, decisione, e una grande stanchezza. Compiti in classe eseguiti a regola d’arte, cenni compiaciuti di soddisfazione, pacche sulle spalle. Vidi cene a tarda sera, rapide strette di mano e abiti scuri. Tappeti orientali dai disegni intricati, automobili appena lucidate e sedili d’aereo con spazio extra per le gambe e cene con tovaglie di lino. Vidi gioielli costosi, lucenti coppe di cognac, ma anche purè di patate liofilizzato e ketchup. E poi cani: piccoli e arruffati, oppure grossi e pesanti.
Ma soprattutto vidi Mikael. E urlai «Stop!», perché quella parte del film me la ricordavo e non volevo vederla. La mia protesta rimase però inascoltata, e l’espressione preoccupata di Mikael, la sua disperazione, la sua rassegnazione riempirono lo spazio attorno a me. «Ti amo» mi disse, con una voce che riecheggiò per tutta la volta celeste.
«Ti amo, cerca di capirlo una buona volta.»
Come avevo fatto a non sentire una voce così potente? Non sono in grado di rispondere: posso solo raccontare il resto della caduta. Di come si sia dilatata in un tempo infinito, con le parole di Mikael che mi risuonavano nelle orecchie. Di come all’improvviso capii tutto. «Ti amo» mi aveva detto, ed era vero. Il nostro amore non era un’invenzione, un errore, qualcosa che viveva solo nella mia fantasia. L’eco proveniente in quell’istante da ogni stella dell’universo lo testimoniava. Come avevo potuto dubitarne, e come avevo potuto lasciare che simili meschinità mi trascinassero sull’orlo dell’abisso?
Il trailer era giunto alla fine e io riaprii gli occhi, che si riempirono immediatamente di lacrime per il freddo e la velocità del vento durante la caduta. Era commovente, in fondo, notare come il corpo fosse in grado di reagire negli ultimi istanti di vita, come se avvertisse il vento durante una bella corsa con la bici in discesa. Forse fu solo la percezione fisica, la sensazione di continuare a vivere e appartenere al mondo, che indusse le parole acquattate da qualche parte dentro di me a trasformarsi in una preghiera. Ciò che stava per accadere doveva essere fermato.
Pregai, come non avevo mai pregato prima.
E la mia preghiera fu esaudita, visto che qualcuno bloccò la mia caduta sull’asfalto.

3

Non sapevo cosa pensare. Per un breve istante immaginai che fosse stato tutto un sogno – un orribile, atroce, spaventoso incubo –, ma ciò che intercettò il mio sguardo non fu né l’oscurità della mia camera da letto, con le sue ben note sagome, né l’anonima parete della stanza di un albergo. Mi ritrovai invece in cima alla scogliera, con lo scintillio di Stoccolma davanti a me, fra un cielo nero e un mare altrettanto cupo. Rimasi per un attimo in piedi con il viso al vento, che mi provocava dei brividi. Dunque ero tornata. Ero spiazzata e confusa, come in un magico cambio di scena durante una rappresentazione teatrale.
Per prima cosa fui travolta dal sollievo. Non era successo, non l’avevo fatto, e il senso di gratitudine che provai in quel momento fu più profondo di qualunque altra sensazione mai provata.
Cominciai a ridere. Una risata che ribolliva come una bibita gassata appena stappata. In che modo fosse avvenuto il miracolo di cui ero appena stata protagonista, non riuscii a capirlo; ma che fosse successo qualcosa di grandioso era al di là di ogni dubbio. Non avevo spiccato il salto.
Il baratro che si apriva sotto i miei piedi mi aveva stordito. Ora tutto ciò che desideravo era scavalcare di nuovo la recinzione, dalla parte giusta stavolta. Infilarmi le scarpe, salire in macchina e avviarmi verso casa. Sarebbe stato tutto come prima, e al tempo stesso sarebbe stato tutto diverso. Avrei subito chiamato Mikael: non c’era tempo da perdere. Non era troppo tardi, tutto poteva ancora cambiare. Se prima non ci credevo, ora ne avevo invece la certezza. Quei secondi lunghi un’eternità avevano stravolto tutto. Ciò che nella mia vita avevo sempre considerato grave e senza speranza, al punto da decidere di farla finita, adesso non suonava più minaccioso di un temporale affrontabile con stivali di gomma e ombrello. Ogni cosa sarebbe andata a posto.
Ero stata così stupida e ingenua. Come mi era potuta venire in mente un’idea così folle? Togliermi la vita. Saltare nel vuoto da una scogliera, senza lasciare aperta neppure una minima possibilità di salvezza. Avrei potuto optare per i sonniferi, chiedere al mio medico una nuova prescrizione. Spiegargli che la vecchia medicina si era rivelata troppo blanda, che non riuscivo a dormire, che restavo sveglia. Il mio lavoro era stressante, a molti causava problemi di insonnia. Nessuno si sarebbe insospettito.
Dovevo essere davvero disperata, pensai con una strana freddezza, come se non si fosse trattato di me, ma piuttosto di un personaggio che avevo visto in un film o di cui avevo sentito parlare. Cercai di scuotermi, per liberarmi da quella sensazione d’irrealtà. Sollevai il viso, lasciando che un fiocco di neve vi si posasse sopra e mi ricordasse dove mi trovavo. Con la nuca piegata all’indietro, sbattei gli occhi nel cielo buio e senza stelle. Se esisteva un dio – cosa che potevo incominciare a credere, dopo un simile accadimento –, avrei senz’altro dedicato un po’ di tempo a qualche visita in chiesa. O avrei fatto una donazione a scopo benefico. Non che volessi cavarmela comprandomi un “indulto”, potevo benissimo dedicare del tempo anche a qualche opera di beneficenza. Fare davvero qualcosa. Organizzare collette, distribuire panini ai senzatetto, servire nelle mense dei poveri, lavorare in un consultorio femminile, qualsiasi cosa. Avrei di certo trovato un bel modo di dimostrare la mia gratitudine. Pensavo a questo mentre, in piedi, aspettavo di sentire il freddo umido sulla pelle.
Sul basamento di pietra della recinzione erano ancora appoggiate le mie scarpe. Potevo iniziare col venderle, come gesto simbolico. Anche se i vestiti usati hanno uno scarso valore, rivendendo le pumps seminuove di Gucci avrei potuto ricavare un biglietto da mille, se non – speravo – di più. Esistevano boutique di seconda mano specializzate in abbigliamento griffato. Non ne avevo mai visitata nessuna: lo shopping di oggetti vintage non era la passione della mia vita, ma poteva diventare il giusto e opportuno gesto di mortificazione per dare inizio al mio pentimento.
Chinai di nuovo la testa all’indietro e strizzai più volte gli occhi per il vento contro il viso. Sull’acqua lontana, laggiù, si riflettevano le luci di un traghetto diretto verso la città. Che cosa stavo facendo davvero? Che cosa avevo pensato di fare? Tutt’a un tratto non era più gratitudine quella che sentivo. Al suo posto un travolgente senso di colpa mi assalì, e come un implacabile tsunami mi scaraventò contro la spiaggia: non feci in tempo a mettermi al sicuro, i miei polmoni si riempirono d’acqua prima che io potessi guardarmi intorno in cerca di una via di fuga. L’immagine di Mikael fu l’unica cosa che vidi. Era in casa ad aspettare senza avere la minima idea di cosa passasse in testa a sua moglie. L’immagine di lui in poltrona – comodamente sdraiato con un libro in mano, i capelli leggermente arruffati, i piedi appoggiati sul tavolino – mi procurò un violento malessere. Deglutii, mi aggrappai con forza alla recinzione e annaspai in cerca d’aria. Come avevo potuto anche solo pensarci?
Al lavoro avevo messo in ordine tutte le mie cose. Come se fossi dovuta partire per una lunga vacanza. Avevo concluso tutti gli affari che avevo potuto, lasciato istruzioni, in modo discreto, su ciò che ancora restava da fare. Non ero una che piantava gli altri in asso e che non si assumeva la responsabilità di ciò che aveva intrapreso, pensai in un attacco di sterile orgoglio. Ci avevo veramente creduto?
Sapevo che Mikael se la sarebbe cavata sul piano economico: avevo pensato persino a questo. Aveva il suo reddito, e poi avrebbe ereditato i miei soldi. Il denaro gli sarebbe bastato a lungo. Ne ero quasi compiaciuta, come se quella potesse essere una sorta di compensazione. Avrebbe potuto viaggiare, abitare in una bella casa, mangiar...

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